Ma il tempo è tiranno. Declinata, dunque, l’offerta del mercante che ci fa “gentilmente” notare di aver appena perso l’occasione della vita, ci dirigiamo a passo svelto verso la nostra meta: la Cappella Sistina, ove si tengono le funzioni Pontificie della Settimana Santa. Superati i rigidi controlli d’ingresso, come da protocollo, troviamo posto tra i banchi. Il mattutino del Mercoledì ha inizio. È il momento della riflessione, quello in cui l’uomo si inginocchia per chiedere perdono per le sue iniquità. Al termine della celebrazione, tutta in canto piano, una volta concluso il Benedictus e smorzata l’ultima candela dell’altare, viene intonata l’antifona Traditor autem. Il Papa scende dal soglio e giunto ai piedi del faldistorio si inginocchia. Sulle note del Christus factus est, quattro cantori escono di soppiatto dalla cappella e prendono posizione nell’adiacente Sala Regia. Cessato il canto e recitato submissa voce dal Santo Padre il Pater Noster, accade qualcosa di totalmente inaspettato. Un accordo di sol minore, nato dal nulla, si spande per le volte michelangiolesche declamando la parola Miserere. L’effetto dato dal sorgere della polifonia dopo una funzione integralmente monodica è qualcosa di straordinario e indicibile. Dalla cantoria cinque voci [I cantori Pontifici cantavano sempre a parti reali. Anche quando, poi, invalse la prassi del coro di ripieno, nel xviii secolo, la musica della Settimana Santa continuò a esser eseguita nel modo antico. Ciò è confermato anche dal preziosissimo MS 375 della BAV che riporta per il primo coro la dicitura di Coro concertone a 5 soli] contrappuntano delicatamente su una base armonica molto semplice e severa. A questi risponde ancora un verso salmico in gregoriano e poi l’imprevedibile: i quattro usciti in precedenza cantano da fuori interrompendo la stasi sonora e riempendo lo spazio della cappella da una posizione inedita. I loro timbri, così lontani, fanno sì che sembri veramente un coro composto da angeli a cantare e non da uomini appartenenti a questo mondo. E questa triplice struttura ancora si ripete per tutti i versetti del salmo in un vortice di abbellimenti e ornamentazioni che reinventano costantemente il brano sul canovaccio dato. Solo nell’ultimo verso le nove voci si riuniranno in un unico concento.
Quest’esperienza, così sconvolgente, fa sì che, terminata la funzione, decidiamo di intercettare uno dei cantori per chiedere di chi fosse quel Miserere così straordinario che tanto ci ha mossi a commozione: veniamo, dunque, a sapere che è di Gregorio Allegri. Un attimo. Non è possibile. Quel Miserere di Allegri? Ma non è possibile! Noi crononauti del xxi secolo conosciamo già il Miserere di Allegri: è stato sdoganato da abbondante discografia; la partitura è di uso comune ed è completamente diverso da quanto abbiamo sentito. Non solo ogni verso era affatto differente dal precedente, ma non abbiamo sentito alcuna traccia del do acuto che caratterizzerebbe il brano. Roma, ventunesimo secolo. Tornati al futuro da quest’esperienza mistica andiamo a informarci con tutti i potenti mezzi che il nostro tempo ci ha fornito, indi compresa la moltitudine di manoscritti che, attraversando le stirpi, ci testimoniano l’evoluzione del brano. Il risultato è sconvolgente: come Caccini è diventato famoso nel nostro tempo per l’Ave Maria di Vavilov e Albinoni per l’Adagio di Remo Giazotto, il Miserere deve gran parte della sua fama odierna a un do acuto che Allegri non ha mai scritto.
