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Mino Bordignon, cantore bergamasco

di Bernardino Streito
Canto popolare, Choraliter 52, aprile 2017

«Cantore bergamasco». Con queste parole Mino Bordignon si autodefiniva in un diario biografico destinato alla pubblicazione, ma io vorrei amplificare il senso della sua definizione con qualcosa di simile: cantore delle cose del mondo, visionario delle cose del cielo. In questo titolo, che può sembrare a prima vista troppo celebrativo, si compendiano invece e si integrano due qualità specifiche dell’anima di Mino Bordignon, dell’uomo e del musicista.

Cantore delle cose del mondo: Bordignon amava la vita, la leggeva in tutte le sue manifestazioni, la cantava in tutte le sue espressioni filtrate dalla sensibilità personale, che era poi una vera e propria facoltà contagiosa veicolata dal linguaggio musicale.
Visionario delle cose del cielo: la spiritualità dell’esperienza che si proietta fuori e sopra il reale aveva in Bordignon un colore religioso, religione laica, ben inteso, e per questo tanto più penetrante grazie alla sua universalità.
Incontrai Mino Bordignon dapprima attraverso l’ascolto delle incisioni del Coro Incas, poi lo cercai per conoscerlo personalmente e dopo i primi incontri nacque fra noi una frequentazione destinata a trasformarsi in amicizia fraterna. Mi chiamò a collaborare con lui nell’attività del Coro I Cantori di Milano della Scuola Civica di Milano e accettò di buon grado la presidenza onoraria della Corale Polifonica Valchiusella (il mio coro); da quell’anno (era il 1967) non cessò mai di darmi prova della sua stima e della sua amicizia.
Mino Bordignon ebbe molti “strumenti” corali: il Coro della Scala, i cori della RAI a Milano, Roma e Torino, il Coro da Camera della RAI a Roma, il Coro da Camera della Scuola Civica di Milano, i Cantori di Milano, i Cantores Mundi di Borgosesia, tanti altri gruppi vocali, ma fra tutti vorrei parlare adesso del Coro Incas, forse la sua creatura più originale, nuova per i suoi tempi e per il repertorio, un gruppo di voci maschili dalla vocalità straordinaria, degna di meritare la qualifica “Il favoloso Coro Incas”, espressione che diventò il titolo di un leggendario LP più volte ristampato. Il sound di questo gruppo, almeno negli anni in cui ho avuto l’onore di frequentarlo, aveva qualcosa di prodigioso: un’autorità espressiva assoluta e una maestria vocale che travolgeva ogni difficoltà tecnica. Ascoltando il Coro Incas si rimaneva contagiati dall’esperienza magica dell’ascolto e ci si ammalava di musica e di coro.

Partendo dalle testimonianze popolari, il repertorio del Coro Incas si sviluppò ben presto, grazie al suo virtuosismo, in direzione della musica di ispirazione popolare, per progredire poi verso testimonianze classiche e originali, come si desume dal disco Incanto e magia del Coro Incas. Ma qual è la differenza fra “musica popolare” e “musica di ispirazione popolare”? Semplifico il dilemma in questo modo. L’armonizzazione e l’elaborazione che Bordignon apporta alle tematiche popolari generano, secondo me, la nobilitazione del materiale melodico a cui si applicano, pur conservandone il profumo di fiore di campo, anzi esaltando questo profumo. 

Mi sembra opportuno, a questo punto, fare una distinzione fra canto popolare e canto di ispirazione popolare:
  • il primo è l’espressione spontanea e anonima, sovente derivante da una certa funzione sociale ed esistenziale integrata alla vita della comunità di appartenenza, non legata alla personalità di un singolo esecutore: è lo specchio di una etnìa, l’immagine di un’area sociale che generalmente riflette il carattere del ceto popolare, il volto di un’anima;
  • il secondo è spesso “canto di autore”, là dove questi si è ispirato appunto a un certo stile autòctono sia nella melodia, sia nelle parole del testo. In questo caso la testura del canto è solitamente chiara e definita, tale da non presentare troppe difficoltà di decifrazione.

Per quanto riguarda il rapporto con l’habitat popolare, Bordignon ha esercitato la sua arte in entrambe queste classi, carezzando con entusiasmo creativo i profumi dei fiori di campo ed esaltando gli slanci dell’ispirazione dei poeti. Il repertorio del Coro Incas si era progressivamente orientato verso la letteratura d’autore, spesso di ispirazione popolare ma costantemente sorvegliata dalla maestria armonica e contrappuntistica che era la firma del carattere di Bordignon compositore, sempre orientato, lo posso testimoniare con sicurezza, verso la conquista del “nuovo”, del “più alto”. Le sue infallibili e originali intuizioni armoniche caratterizzavano quei brani che ho definito come “fiori di campo”, ne conservavano la genuinità e, insieme, ne nobilitavano l’espressione. Le sue armonizzazioni, o meglio, le sue elaborazioni corali mettevano in luce le più inattese suggestioni del più umile canto popolare, valorizzandone il fascino senza alterarne la sostanza elementare. Ricordiamo le parole di Beethoven, che armonizzò ed elaborò una cospicua quantità di melodie popolari provenienti da tutta l’Europa e che si accorse della ricchezza e della varietà delle loro diverse strutture modali, nonché dell’originalità dei loro moduli ritmici, tanto che scrisse al suo committente: 

«È vero che questi canti si armonizzano molto in fretta, ma restituire la semplicità, il carattere, la natura del canto non è per me sempre così facile come forse Lei crede, si trova un’infinità di armonie, ma soltanto una è conforme al genere e al carattere della melodia». 

