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Radici.
Un secolo di musica friulana

di Gabriele Zanello e David Giovanni Leonardi
Choral Disc, Choraliter 51, dicembre 2016

I testi

Nei decenni scorsi, le ricerche in merito alla musica vocale su testo friulano hanno affrontato innumerevoli volte le complesse questioni relative alla genesi musicale e testuale di tale repertorio; l’interesse etnomusicologico, che si è concentrato in modo particolare sull’origine della villotta, ha in qualche misura perpetuato un dibattito che già dai primi anni del Novecento, e in particolare dalla comparsa delle Villotte e canzoni friulane per tre o quattro voci d’uomo di Franco Escher (Udine 1900), si era acceso riguardo alla commistione tra popolare e colto nella musica friulana: una commistione che in seguito sarebbe stata di volta in volta rifiutata o ricercata, stigmatizzata o lodata, dichiarata o taciuta. Nell’arco di pochi anni, a partire da quell’opera di Escher, la situazione è divenuta ancor più fluida e confusa: l’interferenza tra patrimonio tradizionale, raccolta d’autore, ispirazione popolare, mediazione e revisione colta ha assunto forme incontrollabili. Una tradizione è stata (re)inventata, e sempre meno nitida è apparsa agli studiosi la fisionomia di quel canto autenticamente popolare da essi così caparbiamente ricercato in ottemperanza allo spirito dei tempi.

L’antologia proposta nella presente incisione rappresenta in qualche modo il compendio dello stato di sconcertante fluidità appena descritto; essa, peraltro, offre anche l’occasione di districare, seppur faticosamente, i fili delle tradizioni, e nondimeno invita a riascoltare questi brani volgendo una attenzione peculiare ai testi, così da coglierne l’autonoma dignità letteraria e comprendere le ragioni della loro fortuna.

L’esperienza musicale delle Gotis di rosade di Augusto Cesare Seghizzi ci conduce immediatamente al nucleo della problematica a cui si è appena accennato. L’interesse del compositore per il canto popolare friulano si era risvegliato alla fine degli anni Venti del Novecento grazie alla sua attività con il coro della Società Alpina, ma l’elaborazione di questi suoi lavori va forse ricondotta al periodo dell’internamento nel campo profughi di Wagna, in Stiria, durante la prima guerra mondiale. Seghizzi si trova dunque alle prese con la quartina poetica, strofa troppo breve per la nuova destinazione d’uso da lui immaginata; da qui la scelta della forma rapsodica, la quale, se per un verso consente al compositore di evitare di contaminare indebitamente il testo della singola strofa popolare con espansioni di libera invenzione, per un altro sancisce in modo definitivo (e consapevole) la decontestualizzazione del brano: come le sale di un museo etnografico dedicate alle ricostruzioni d’ambiente, nelle Cinque rapsodie su villotte antiche per coro virile i bozzetti di vita paesana si avvicendano in modo impressionistico presentando con grande maestria i diversi soggetti. Nelle due rapsodie qui eseguite (la prima e la quinta), si alternano sapientemente i temi del conflitto generazionale (Benedete l’antigae), della tenerezza amorosa più o meno ardita (Vês chei voi come dôs stelis, Ce bielis maninis), della partecipazione comunitaria al fidanzamento (E Tunìn, al è un biel zovin), del dileggio a connotazione etnica (E vegnin jù i ciargnei de Ciargne), della fugacità del tempo e della necessità di afferrare l’attimo (Volìn gioldi l’alegrie), della riflessione turbata sui sospiri d’amore (Se savessis, fantazzinis) fino all’irrisione del canto di corteggiamento stonato (E cui sono chei c’a ciantin) e a quell’incalzante Balistu, Pieri che, sul passo della Staiare, chiude turbinosamente la breve antologia rapsodica.