Ma cos’è successo? Andiamo con ordine. Una tradizione consolidata, originatasi in seguito all’edizione del 1840 di Pietro Alfieri, colloca la composizione del brano nell’Anno del Signore 1638, quindicesimo del Pontificato di Urbano VIII. La data, però, non è verificabile da alcuna fonte antica: nessuna traccia ci è giunta dall’era Barberini. Le prime fonti documentarie pervenuteci, infatti, sono i MS 205 e 206 [Il primo contenente i versi del quintetto, il secondo quelli del quartetto] del fondo Cappella Sistina della Biblioteca Apostolica Vaticana, datati 1661. Questi contengono gli Improperia di Palestrina e una collezione di dodici Miserere, composti, in ordine cronologico, da Costanzo Festa, Luigi Dentice, Francisco Guerrero, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Teofilo Gargano, Giovanni Francesco Anerio, Felice Anerio, un compositore anonimo, Giovanni Maria Nanini, Sante Naldini, Ruggero Giovannelli e Gregorio Allegri. La partitura originale è molto diversa da quella a noi pervenuta. E possiamo capire quali fossero le sue particolarità da una storia narrata da Giuseppe Santarelli [nato nel 1710 e morto nel 1790, fu un presbitero, cantore Papale castrato e direttore della Cappella Pontificia], il quale, trovandosi a disquisire con Charles Burney, gli narrò l’incredibile storia di quel Miserere romano, tanto apprezzato per le sua qualità.
Gli disse, tra le altre cose, che solo tre copie autorizzate uscirono dal Vaticano: una fu consegnata a Padre Giovanni Battista Martini, una al defunto Re di Portogallo [Verosimilmente quel Giovanni V di Braganza che cercò di ricreare a Lisbona la sua piccola Cappella Sistina] e una all’Imperatore Leopoldo [Leopoldo I d’Asburgo, Sacro Romano Imperatore dal 1658 alla morte, sopraggiunta nel 1705].
Quest’ultimo, una volta scoperta la semplicità della partitura originale, credendo di esser stato raggirato, cadde in grande ira. Inviò, dunque, un dispaccio al Papa, il quale licenziò il Maestro di Cappella. A lungo egli tentò di esser ricevuto per poter spiegare che la particolarità del brano era dovuta alla particolare esecuzione tramandata dai cantori Sistini. Ma il Pontefice non volle riceverlo.
Fu necessario l’intervento di un Cardinale patrono che facesse da intermediario, per poter ottenere l’agognata udienza. Il Pontefice, che non capiva le questioni musicali, risultò perplesso e non si capacitava di come un mottetto potesse cambiare così tanto. Ma decise di crederci e offrì all’Imperatore la possibilità di ricevere dei cantori Papali che insegnassero la modalità d’esecuzione alla Cappella Imperiale. Questi accettò con entusiasmo, ma era l’Anno del Signore 1683 e gli Ottomani presero d’assedio Vienna. Leopoldo aveva ora altre priorità e del Miserere più non si parlò.
Correva l’Anno del Signore 1713, quando Tommaso Baj diede alle stampe un suo Miserere il cui impianto strutturale era chiaramente ispirato a quello di Gregorio Allegri. Un evento che parrebbe marginale e di poco conto ai fini della trattazione e che, invece, si rivelerà fondamentale per le vicende allegriane [tanto che nel XIX secolo i due Miserere si fusero venendo considerati un’opera unica].
Siamo nel 1731. Johannes Dominicus de Biondinis dà alle stampe un testo, sotto la protezione del Cardinal Pietro Ottoboni con dedica ad Ansano Bernini [maestro pro tempore della Cappella Pontificia]. Al suo interno è contenuta una versione del Miserere affatto bizzarra, se si ha in mente il manoscritto seicentesco. Sulla probabile onda della composizione di Baj, una mano ignota ha ampiamente rimaneggiato il primo coro. L’organico ha subito una modifica sostanziale [la partitura del 1661 era per cattb. Ora diventerà ccatb] e, in aggiunta, compaiono episodi imitativi del tutto assenti nella versione primigenia.
