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Il nostro viaggio

di Luca Bonavia
Canto popolare, Choraliter 50, agosto 2016

«Ora è finalmente tempo di affermare che le forme letterarie e musicali orali (arcaiche) sono una cosa estremamente seria e vanno affrontate esclusivamente da specialisti che siano in grado di accertarne l’impersonalità e di aderire alla natura arcaica di esse senza pretendere di imporre loro la propria personalità, poiché ciò avrebbe il senso di entrare da elefanti in una cristalleria. È necessario, con tutta la modestia di questo mondo, allacciare un dialogo con esse, far parlare l’arcaico che è in loro, accettarlo e prenderlo a guida per penetrare fra le pieghe più riposte di quelle forme, che è l’unico modo per scoprirne l’immensa ricchezza». (Paolo Bon) [1]

Come sempre accade ai viaggiatori, il senso autentico dell’esplorazione si acquisisce lentamente, a ogni passo, e a ogni singolo respiro. Raggiungere la prima collina, scoprire nuovi orizzonti, anche se velati da impalpabili nebbie, e riprendere il cammino, ancora, sino alla successiva linea di mare.
L’avvio dell’esperienza Cantar Storie risale a ormai più di quindici anni or sono, sulla spinta del desiderio di recuperare cinque, sei canti dalle voci degli anziani dell’Ossola, affidarsi a un paio di validi musicisti e pubblicare un agile volumetto destinato alla coralità: s’avviarono così i primi dibattiti, incontri e riflessioni, stimolate dai preziosi consigli di chi era esperto in quel campo a noi del tutto sconosciuto. V’era, già allora, la vibrante emozione dell’affacciarsi all’inedita esperienza di una ricerca sul campo, trovandosi di fronte alle insidie, alle molte difficoltà, ai momenti critici legati principalmente alla cruciale e delicata fase dell’avvicinamento, rivolta a chi custodisce canti e storie nei propri ricordi, autentici “reperti” di memoria, indissolubilmente legati all’essenza di una vita [2]. 

Da quei giorni sono trascorsi molti anni, e siamo giunti – con un vero e proprio “salto nel tempo” – al 2015: oggi Cantar Storie è una radicata associazione culturale, con sede a Domodossola, una sua organizzazione e un buon numero di soci. È stato creato un archivio sonoro, oggi completamente digitalizzato, che non s’è fermato a quei “cinque o sei” esiti, ma ne conta oltre un migliaio… inventariati, trascritti, e naturalmente a piena disposizione di chiunque li voglia ascoltare e ottenerne copia [3]. Sopra a quegli esiti sono state poi realizzate oltre 100 elaborazioni, dirette a cori a voci virili e miste, confluite nei tre volumi a oggi pubblicati dall’editore Grossi di Domodossola, con allegati (a partire dal secondo volume) i CD-audio contenenti una scelta delle esecuzioni alla fonte dei brani musicali. 

Volendo completare la disamina, è impossibile non citare, poi, le numerose opportunità di studio e confronto: convegni, incontri, approfondimenti svolti in diverse regioni italiane e all’estero, oltre alla pubblicazione di articoli e saggi su riviste di settore, e l’attuazione di iniziative a livello nazionale e comunitario [4]. Non ultima, la costituzione (nel 2001) di un nuovo e innovativo progetto di coralità: il Laboratorio Corale Cantar Storie [5].

Ma è ora importante, prima di tutto, soffermarci su quelle che sono state, sin da quei primi passi, le scelte “di base” che abbiamo voluto assumere. Spesso ripensate, valutate, discusse… ma s’è voluto affrontare, con chiarezza e rigore, ad alcune domande-chiave da cui non si poteva prescindere. E queste sono state le nostre risposte:

  1.  Innanzitutto, i risultati della nostra ricerca (dunque, gli esiti orali acquisiti alla fonte, dalla viva voce dei cantori spontanei) non sono stati il “punto di arrivo” della ricerca espressiva, ma anzi il “punto di partenza” da cui riprendere il cammino, e compiere la fase cruciale del viaggio. Questo ci ha evidentemente differenziati dal fenomeno del folk revival, alquanto diffuso in Italia negli scorsi decenni, che aveva com’è noto quale scopo primario una riproduzione, il più possibile calligrafica, di ciò che si era in precedenza acquisito [6].
  2. Le fasi dell’archiviazione e della trascrizione (sia melodica, che letteraria) non sono state in alcun modo sottovalutate, e anzi effettuate con la massima cura e attenzione. Non si è esitato – nello specifico caso dei testi – a richiedere dove necessario un supporto specialistico a consolidati esperti di linguistica locale, e si sono dedicati il dovuto tempo e i necessari sforzi all’attività (delicatissima) di trascrizione musicale: il rischio era – altrimenti – quello di realizzare un’opera priva di valenza etnomusicale filologica, basata su trascrizioni evidentemente approssimative, metricamente improbabili e musicalmente imprecise. Inoltre s’è voluto, anche per fugare ogni dubbio in merito al rigore operato nelle trascrizioni, consentire a qualsiasi fruitore di disporre delle fonti sonore originali, al fine di un utile confronto: sia mediante la consultazione dell’archivio, che (nei limiti di quanto possibile) corredando l’opera di un CD rappresentativo degli esiti orali acquisiti dalla viva voce dei cantori spontanei.
  3. Si è adottata, fin dal primo volume, la logica (ormai imprescindibile) del “doppio binario”, che aveva in Italia un solo precedente [7]. Per ogni esito è dunque stata realizzata da un lato una scheda filologica (contenente una rigorosa trascrizione della melodia e del testo, oltre a note esplicative, eventuali traduzioni, notizie relative a informatori, esecutori, luogo e data di acquisizione, tonalità alla fonte, caratteristiche della melodia ed essenziali riferimenti bibliografici), e a fianco l’elaborazione corale. Non s’è voluto, insomma, realizzare un “canzoniere”, ma qualcosa di diverso, con l’intento di voler avvicinare, una volta per tutte, due mondi spesso separati da profonde barriere: quello della coralità e quello dell’etnomusicologia.
  4. Ci si è discostati in modo netto dalla dimensione delle “cartoline illustrate”, dalla (stucchevole) retorica dei “canti alpini”, della “coralità di montagna”, o dalla presunta ossolanità o piemontesità degli esiti raccolti (che, come s’accennerà, può essere facilmente smentita), dando invece pieno risalto all’apparato filologico/musicale, ed evitando (ad esempio) di affiancare al materiale di studio, acquisito ed elaborato, illustrazioni e immagini che, pur di pregevole qualità, avrebbero compromesso l’integrità del lavoro, rendendone ambigue natura e destinazione.
  5. Abbiamo voluto che tutti i musicisti che hanno accettato di collaborare all’opera potessero svolgere il proprio intervento in piena libertà, ritenendo (in virtù di quanto sopra esposto, considerando dunque l’esito orale come punto di partenza della ricerca espressiva) che non avesse senso chiedere o pretendere un presunto “rispetto” verso la genuinità delle fonti orali, imponendo qualsivoglia “limite” alla portata dell’intervento elaborativo. Ci siamo ricondotti così alle esperienze svolte in terra ungherese da Béla Bartók, Lajós Bardós e Zoltán Kodály e, nel nostro paese, da Paolo Bon [8], al fine di cogliere nel modo più ampio le molteplici implicazioni espressive celate in ognuno degli esiti orali. Sono molti i musicisti coinvolti nel nostro progetto, e questo ha consentito di realizzare un’opera estremamente varia, per il tipo e la natura delle elaborazioni proposte: da quelle più “semplici”, ad altre più complesse e articolate, sia in relazione al numero delle voci coinvolte, che alla “struttura” corale dei lavori realizzati.