Tra le diverse declinazioni della tematica amorosa, quella delle due quartine che compongono In cil ’e jè une stele continua a coinvolgere quanti le ascoltano nell’armonizzazione del musicista (e politico) Andrea Mascagni. Nella loro brevità, gli otto versi che Luigi Cuoghi avrebbe scritto nel 1895 per Tita Marzuttini proiettano l’esperienza d’amore sullo sfondo solido e tranquillizzante degli elementi naturali, ma sembrano agganciarla anche al sottogenere poetico medievale dell’alba, quella fortunata consuetudine letteraria provenzale che si soffermava a descrivere il momento della partenza dell’amante dopo una notte d’amore. Qualcosa di analogo si incontra anche in Amor e lavor, tre quartine di Luigi Donda musicate da Albino Torre; in quel caso è ben più moderno il contesto in cui si colloca il rapporto amoroso: nella continua e cieca alternanza di giorni destinati al lavoro e notti dedicate all’amore, ciò che costringe l’amante ad abbandonare il luogo ameno dell’unione con l’amata non è più il timore di essere sorpresi da qualcuno, bensì la necessità di recarsi alla fatica quotidiana. La partecipazione corale della natura al prodigio dell’innamoramento ritorna in Biele di vôi, delicata e commossa composizione del maestro Rodolfo Kubik, «nato istriano, vissuto da giovane a Ronchi e divenuto friulano per amore e per scelta culturale» (C. Macor). Se i motivi di fondo sono simili a quelli comuni nelle villotte amorose, superiore è l’elaborazione formale, che si accompagna a una sensibilità introspettiva più raffinata.

Riflettono invece l’indole sorridente del loro autore le quartine di No scherzâ, composte da Tita di Sandri (pseudonimo di Giuseppe Collodi) e musicate da Seghizzi. La gran parte degli scritti di Collodi è costituita da variazioni sul registro della villotta, ma dietro la semplicità che qualifica anche questo suo testo si nascondono allusioni meno prevedibili: il carattere del fuoco d’amore a cui si fa riferimento nelle prime tre strofe assume contorni più definiti nelle ultime tre, che recuperano l’immagine della rosa per tessere un elogio della verginità del tutto affine a quello presente nel primo canto del Furioso di Ariosto.

Si è visto come le fasi liminari della giornata, l’alba e il tramonto, compaiano in molti brani come momenti topici e atmosfere ideali. Ma è in particolare l’ora vespertina, l’ora che volge il disio e ’ntenerisce il core, a suggerire i sentimenti più malinconici, quelli legati alla lontananza, rilevata in tutte le sue possibili declinazioni. A planc cale il soreli, su versi di Dolfo Carrara, è un brano puramente descrittivo di ambientazione bucolica; la fortuna – peraltro antecedente – del motivo melodico ne ha fatto forse il più popolare fra i canti friulani che toccano sì le corde della nostalgia, ma pur sempre nella prospettiva di una pacificante alternanza di notti e giorni, e dunque sullo sfondo di un tempo ciclico che vuole sfuggire ai traumi e alle lacerazioni definitive.

Con la perentoria brevità che le caratterizza, numerose villotte introducono in modo più esplicito, e nondimeno struggente, un altro grande tema della tradizione friulana, quello dell’emigrazione (importante, secondo Giuseppe Marchetti, anche per tentare una datazione dei testi, riconducendoli alla realtà socio-economica ottocentesca). A queste quartine, che sovente si risolvono in una lucida richiesta da parte dell’amato lontano che intuisce la propria fine, sembrano rispondere i versi composti dalla folclorista Lea D’Orlandi e musicati da Giovanni Pian: Se al tornàs, infatti, dà voce al grigiore, alla rapita trepidazione e alla preghiera accorata di una donna che attende in solitudine il ritorno del proprio marito, addirittura rivendicato con toni ostinati e quasi irriverenti («Tornaimal, Signôr, tornaimal, ’l è miò!»). Su accenti di un rimpianto più ripiegato su se stesso insistono altri due brani: in Glesiute me, Albino Torre si abbandona ai ricordi della propria giovinezza e dei tempi perduti, in una sorta di dialogo con i luoghi dell’infanzia; così anche Eligio Nassivera rende omaggio alle fontane del proprio paese natale, Forni di Sotto, richiamando non soltanto gli ormai lontani giochi dei bambini, ma anche le pesantezze dell’età avanzata. Assume invece toni di ispirazione francescana Grazie Signôr, l’altro testo di Nassivera musicato da Narciso Miniussi. Sul celebre Stelutis alpinis, forse il più conosciuto tra i canti friulani d’autore, si è già detto molto, talvolta eccedendo rispetto alle intenzioni del compositore, Arturo Zardini, il quale nel 1921, pochi mesi prima di morire, dovette persino tollerare di vedere le proprie quattro strofe integrate con altre due quartine apocrife di sapore più esplicitamente “patriottico”. Il rispetto che dovrebbe essere riservato a ogni grande espressione dell’animo umano suggerisce di commentare questo canto solamente richiamando quanto Giuseppe Marchetti affermava a Pontebba nel 1948, nel discorso per il venticinquesimo anniversario della morte di Zardini, e cioè che in Stelutis alpinis il compositore era riuscito a interpretare con la massima fedeltà, nelle parole e nella musica, l’anima del popolo friulano. Nella conclusione, ribadendo che quello e soltanto quello poteva essere il canto del Friuli, Marchetti riconosceva come dato di fatto la popolarità straordinaria di questo brano anche rispetto a quello che dal 1913 e dunque da un’epoca che precedeva l’inutile bagno di sangue del primo conflitto mondiale esibiva il pretenzioso titolo Il ciant dal Friûl. Quel marziale e intimidatorio compendio di retorica nazionalistica era stato musicato da A.C. Seghizzi dopo che, nell’anno precedente, Ugo Pellis (con lo pseudonimo di Vèncul) lo aveva composto per l’Associazione “P. Zorutti” di Cervignano. Non deve ingannare l’attestazione di orgoglio friulano: «Cheste tiare cà je nestre: / dome nô cà sìn parons; / fivilìn ’ne lenghe nestre: / son di Rome i nestris vons»; in anni di «ebbrezza esaltata e irrazionale» (S. Tavano), l’affermazione della friulanità equivaleva a quella di una italianità violentemente nazionalistica, spesso antitedesca e soprattutto antislava.Nonostante la provenienza dei loro autori, quasi tutti i brani di cui si è parlato – con l’eccezione di quelli di Nassivera – sono scritti o trasmessi nel friulano centrale. Cun me mare ci conduce invece ad Andreis, in Valcellina, nella cui varietà ha poetato Vittorio Ugo Piazza, «verseggiatore di buoni sentimenti e belle parole messe in rime decorose» (C. Magris) esemplate consapevolmente sullo schema della villotta friulana, e dunque secondo «modi attardati, riluttanti allo scarto» (R. Pellegrini) eppure genuini. Forse è attardato anche il pascolianesimo esplicito di questi versi, comparsi nel 1931 e musicati da Kubik, nei quali un figlio interroga con insistenza la madre che lo ha lasciato orfano in tenera età ed esprime il desiderio di trovarsi accanto a lei in cielo. 

