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La Musica non basta
Il 5º Convegno sulla direzione corale della University of Music Fryderyk Chopin di Varsavia

di Veronica Pederzolli
dossier "Il gesto è già suono", Choraliter 58, maggio 2019

Tra il 26 e il 28 aprile 2019 si è tenuto a Varsavia il 5º Convegno sulla direzione corale organizzato dall’University of Music Fryderyk Chopin.
Anima del convegno è Dariusz Zmnicki, tra gli insegnanti di direzione di coro del Fryderyk Chopin University of Music e direttore dei cori dell’Università di Musica, dell’Università di Tecnologia e del Coro della Cattedrale di Varsavia.

Zmnicki in questi cinque anni di organizzazione della conferenza ha portato nella capitale polacca quasi trenta docenti provenienti da Europa, Asia e America. «È un progetto che sono certo arricchisca la vita corale a Varsavia. L’obiettivo principale è quello di dare spazio e osservare al lavoro direttori esperti per imparare il più possibile: si affrontano una grandissima varietà di questioni, dai metodi utilizzati nel guidare un gruppo fino alla condivisione di capacità, esperienze e, perché no, segreti».
Protagonista di questa edizione, con interventi programmati in diversi momenti del convegno, è Thomas Caplin che subito definisce il condurre come l’abilità di mettere il corista nella condizione di dare il proprio meglio

Si tratta dunque di un ampio ventaglio di competenze e risorse che il direttore deve avere e tra le quali sceglierà a seconda di chi ha davanti. Ciò che interessa a Caplin sono infatti le strutture psicologiche e sociali di colui che fa musica: c’è la creatività, il coinvolgimento e la gioia del fare musica.
Il direttore norvegese, autore di The learning conductor. A book about choral leadership e professore di direzione di coro presso la Inland Norway University of Applied Sciences, impone un decisivo cambio di rotta nel guardare alla figura del direttore di coro, rifiutando quel sistema autocratico per cui tutto ruota attorno al direttore e alla sua musica e in cui i coristi sono considerati un mero strumento. Per Caplin la questione non sta nel direttore ma nel corista: «come posso aiutare il corista a capire ciò che io ho compreso?». Egli auspica un direttore al servizio del corista e della musica, all’interno di un sistema che non è esattamente democratico: la possibilità che ognuno possa continuamente esprimere il proprio pensiero potrebbe rivelarsi eccessiva. E così porta l’esempio del giardino: il direttore è colui che sa di cosa ha bisogno ogni fiore perché possa crescere rigoglioso. In quest’ottica ogni corista è considerato per la persona che è, con i propri talenti e difetti: la sfida è quella di stabilire tra direttore e corista un contatto reale che consenta a quest’ultimo di ingrandire progressivamente il proprio spazio all’interno del coro, sempre a contatto con quello degli altri. Dietro ogni corista c’è un essere umano con cui si ha il compito di dialogare (e basti pensare al detto che identifica la voce come specchio dell’anima per capire quanto alta sia la posta in gioco), ma Caplin tiene a evidenziare: anche dietro ogni direttore c’è un essere umano.

Ecco dunque che nell’insegnamento della direzione di coro una delle prime domande per lui dovrebbe essere: chi è questa persona e come può migliorarsi, anche nel diventare un leader? Non è dunque sufficiente a sua vista concentrarsi esclusivamente sulla comunicazione tradizionale ma si deve guardare anche ai “ponti umani”.
Il direttore è un modello e, come il genitore o l’insegnante, è mentore, counselor, artista, guida, motivatore, intermediario. Insegnare direzione di coro significa insegnare a guidare l’intera persona e non solamente il musicista: è un compito difficilissimo ma importantissimo. Per guidare l’intera persona serve esperienza, come per tutte le abilità, e quindi Caplin auspica l’inserimento di tutti questi aspetti nel percorso tradizionale di formazione di un direttore di coro. Gli spunti sono dati dal management training o da tecniche che possono essere apprese e comprendono, per esempio, il body language, l’importanza di aver cura della modalità in cui si prendono delle decisioni e le si comunicano, l’aver ben chiara la differenza tra empatia e simpatia.

Nel percorso di formazione di un direttore è inoltre necessario considerare sempre più le realtà entro le quali gli studenti si troveranno a lavorare, che nella maggior parte dei casi sono amatoriali: qui la tecnica direttoriale e la conoscenza musicale non possono bastare. Ecco dunque che Caplin divide le competenze del direttore in quattro categorie: le competenze musicali, le competenze psicologiche, le competenze pedagogiche e le competenze di leadership. Tra queste nella formazione del direttore affida solo il 28% alle competenze musicali, riservando ben il 70% alle altre. «Faccio un esempio», racconta Caplin. «Di fronte a un problema di intonazione io potrei stoppare il lavoro per dire “quel passaggio non è corretto, curiamo maggiormente l’intonazione”, ma questo solitamente non aiuta e non dura nel tempo. Nel mio coro giovanile raccolgo le suggestioni dei ragazzini di quattordici o quindici anni, le loro idee per risolvere il problema, li rendo partecipi per poi guidarli verso la risoluzione. E funziona. Il mio lavoro sta nel liberare le loro idee, non certo nel fissare la mia».