Da qui è partita la nostra proposta, di certo ambiziosa, e oggetto di continui ripensamenti, approfondimenti, valutazioni… strettamente e intimamente connessa a quella Coralità dell’Arcaico in più occasioni oggetto di divulgazione e analisi [9]. Il punto di partenza è stato in questo caso una semplice riflessione: un coro (qualsiasi tipo di coro, a voci virili, miste, di adulti, giovani o fanciulli) che s’accinge ad affrontare un repertorio basato sulla tradizione orale, può e deve acquisirne piena consapevolezza, e assumere – di conseguenza – un proprio ruolo preciso. Perché il coro (e naturalmente il suo direttore, ma anche ciascuno dei cantori) è allo stesso tempo interprete e messaggero, nei confronti di se stesso e del suo pubblico, portavoce di un percorso alquanto esteso e complesso. Ci si protende verso quell’Arcaico che da millenni accompagna l’esistenza dell’umanità, e più in generale della natura intera, che attraverso l’arco e l’orizzonte del tempo si è sedimentato in esiti orali tramandati, appresi e trasmessi, in costante e continua evoluzione: sono i canti che dopo una fase di acquisizione e archiviazione, grazie all’attività compositiva giungono di fronte a un pubblico pronto ad ascoltarne l’esecuzione. 

Questo percorso conosce molteplici e fondamentali attori (che in alcuni casi possono coincidere): i cantori spontanei, noti e ignoti, il ricercatore, l’etnomusicologo, il musicista, il coro e il suo direttore: ognuno di essi è chiamato ad assumere un ruolo, che non è di certo (né lo potrà mai essere) casuale, o improvvisato. per poter affrontare come merita questo tipo di questione, è stato necessario (ancora una volta) rispondere a una fondamentale domanda-chiave. Ci troviamo di fronte a canti acquisiti (nel caso specifico) sul territorio delle valli dell’Ossola, in piccoli paesi circondati da austere montagne… ma ha senso che si parli di canti ossolani, oppure, piemontesi, così come di canti alpini, lombardi, toscani, laziali… basandosi unicamente sul luogo geografico ov’è avvenuta la loro acquisizione? Il tema è stato trattato diffusamente in altre sedi e interventi (con il sostegno di numerosi esempi), ai quali si rimanda per un approfondimento…[10] ma la risposta, lo possiamo anticipare, non può che andare in una sola direzione: altro che reperti di piemontesità…! Altro che canti di montagna…! I nostri esiti non sono altro che vascelli, frammenti d’arcaico che da secoli e millenni continuano il loro viaggio, senza conoscere freni od ostacoli, siano essi di natura linguistica, morfologica, politica o religiosa. È, il loro, un continuo e inarrestabile fluire, e là possiamo innegabilmente riconoscere l’impronta di quell’esteso orizzonte di archetipi, quel coacervo di voci e fantasmi della memoria, incubi ancestrali e sogni senza tempo che voci incaute e miopi spesso riconducono a mere espressioni localistiche, figlie di quel concetto di “canto popolare” tanto nostalgico e intriso di vene sentimentalistiche. Non serve rivelare quanto il nostro progetto sia lontano da questa “logica del forziere”, colmo di “dimenticati tesori”, di cui ancor oggi si sente spesso accennare nelle sale da concerto, o tra le pagine delle pubblicazioni corali del nostro paese. 

Pensiamo per un momento di trovarci di fronte a una di quelle navi che di tanto in tanto riaffiorano dalle onde di sabbia dei deserti, là dove un tempo c’era il mare. Potremmo, certo, soffermarci a comprendere cosa sia avvenuto durante quell’infinito trascorrere di anni, valutare gli effetti del vento su quei resti di legno, sconvolti dall’incedere di secoli e millenni. Ma ben altra avventura è lo spingerci oltre, tornando coi pensieri a quel mare di un tempo, là dove la nostra nave viaggiava, ripercorrendone le rotte ormai invisibili. Quali terre ha attraversato, quanti marinai v’hanno lavorato e vissuto, in quali porti ha trovato un suo approdo sicuro? Ecco uno dei punti principali che ha ispirato il nostro lavoro: pensiamo alla cruciale figura del musicista che s’avvicina a un esito arcaico. Egli non si trova di fronte solamente una registrazione (emozionante, viva, a volte difficilmente decifrabile, dal ritmo stentato)… e nemmeno un semplice rigo musicale, con note, pause, versi e indicazioni trascritte da un buon etnomusicologo. Testo e melodia coesistono, ma ognuna conserva le proprie celate implicazioni, sotto al livello di superficie (quello dell’esito acquisito alla fonte) s’allungano radici protese verso un magma di ricordi umani e (lo si può presumere) pre-umani, un percorso che non si limita al semplice trascorrere dei secoli, ma estende il proprio respiro ai millenni, e alle ere.