Le due composizioni di cui ancora non si è detto percorrono strade diverse non soltanto sul piano musicale, ma anche su quello testuale. Daûr San Pieri, di Marco Maiero, recupera le atmosfere rarefatte e sognanti di molta tradizione, ma con la sensibilità tormentata dell’uomo attuale; infine il brano commemorativo Vajont poggia la propria efficacia nella quasi totale assenza di testo: ciò che rimane è sospiro, grido di giustizia, urlo straziante, silenzio e memoria. Dai brani più antichi fino a quelli contemporanei: nel percorso che abbiamo tracciato si può riconoscere, senza timore di eccedere, una piccola storia di grandi successi che hanno mediato e diffuso tra la gente tante pagine di poesia. L’asserto è confermato dalla singolare fortuna di cui godono alcuni di questi brani, che sono apprezzati e amati – lo testimonia la rete Internet – ben oltre i confini regionali. La coralità ha garantito quasi una rivincita alla lingua e alla letteratura friulana, ora troppo trascurate a fronte di quanto hanno saputo dare non soltanto alla musica, ma alla cultura tutta della regione.
[Gabriele Zanello]

Le musiche

Sviluppatisi a fine Ottocento in seno alla fondazione e al consolidamento di un culto per la friulanità musicale, letteraria e coreutica, i generi della canzone e della villotta d’autore hanno costituito, oltre che l’ossatura imprescindibile del repertorio corale amatoriale, un vero e proprio caso artistico contrassegnato da esiti stilistici di assoluta unicità, forieri di un’attrattiva irresistibile anche da parte di compositori non friulani e di stimolanti e imprevedibili conseguenze, protrattesi per decenni all’insegna di eterogenetici interscambi linguistici e ricercati o inconsapevoli fraintendimenti. Tuttavia, l’aver voluto i pionieri del genere mantenere nettamente riconducibile la sostanza musicale della loro produzione al genere della canzone o a quello della villotta, non ha impedito che gli indirizzi culturali, impostisi in particolare negli anni Trenta, tendessero costringere tale produzione, ormai ramificata in ogni angolo di una terra tanto frastagliata a livello geografico, antropologico, linguistico e culturale quale la friulana, in arroccate prospettive creative escogitate nel tentativo, indubbiamente riuscito, di fornire l’autentica chiave di lettura dell’antica villotta popolare friulana quando invece si trattava dell’invenzione di un canone compositivo dagli inequivocabili tratti, quali ad esempio la stesura corale a tre voci maschili con basso armonico sui gradi fondamentali, atto alla conservazione di un consolidato repertorio popolaresco orgoglioso del suo crisma di originaria e infallibile autenticità.