Con il Torino Vocalensemble, coro laboratorio della conferenza nella giornata di venerdì 26 aprile, ne dà un esempio pratico in Let my love be heard di Jake Runestad: dopo aver affidato a ogni corista una propria porzione di palco cerca il crescendo finale, chiedendo di ruotare il proprio corpo nello spazio per cercare e incrociare sguardi.
Ha funzionato. Lo stesso Davide Benetti, direttore valdostano docente nella scuola per direttori di coro Il respiro è già canto di Torino, sceglie di mettere in luce la figura del direttore da un’angolazione un poco diversa, concentrandosi sul respiro. O meglio, sulle modalità di lavoro del direttore sul proprio respiro e su quello del coro.
Benetti subito chiarisce: il respiro non è solo l’atto che precede e che prepara un buon suono, ma nel respiro è già presente tutto ciò che sarà, sia per il cantore che per il direttore. Nel respiro si predispone tutto il corpo a un movimento musicale, a un gesto-suono: un corpo che respira e che si lascia respirare in modo fluido, naturale e armonico saprà adattarsi alle situazioni, agli imprevisti e ai cambiamenti che la musica richiede. E dunque il punto di partenza sta nella consapevolezza corporea. Il direttore deve guidare i coristi ad ascoltare il proprio respiro e Benetti ne fornisce un esempio di lavoro con il Torino Vocalensemble. Chiede così ai coristi di camminare sparsi per la stanza e a turno sentire il proprio respiro nei piedi, gambe, bacino, torace, spalle, braccia, mani, collo, viso e cranio: il corpo mosso dal respiro è un corpo capace di relazionarsi, ma lo stesso respiro stabilisce il contatto tra il musicista e la musica. Ecco dunque che la seconda parte dell’intervento si concentra sul respiro proprio della musica, che direttore e coro devono cercare in una totale aderenza tra il respiro musicale e quello di chi la esegue: attraverso il gesto e alcune suggestioni cerca i diversi colori del respiro, stimolando sempre la domanda «dove si posiziona nel corpo questo respiro?». Ne dà esempi pratici attraverso il Plorate Filii Israel dallo Jephte di Giacomo Carissimi, dove cerca attraverso il respiro la disperazione del lutto, il pianto; attraverso Dieu qu’il la fait bon regarder di Claude Debussy, prima nello stupore di fronte a una bellissima ragazza, e poi nella felicità del ricordo della madrepatria – a seconda della lettura che di questo pezzo si voglia fare; e infine attraverso la gioia del Laudate Dominum di Francisco Guerrero. Benetti conclude sottolineando la consapevolezza di quanto sia poco il tempo del direttore nella concertazione e quanto spesso questo aspetto sia – e possa essere – trascurato a favore di altri. Le dimostrazioni pratiche però hanno evidenziato le straordinarie potenzialità di crescita espressiva e di amalgama data da un lavoro così mirato al respiro e alla sua consapevolezza.

Decisamente più tecnico e tradizionale è l’intervento di Raul Talmar, direttore estone di grandissima esperienza che dal 2008 insegna Direzione di coro alla Tallinn University. «Il direttore ha bisogno delle mani?», si chiede infatti Talmar. E subito va a ricapitolare tutti gli ambiti di competenza in cui il gesto non serve. Innanzitutto l’insegnamento del canto: le tipologie di respiro, le modalità di rendere il suono omogeneo nei diversi registri e le tecniche di sviluppo della voce si possono tranquillamente affrontare senza l’utilizzo del gesto direttoriale. In secondo luogo le competenze che riguardano l’aspetto ritmico, come evidenziare schemi musicali che ritornano nello stesso brano, saper cantare sincopi e contare in misure non quadrate devono essere sviluppate al di là della gestualità del direttore. Lo stesso – sottolinea Talmar – vale per l’armonia, nell’ear-training, nell’ascoltare chiari intervalli o accordi o nell’allenamento al mantenimento della dissonanza. Infine anche le base dello stile musicale possono essere gettate senza l’utilizzo delle mani: un cantore deve sapere come cantare barocco, romanticismo, pop o rinascimento a prescindere dal gesto direttoriale.
Per Talmar esistono dunque milioni di cose che possiamo fare senza mani ma subito avverte: probabilmente ci troveremo in qualche guaio nell’eseguire e nel dirigere questa musica che è stata compresa e insegnata privandosi degli arti. Ed è qui che il valore del gesto direttoriale acquisisce la sua più grande valenza: nella performance. In questa estemporaneità è proprio attraverso le mani che il direttore può aiutare i suoi coristi nel delineare le frasi musicali, guidarne il fraseggio evidenziandone il climax, mostrare il cambio di dinamica o di tempo e all’occorrenza fermarlo, in una pausa e al termine del brano.
Per Talmar dunque è essenziale stimolare i futuri direttori a lavorare anche senza mani, soprattutto nel lavoro di concertazione, ma considera altrettanto essenziale la cura del gesto del direttore per tutti i momenti di esibizione. Solo un gesto curato infatti può aiutare i coristi a esprimersi più chiaramente, più esattamente, più musicalmente.
Al termine del convegno, dopo diversi focus group tra docenti, coristi e allievi di direzione di coro, Zmnicki si dichiara soddisfatto: «siamo tutti in accordo sul fatto che il direttore debba essere particolarmente istruito, determinato e al contempo flessibile. È emersa la necessità di sviluppare costantemente le sue capacità, che non devono mai fondarsi esclusivamente su un background musicale».

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