Dunque, quando a quell’esito s’accosta, l’elaboratore non lo fa con la semplice “etichetta” di musicista… sarà di volta in volta sensibile uditore, un sagace e paziente archeologo, e anche un aspirante sciamano, capace di scostare con estrema cura la sabbia del tempo, intravedere forme e sagome accennate nella nebbia, rinunciando alla propria personalità espressiva per far spazio a quella, impersonale, dell’Arcaico. Ma quello spazio non resterà vuoto: l’arché ci soffia attraverso, col suo vento.

Ecco. Da qui, siamo partiti per questa nuova avventura. Trascorsi ormai sedici anni da quei “primi passi”, dopo aver guardato verso i cori a voci virili (nei primi due volumi), e a quelli a voci miste (nel terzo), ci siamo voluti rivolgere all’affascinante e stimolante mondo dei cori a voci bianche, dunque ai bimbi e al loro “far musica cantando”. Non senza – è inutile nasconderlo – una sorta di timore, nell’avvicinarci in punta di piedi a una dimensione tanto sensibile e delicata, nella quale la pratica della coralità è intimamente connessa a un vibrante lato “pedagogico” e di alfabetizzazione musicale, che anzi si spinge a lambire gli estesi confini di quella maieutica così cara a Zoltán Kodály. Impossibile non ricordare, a questo proposito, l’opera di Giovanni Mangione, che nell’introduzione al suo La riscoperta della musica volle tornare alle illuminanti parole di Carl Gustav Jung, a proposito della necessità di «…trovare il modo di gettare un ponte tra realtà conscia e realtà inconscia», riconducendo alla pedagogia (e in modo specifico a quella musicale) un «compito difficilissimo da svolgere: costruire pietra per pietra il famoso ponte». E ancora, riconobbe la musica come «uno dei modelli archetipi contenuti nell’inconscio, […] insito come realtà primaria in tutti gli uomini» [11]. 

Queste profonde meditazioni, unitamente alla preziosa esperienza condivisa sino al 2012 all’interno dell’Associazione Italiana Kodály per l’Educazione Musicale (AIKEM), e agli intensi e indimenticabili momenti di studio vissuti tra le mura dello Zoltán Kodály Pedagogical Institute of Music di Kécskemét (in Ungheria), hanno portato chi scrive a rivalutare quelle “scelte di base” ricordate all’inizio, con l’intento di applicarle alla coralità infantile, e ai suoi sottili e soffusi equilibri.
Ebbene, la risposta alle nostre “domande chiave” non è cambiata, e così l’impostazione dell’opera, sia in merito alla rilevanza degli esiti alla fonte, che alla definizione dell’apparato metodologico, passando per il “doppio binario” e facendo sì che, pur rivolgendoci al mondo dell’infanzia, non fosse in alcun modo affievolito il desiderio di realizzare un progetto rigoroso e specialistico, dunque non “semplificato”.
Siamo convinti (come lo era, pienamente, Kodály) che sia del tutto appropriato offrire a un coro a voci bianche un repertorio basato su canti della tradizione orale arcaica: se è vero (e non c’è motivo per dubitarne) che ci stiamo rivolgendo all’infanzia dell’uomo, appare quanto più opportuno e rilevante trarre a piene mani da esiti che hanno in sé frammenti dell’infanzia dell’umanità.
E pur escludendo – nella fase preliminare di scelta – alcuni esiti che non sembravano appropriati (per linguaggio, contenuti o ambientazione) alla dimensione infantile, non s’è applicata una troppo severa “censura”, dimostrando di non aver in alcun modo paura dell’Arcaico, e delle sue parole.
Anche in questo caso, dunque, i musicisti hanno potuto vivere con estrema libertà la propria attività espressiva, senza alcun vincolo o limitazione: troverete tra le pagine del volume elaborazioni a due, tre, quattro, cinque voci… strutture semplici o più complesse, sino a diventare, in alcuni casi, vere e proprie “sfide” per i nostri piccoli e grandi gruppi corali. Tanto che non sembra avventato sostenere la possibilità che anche cori a voci pari (e adulte) possano felicemente affrontare alcune di queste elaborazioni, a scopo di buon esercizio o – in alcuni casi – anche a un compiuto livello espressivo. 

