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Un vaccino corale
Sguardo antropologico su canto e direzione corale*

di Paolo Apolito (antropologo)
Fuori dal coro, Choraliter 65, settembre 2021

Partendo da lontano, da molto lontano, l’umanità si è costituita in quanto umanità, cioè specie a sé, attraverso ritmi di movimento condivisi e forse cori, che mantenevano i gruppi umani coesi e pronti ad affrontare le difficoltà di un mondo non certo a misura d’uomo, come poi lo abbiamo forgiato e conosciuto in epoca storica (e che probabilmente stiamo perdendo oggi). Ma i cori sono presenti già prima dell’umanità, tra altri animali e quindi in qualche modo cantare insieme è non solo incistato nel processo di umanizzazione, ma addirittura lo precede.

Guardiamoci da vicino, guardiamo il nostro corpo, che è il primo strumento musicale di cui disponiamo dalla nascita, perché dopo e solo dopo sono nate le protesi musicali del corpo umano, cioè gli strumenti musicali che conosciamo. C’è uno spazio di sovrapposizione tra musica e parola, che solo man mano che da neonati diventiamo più grandi, va articolandosi in un confine tra l’uno e l’altra, poiché da una parte per il neonato le parole ambite della mamma sono pura musica sublime, dall’altra anche da adulti la voce umana ci arriva sotto forma di musicalità sua propria, che ci consente di essere attratti dall’una e invece respinti dall’altra.
Ma l’attrazione più forte che sentiamo, e ancora una volta da subito alla nascita, è di partecipare alla musicalità della voce altrui, della mamma o chi si prende cura, prima di tutti, poi degli altri. Cioè di entrare in coro con chi amiamo. In poche ore, pochi giorni, poche settimane dalla nascita, imparammo a essere bravi coristi di duetti, e poi di gruppi polifonici familiari e di vicinato e di compagnie e godemmo – e tuttora godiamo – del timing condiviso. Godimento profondo del nostro organismo, in quanto siamo dotati di quella risorsa fondamentale che gli studiosi chiamano entrainment, che in italiano è sincronizzazione, ma non semplice sincronizzazione, poiché è qualcosa in più, è un trascinarsi reciproco alla sincronizzazione, un farsi ciascuno metronomo per l’altro, per gli altri.
Insomma, stare in un coro, partecipare al canto di un coro non è un hobby come un altro, è un ribadire una dimensione essenziale dell’essere umani, forse la caratteristica più profonda. È per questo che partecipare a un coro produce così tanta gioia, soddisfazione, benessere. Contribuire a creare un sistema neuronale unificato, che oltrepassa tutti quelli individuali che lo costituiscono, cantando a coro, produce in ciascun organismo partecipante le endorfine dell’amore, proprio come nel parto e nell’allattamento. E poi come in tutte le relazioni affettive che contano nella vita.
D’altra parte non si può vivere continuamente in entrainment, non si può stare perennemente in un sistema neuronale unificato. Lo sanno bene i bambini che appena grandicelli sono presi da due forze se non contrapposte, alternative, una che spinge alla individuazione di sé, cioè alla autonomia, e l’altra, che è la primissima non appena si viene espulsi nel mondo alla nascita, proprio l’opposto della individuazione, cioè la fusione, il desiderio di tornare a far parte del corpo della mamma. Due pulsioni che sono alla base della vita umana, in particolare della vita infantile, ma possiamo dire dell’intera vita umana. E che nel coro vengono continuamente ripercorse quasi a ritracciarne le tracce profonde. Se nella vita ordinaria, concreta, queste due forze a volte si presentano in forme caotiche e disorganizzate, e per questo disorganizzanti, nel coro, che ha una struttura preordinata, data innanzitutto dalla musica o dalla direzione della musica, e dalla necessaria sua organizzazione in quanto attività sociale, esse si conciliano armonicamente. Per questo il coro è come un vaccino, poiché inocula, come fanno tutti i vaccini, dei principi attivi che richiamano gli estremi, ma che servono proprio a non raggiungere gli estremi. E allora il coro mi sembra una formidabile metafora del momento postpandemico che stiamo vivendo, caratterizzato da una sorta di disorientamento nel processo di socializzazione. Che riguarda soprattutto i giovani, e che si esprime attraverso una enfatizzazione eccessiva del surrogato dei social, una specie di malattia da social, che rischia per alcuni di sostituire definitivamente la socialità concreta.
Far parte di un coro è una terapia contro questo tipo di rischio.
Bisogna ricordare ai direttori dei cori che dirigere un coro giovanile è certo innanzitutto una esperienza musicale, è un rapporto con gli spartiti, con la melodia, i ritmi, le voci, ci mancherebbe, è innanzitutto questo, ma guai a considerarlo esclusivamente questo, soprattutto in un momento come l’attuale, guai, poiché oggi è molto di più di una esperienza musicale: un coro oggi è un’esperienza di educazione sociale. Lo è sempre stata, ma in questo momento lo è di più.
Educare nel senso etimologico del termine significa spostarsi da un punto a un altro, tirare fuori, portare da un’altra parte. C’è una potente metafora, di tipo religioso, che dà bene l’idea, e che richiama Mosè e la cattività in Egitto del popolo ebraico: la sua grande, elevata visione oltre l’orizzonte della cattività di cui egli si fece carico per motivi religiosi, profetici. Proviamo a guardarla dal punto di vista di un orizzonte umano. Cosa ha fatto Mosè? Ha educato un popolo, cioè lo ha spostato dalla cattività all’affrancamento, alla liberazione. Ecco, non vorrei esagerare, ma esagero: un direttore, una direttrice di coro oggi è un Mosè per i giovani che hanno a che fare con lui, con lei, è qualcuno che non si limita a curare il livello musicale, ma in qualche modo sta contribuendo alla genesi della nuova umanità postpandemica.

* Contributo realizzato per l’edizione online del Cantagiovani 2021 nell’ambito del convegno Presente e futuro della coralità giovanile

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