Nel frattempo la canzone friulana, pur così ricca di diversificate influenze provenienti dal mondo del melodramma, della musica da ballo e intrattenimento, dalla romanza da salotto, dalla musica militare o marinaresca, denunciava una sopravvivenza ormai anacronistica e un inesorabile declino in attesa, a partire dalla metà del Novecento, di scivolare nell’universo della vera e propria musica leggera o, per contro, di una giovane generazione di compositori capace di immettere nella produzione corale su testi friulani i tratti possibili di una aggiornata consapevolezza linguistica, contribuendo mirabilmente in tal modo alla sopravvivenza secolare di un genere musicale che ancor oggi sembra ergersi solitario nel panorama corale mondiale, stanti la sua curiosa genesi e i suoi irripetibili sviluppi. In tale contesto la figura del compositore triestino Franco Escher spicca solitaria nell’entusiastico e orgoglioso tentativo di ricreare i tratti sfuggenti di una tradizione popolare attraverso un linguaggio autenticamente proprio e, per inciso, saldamente ancorato alla tradizione corale romantica austro-tedesca; e quei tratti che permearono con incrollabile fede in una peculiare friulanità musicale la genesi di quella parte della sua opera che possiamo definire “in stile di villotta”, sembrano esemplarmente tracciati dalla singolare vicenda della sua composizione La stele, testo di Luigi Cuoghi musicato negli stessi anni di fine Ottocento pure da Giovan Battista Marzuttini. La fattura volutamente popolaresca della versione di Escher fece sì che la pagina seguisse il medesimo destino di altre sue magistrali creazioni, quali ad esempio Oh! tu stele e Lontan, lontan, lontan (Anin, varin fortune), disperse nel flusso di continua metamorfosi della tradizione orale – o addirittura, come nel doloroso caso della prima, volontariamente ritoccate e riedite quali “motivi popolari friulani” al fine di privare l’autore della paternità e dei diritti sulle sue magistrali creazioni – per venire in tal modo recepita da posteriori armonizzatori quali Andrea Mascagni, evidentemente costretto a tradire la sconosciuta fattura originaria, sostanziata in caratteristici e inattesi preziosismi e nella duttilità del flusso melo-armonico del coro maschile a tre voci, ove l’arco melodico diviene complice di un mobilissimo e sottilmente variato gioco di rivolti accordali, e dunque a intervenire sulle fragili e incomplete versioni provenienti dalla ricerca etnomusicologica con un lavoro di restauro basato su un nuovo stile, compatto e stentoreo, di evidente derivazione organistica; quello stile che a partire dalla fine degli anni Venti, e in particolare dopo il secondo dopoguerra, è divenuto simbolo della coralità veneto-trentina, fortunata avventura musicale che ha trovato fertile terreno discografico nell’ambito della creazione di un nuovo Folk italiano e nella quale ebbero ruolo fondamentale i compositori Renato Dionisi e Antonio Pedrotti, il pianista Arturo Benedetti-Michelangeli e il magistrato Luigi Pigarelli. Lo stesso Mascagni, figlio d’arte toscano naturalizzato trentino, aveva adottato tale canone compositivo, tanto solido e infallibile da essere tramandato intatto alle giovani generazioni di armonizzatori e compositori, come possiamo constatare nei caratteri di stile, mediati attraverso l’autorevole lezione di Bepi De Marzi, dell’altrettanto fortunata pagina del friulano Marco Maiero, Daûr San Pieri e nella versione corale di Gianni Malatesta di A planc cale il soreli, ulteriore capitolo controverso della storia della musica friulana, oscillante tra la discussa paternità musicale, stante l’attribuzione dei versi a Dolfo Carrara, la probabile derivazione musicale dalla canzonetta ’L è una bambina a Bruma del gradiscano Riccardo Zumin se ne intuiscono gli atteggiamenti melodici originari, di disinvolto e piacevole intrattenimento e, per contro, la propensione a trasformarsi, intercettata dalla coralità alpina, in serioso e processionale Corale. 