Vi sono, poi, alcune “scelte specifiche”, come sempre attentamente meditate, che sono state rivolte in modo mirato al volume che tenete oggi tra le mani.

  1. Un’unica, specifica richiesta è stata rivolta ai musicisti: quella di realizzare elaborazioni “a cappella”, dunque senza accompagnamento strumentale. Privilegiando il puro equilibrio delle voci, il loro colore, seppure con le inevitabili difficoltà d’intonazione e tenuta dei suoni, rispetto a una condotta vocale più sicura, coadiuvata da uno stabile supporto musicale dall’esterno. Non vanno dimenticate ragioni legate all’accordatura (e dunque non solamente all’intonazione) dello “strumento-coro”: amo ricordare a questo proposito quanto Kodály scrisse nella prefazione al suo Cantiamo in modo corretto, là dove sosteneva che: «[…] il canto va articolato in rapporto agli intervalli “naturali”, che sono acusticamente corretti, e non in rapporto al sistema temperato. Un pianoforte, per quanto perfettamente accordato, non può mai fungere da criterio nel canto» [12]. Senza tralasciare, poi, l’efficace provocazione celata nelle parole con le quali Paolo Bon introduce il suo Schinellino (opera del 2008 dedicata alla coralità infantile): «I bambini possiamo farli cantare in due modi: con accompagnamento strumentale o “a cappella”. Se vogliamo che i grandi dicano: “Come son carini questi bambini, e che bravo il maestro!”, li accompagneremo al pianoforte; se invece vogliamo che i bambini imparino, li faremo cantare a cappella, con l’ulteriore vantaggio di risparmiarci i frivoli commenti dei grandi» [13].
  2. L’apparato metodologico dell’opera, illustrato con precisione più avanti, non è variato rispetto ai precedenti volumi, e anzi s’è reso più completo, e rigoroso. È opportuno sottolineare che, nell’ambito delle singole elaborazioni, s’è scelto di inserire quelle notazioni che agevolassero una lettura in “tonalità relativa”, dunque utilizzando lo strumento del “do mobile”, tanto rilevante all’interno degli orizzonti della maieutica kodályana. Questa decisione ha profonde implicazioni e motivazioni, e non è affatto casuale: l’esperienza vissuta in questi anni ci ha portati alla consapevolezza che, a prescindere dall’età giovane o matura dei cantori, l’obiettivo non debba essere “far imparare” la musica, ma “aiutare a sentirla”. Per questo il “do mobile” è per noi sempre uno strumento, e mai un fine. Saper riconoscere la nota giusta, orientarsi nei meandri del pentagramma, aiuterà i piccoli cantori ad affrontare con maggior consapevolezza la comprensione del senso armonico e melodico essenziale in qualsiasi tipologia di repertorio. Ciò che si rivelerà importante sarà il senso che ciascuna nota possiede: non, dunque, la sua altezza “assoluta”. La nota re (coi suoi 294 hertz) potrà essere, di volta in volta (a seconda dell’ambito tonale di riferimento) tonica, terza maggiore (o minore), fondamentale, sensibile… le nostre corde vocali non sono fatte di metallo, né soggette (come quelle di un pianoforte) a un temperamento equabile: l’intonazione del nostro re (anche da parte di un coro a voci bianche, non dubitiamone), se curata e associata a un proprio ruolo espressivo, non sarà né potrà esser la medesima se quel re è di volta in volta terza minore, sensibile, tonica… ed è inutile sottolineare la grande valenza pedagogica di quanto sopra descritto.
  3. All’interno delle singole schede filologiche, poi, si è voluta inserire una voce “inedita”, non presente in precedenza, ovvero quella legata alla “melodia”: ci si vuole riferire qui a ciò che il maestro Paolo Bon tratterà più avanti, a proposito degli “Aspetti musicali”, e dunque al tipo di scala (in ambito evolutivo) sulla quale la melodia principale è innestata. Non è, la nostra, una scelta di poco conto, e vuole costituire un segnale forte: l’invito, per coloro che si accosteranno alla nostra opera (musicisti, appassionati, direttori, cantori, insegnanti) a vincere timori e ritrosie e ad affacciarsi a quell’affascinante e stimolante orizzonte – ancora ai più sconosciuto – costituito dall’evoluzione della lingua diatonica, e dell’omonima scala musicale. Anche qui, si troveranno più avanti i dovuti approfondimenti e specificazioni: preme, per ora, sottolineare come in ambito etnomusicologico le analisi si concentrino quasi esclusivamente (e manchevolmente) sulla natura degli esiti “letterari” (più volte descritti, classificati, valutati), tralasciando quella rivolta agli esiti “musicali”, per i quali non è mai esistita (sino alla scoperta della diatonomia, da parte di Paolo Bon) una propria specifica linguistica. È intenzione e desiderio della nostra associazione promuovere con decisione i contenuti della Teoria evolutiva del diatonismo, [14] cominciando da qui, mediante le pagine di questa opera destinata al mondo dell’infanzia, e della pedagogia musicale: non si pretenderà di giungere in fretta a una sua reale applicazione (affrontandone il livello “sistematico”), ma è a nostro avviso innegabile che – nell’ambito di un reale progetto innestato sulla maieutica, rivolto ai fanciulli e ai loro insegnanti – aprire le porte al percorso evolutivo della lingua diatonica (la “lingua musicale dell’umanità”) sia ricco di implicazioni e possibilità, oltre alle promesse di ulteriori e affascinanti approfondimenti. 