Beethoven sosteneva dunque che fosse possibile una sola armonizzazione di un canto dato, e che l’armonia fosse implicita nella melodia stessa. Ecco, ascoltando le armonizzazioni di Bordignon ho l’impressione che quell’unica armonia sia stata da lui trovata. Che possa esserci un’intima parentela fra il prodotto popolare e la cosiddetta musica dotta, è testimoniato proprio da Bartók, quando afferma

«Il mondo melodico dei miei quartetti per archi non differisce in modo sostanziale da quello delle canzoni popolari», e – altrove – «Io sono convinto che ognuna delle nostre melodie popolari […] è un vero modello della più alta perfezione artistica. Nel campo delle forme più grandi lo sono una fuga di Bach o una sonata di Mozart. Quelle melodie sono altrettanti paradigmi classici dell’espressione impareggiabilmente concisa, e priva di ogni significato superfluo, d’un pensiero musicale». 

Trovo straordinaria l’affinità del pensiero di Bartók con i principi estetici di Bordignon; non per caso sono entrambi due giganti nell’esplorare e nel trattare l’humus popolare. Non dimentichiamo poi che molte fra le pagine più suggestive del repertorio Incas sono state composte da Bordignon stesso, e non credo di svelare un segreto quando ricordo che alcune di esse risultano firmate da un prestanome per opportunità ufficiali.
Ho detto: «visionario delle cose del cielo». Sì, perché il Maestro, sempre orientato verso la spiritualità dell’esperienza corale, è stato sensibile al richiamo delle “cose del cielo”: lo testimoniano la scelta dei brani compresi nel LP Incanto e magia del coro Incas, non soltanto, ma anche tutta la programmazione realizzata con i Cantori di Milano e la quantità di progetti ancora fervidi al momento della sua scomparsa.
Era nelle sue intenzioni, per quanto ne so, la composizione di un oratorio, di cui erano già stati organizzati alcuni episodi fra i quali una splendida Ave Maria, sono state redatte e pubblicate diverse elaborazioni corali sui temi della fede, alcune in linguaggio musicale moderno e nuovo, senza contare l’esecuzione di centinaia di concerti con il Coro da Camera e con i Cantori di Milano dedicati a programmi comprendenti le grandi pagine di Palestrina, Monteverdi, Frescobaldi, Cavalli, Bach, Händel e tanti altri grandi nomi.

La cronaca e l’analisi dell’esperienza musicale e spirituale del Maestro richiederebbe più di un grosso volume di appunti, a partire dagli anni della sua prigionia in Russia fino all’ultimo giorno di una vita consacrata alla musica e all’universo corale. Di questo fu e resta una icona inimitabile. Eccone un profilo anagrafico, dal mio punto di vista.
Mino Bordignon: compositore, armonizzatore, trascrittore, strumentatore, arrangiatore, direttore di coro e d’orchestra, tali sono le virtù, diciamo così, musicali e, nello specifico, professionali del suo essere musicista. Di queste sue competenze era generosissimo con gli amici, con i colleghi e con quanti, grazie alla sua disponibilità, si avvicinavano alla musica, e i miei cori ne hanno tratto spesso beneficio incalcolabile. Quante dediche, quante testimonianze di fiducia e di affetto, quante sue pagine, composte, armonizzate, trascritte per noi, alcune pubblicate, altre gelosamente conservate in archivio, tutte ripetutamente eseguite, alcune affidate al disco!
Solidarietà fraterna derivante dall’esperienza condivisa era il sentimento che cementava la mia amicizia con Mino Bordignon, ma non solo: questo senso era sempre acceso dalla fiamma dell’entusiasmo creativo. Mino Bordignon insegnava a guardare in alto, a tracciare traiettorie vertiginose nello spazio musicale, a fare progetti che sfioravano l’utopia, ma che venivano sempre sostenuti e puntualmente verificati con l’esempio e con la realizzazione pratica. La testa nelle nuvole, i piedi saldamente piantati per terra, potremmo commentare scherzando, ma con lo spirito e con il ricordo non si scherza. Con lui lo spazio musicale diventava uno spazio spirituale, quindi uno spazio umano dove la musica e l’amicizia vengono fuse in un’unica forza creativa, in uno slancio verso l’alto nell’Universo dei suoni e degli affetti.

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