Contestualmente a ciò, iniziarono a girare delle copie clandestine dell’opera [tante sono le fonti sparse per le biblioteche di tutt’Europa. Per ragioni di spazio cito qua solo alcune delle più importanti tra quelle Vaticane, ma tante altre meriterebbero più di una menzione. Su tutte, a rappresentanza, cito per la sua importanza quella donata da Louis-Hyppolite Mesplet alla Bibliothèque National de France in era napoleonica], in particolar modo nell’Inghilterra anglicana. Era prassi abituale, in quelle terre, che taluni nobili finanziassero dei piccoli concerti. Per pubblicizzare alcuni di questi si cavalcò l’onda di una diceria che diventerà famosa nei secoli: si sa che il Miserere sia stato ritenuto così sacro dal Pontefice da averne proibito l’esecuzione fuori dalle mura Vaticane e che chiunque avesse osato trafugarne o copiarne la partitura sarebbe incorso in scomunica immediata. È evidente che una cosa del genere, con pena latae sententiae, dovrebbe esser disciplinata dal Codice di Diritto Canonico o quantomeno da una bolla Papale con valore legislativo. Ma non ho riscontrato alcun pronunciamento ufficiale a riguardo da parte di alcun Pontefice da Urbano VIII in poi. Nulla di strano che sia una trovata di mercato per incrementare la partecipazione ai concerti. In fondo erano anglicani: che gli potrà importare di una scomunica?
E, a proposito di trovate di mercato, la più geniale resta quella del buon Leopold Mozart. Nel 1770 scrive alla moglie che il loro pargoletto Wolfgang avrebbe trascritto il celeberrimo brano a orecchio dopo un solo ascolto. La sua lettera, però, ricca di incongruenze e con un esplicito desiderio di far conoscere l’impresa ai governanti austriaci, non sembra la più affidabile delle fonti. È possibile che i Mozart avessero sentito parlare del Miserere, o forse addirittura ascoltato un’esecuzione, già nel loro viaggio a Londra del 1764-65. Questo spiegherebbe la conoscenza del rischio di scomunica che, come abbiamo visto, non era fondato. Ma giustificherebbe l’idea di un gran colpo. Volendo attribuire al ragazzo un’impresa olimpica, cosa potrebbe esser meglio di una trascrizione di un pezzo proibito non dimostrabile?
Ben diversa è la vicenda di un altro genio della storia della musica: Felix Mendelssohn. Questi, giunto a Roma per il Grand Tour, annotò nelle sue lettere tanti frammenti delle cose che gli capitava di sentire. Tra le altre ebbe modo di trascrivere anche dei passi del Miserere in questione. Al tempo, la Cappella Pontificia soleva eseguire questo brano una terza o una quarta sopra rispetto alla scrittura originale [cosa confermata sia dall’edizione di Pietro Alfieri del 1840 che afferma l’innalzamento di una terza, sia dal ms 375 della Biblioteca Apostolica Vaticana, fonte ornata preziosissima per comprendere le esecuzioni ottocentesche, che riporta in calce: «il tono una quarta sopra»]. Così, il nostro compositore, fece la sua trascrizione in do minore. E questa fu la nascita dell’equivoco.
Come siamo arrivati alla versione universalmente nota? Siamo nel 1880, quando Sir George Grove dà alle stampe il secondo volume del suo Grove Dictionary of Music and Musicians. La voce Miserere è stata compilata da William Rockstro, il quale, ovviamente, non poteva non citare il fiore all’occhiello della Roma Pontificia. E, altrettanto lapalissianamente, non poteva non citare gli abbellimenti che ormai erano stati resi noti dalla pubblicazione dell’epistolario di Felix Mendelssohn. Il problema è che ha inserito quel frammento in do minore non solo nel punto errato del brano, ma anche nella tonalità sbagliata. Il contesto in cui è stato impiantato, infatti, era ancora in sol minore e questa trasposizione improvvisa risulta un falso storico clamoroso. Fortunato, ma clamoroso. La discografia e la prassi hanno fatto il resto. Ciò che è stato creato è senza dubbio bello e affascinante, ma se Allegri facesse un salto sulla nostra macchina del tempo, sicuramente non riconoscerebbe quel brano noto in tutto l’orbe come suo!