In ultimo, saremo naturalmente felici se questa nostra opera troverà una sua diffusione non solamente tra i cori a voci bianche (che, ne siamo certi, sapranno trarre nuova ispirazione per ampliare il proprio repertorio, volgendolo nella direzione della tradizione arcaica), ma anche tra le aule degli istituti scolastici. Confidiamo nella sensibilità degli insegnanti, e nella loro capacità di trovare nuovi stimoli, materiale didattico e idee capaci d’affascinare e coinvolgere i propri alunni, infondendo in loro quella passione che mai abbiamo smesso di sentire, spesso con viva e autentica emozione, di fronte a questi frammenti d’antico universale. Intraprendere questo percorso sarà, per chiunque se ne voglia accostare, un’avventura da compiere con sapienza, e un senso di profonda umiltà. Fermandosi a riflettere, a studiare, nel silenzio della propria aula o sala prove, e avviare un percorso che – se ben intrapreso – si protrarrà negli anni, senza mai veramente approdare a una sua conclusione. Come ben sa ogni studioso, ricercatore, o viandante, il viaggio non termina mai: questo infonderà ulteriore forza e convinzione alla nostra attività, e a ciò che porteremo ai nostri piccoli cantori, sulla spinta della sensibilità di tutti i musicisti che con noi hanno condiviso la loro opera di archeologia corale. Dentro e oltre le note e i silenzi, là, verso il lento e placido fluire dei nostri amati venti d’arcaico.

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Note

  1. Cfr. il saggio di Paolo Bon L’arcaico e la falsa oralità, apparso su La Cartellina, ed. Musicali Europee, 2011.
  2. Si veda, in relazione a questo aspetto, l’introduzione a Cantar Storie vol. I, ed. Grossi, 1999.
  3. Per informazioni è possibile contattare direttamente l’Associazione all’indirizzo cantarstorie@libero.it, mediante il sito cantarstorie.com o telefonicamente al numero 0324/481927.
  4. In particolare si segnalano i numerosi contributi alla rivista La Cartellina, Edizioni Musicali Europee, nell’ambito della rubrica Fonti Orali, e a Choraliter. È opportuno ricordare poi due importanti progetti Interreg a cui l’associazione ha partecipato: “Walser Alps”, coordinato dalla Provincia del Verbano Cusio Ossola, mirato all’acquisizione e trascrizione di esiti in lingua walser, e “Villaggi di frontiera”, dedicato in modo specifico agli esiti orale acquisiti nel paese di Trasquera, in Valle Divedro.
  5. Progetto innovativo di coralità amatoriale diretto da Luca Bonavia e tuttora attivo a Domodossola, composto da dodici elementi e che ha svolto a partire dal 2011 un’intensa attività concertistica e divulgativa in diverse regioni italiane e, all’estero, in Svizzera, Austria e Ungheria. Si veda tra gli altri l’articolo Quando cantiam storie - Riflessioni sul ‘far coro’ in ambito popolare, apparso su Choraliter n. 13/2004.
  6. È d’obbligo aggiungere che uno dei principali esponenti del folk revival, Roberto Leydi, superando l’evidente diffidenza nell’approccio e nella filosofia di ricerca, apprezzò il progetto Cantar Storie e accettò di scrivere la presentazione al secondo volume dell’opera.
  7. Il riferimento è al primo dei Cahiers de musique chorale Valdôtaine, edito nel 1994 dal Centre d’Etudes Francoprovençales René Willien e dall’Association Valdôtaine des Archives Sonores per la parte etnomusicale e da Paolo Bon per la parte espressiva. Al primo volume ne è seguito un secondo, sempre realizzato seguendo una logica di “doppio binario”, la cui parte espressiva è stata affidata ad Angelo Mazza.
  8. Si veda da un lato l’album Nuova coralità realizzato nel 1978 dal Gruppo Nuovocorale Cesen (coordinato da Paolo Bon), e il saggio Musica popolare: teoria dell’arcaico in contrapposizione alla teoria del sociale specifico, apparso sul n. 52 di Diapason, periodico dell’Associazione Cori della Toscana.
  9. Si vedano, tra gli articoli apparsi su La Cartellina a cura dell’autore: Il cammino degli archaioi tipoi verso la sala da concerto: spunti e idee per una Coralità dell’Arcaico (2008), Coralità dell’Arcaico: lungo le rotte di un cosmico vagare (2009).
  10. Ancora, su La Cartellina, sempre a cura dell’autore si veda Giganti di pietra o vascelli d’arcaico? (2007), e anche l’articolo Arcaico e archeologia musicale - la vicenda di Annamarii, donna Walser, pubblicato su Choraliter n. 36 (2011).
  11. Le citazioni sono tratte dall’opera di Giovanni Mangione La riscoperta della musica, Ed. Acquafresca, Chiasso, 2011. È importante ricordare che Mangione fu il fondatore dell’Associazione Italiana Kodály per l’Educazione Musicale (AIKEM), più volte citata all’interno di questa Introduzione.
  12. Da Cantiamo in modo corretto di Zoltán Kodály, ed Carish, Milano, 2009.
  13. Da Lo Schinellino di Paolo Bon, ed. Pizzicato, 2008.
  14. Si veda La teoria evolutiva del diatonismo e le sue applicazioni di Paolo Bon, Ed. Giardini, Pisa, 1995. È opportuno ricordare che sino al 2011, ultimo anno della Presidenza di Paolo Bon, la diatonomia evolutiva figurava tra le materie dell’annuale seminario internazionale di pedagogia musicale organizzato dall’AIKEM.
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