Uno sguardo più approfondito sull’incipit melodico de La stele, ribattezzata da Mascagni utilizzando il primo verso, In cîl ’e je une stele, non può non lasciar rilevare le stringenti affinità, e forse un’origine carinziana che potrebbe ancora una volta nascondere colte mani d’oltralpe, con l’altrettanto prediletta e intimamente confidenziale Cui mi dîs, e infine con la pagina simbolo della coralità friulana nel mondo, Stelutis alpinis di quell’Arturo Zardini che secondo Escher avrebbe tradito, al contrario di Cuoghi il quale pure si limitò a semplici operazioni di armonizzazione, trascurando l’imprescindibile azione romanticamente creativa e Marzuttini, la tanto conclamata quanto equivocabile autenticità a favore di un’irriflessiva imitazione dei loro modelli; e la fortuna di quella sua ancor più celebre e diffusa raccolta di Canti friulani, più volte pubblicati a partire dal 1924, risiede fors’anche nella difettosa stesura tastieristica che da sempre suggerisce tentativi di restauro in direzione di un’appropriata redazione corale, tentativi ora tenacemente fedeli alle strutture originarie, ora, come avviene nella rilettura di Marco Sofianopulo, osando audaci interventi tanto nella struttura verticale quanto addirittura nella struggente sostanza melodica.

Sapientemente in bilico tra pluristilismo proprio della canzonetta friulana e tardivo accostamento alla rielaborazione in forma rapsodica di motivi popolari friulani, in ciò confortato dai materiali offerti dalla fondamentale raccolta per canto e pianoforte Eco del Friúli, 50 Villotte (Canti popolari friulani) di Stefano Persoglia, apparsi a stampa nel 1892, Augusto Cesare Seghizzi, forte dell’esperienza primariamente svolta in campo cameristico e sacro, adatta il proprio stile alle variegate suggestioni testuali dei poeti isontini di allora, tenendosi lontano da preconcetti di natura stilistica o etnomusicologica e lasciandosi sedurre ora dalla leggerezza e dall’ironia tipiche della canzonetta friulana che proprio a Gorizia conobbe una stagione fortunata e sconosciuta al resto del Friuli come avviene nel coro a tre voci No scherzâ, composto non oltre il 1923 facendo propria la colta nobiltà dello stile corale di Escher – ben noto a Gorizia grazie alla meticolosa opera di copiatura delle fonti originali effettuata dal cantore Dorando Domini ora dalle rutilanti digressioni di filiazione bandistica che si fanno innodica esaltazione patriottica nell’animare il coro Al ciant dal Friul, brano d’obbligo al Concorso di cori friulani tenutosi a Gorizia il 10 ottobre 1922. Non casualmente più tarda nella cronologia delle opere risulta la rilettura da parte di Seghizzi degli stimolanti materiali di tradizione, operazione iniziata con la prima rapsodia del ciclo Gotis di rosade, Benedete l’antigae nell’autunno 1926, in concomitanza con la fondazione e direzione della Corale Alpina Goriziana, e terminata con la quinta rapsodia, Volin gioldi nel 1931. Modelli assoluti di rigore strutturale e spigliata fantasia nell’accostamento meditato di atmosfere contrastanti e in fulminea metamorfosi e di magistrale controllo dell’armonia corale a quattro voci pari, punti di riferimento imprescindibili per la prassi di selezione e giustapposizione di materiali di tradizione, evidentemente destinata a radicarsi nella cultura musicale isontina, le cinque Gotis di rosade furono gratificate da un lusinghiero percorso editoriale, iniziato per i tipi di Mignani nel 1931 e concluso con la ristampa Ricordi nel 1983. Nella presente edizione discografica, gli interventi dedicati da Daniele Zanettovich alla fisarmonica sottolineano efficacemente, con l’approssimarsi della stretta finale dell’ultima Rapsodia, Bàlistu Pieri?, il vorticoso vigore di quella canzone a ballo che vedrebbe la sua origine affondare in secoli lontani.

Si rispecchia fedelmente nel presente lavoro la primigenia vocazione del Polifonico di Ruda a farsi attore principale, sin dalla fondazione del coro nell’immediato secondo dopoguerra, della diffusione della produzione corale d’autore e degli autorevoli cicli rapsodici di Seghizzi più che della semplice riproposizione delle note Villotte, e del loro dogma stilistico, che la Società Filologica Friulana andò a pubblicare a partire dagli stessi anni Venti e che al contrario caratterizzarono la vita corale e di conseguenza l’orientamento stilistico dei nuovi compositori nella zona udinese, Carlo Conti e Luigi Garzoni tra i tanti – repertori originali fortemente caratterizzati, quindi, e intensamente frequentati in area isontina non senza i presupposti di una solidità ereditata dalle strutture scolastiche volute dal governo asburgico e, di conseguenza, dalla presenza quasi in ogni località di musicisti e scrittori entusiasticamente prolifici. Merito indiscusso della formazione corale e della raffinata preparazione dei suoi primi maestri, Tullio Pinat e Secondo Del Bianco, l’aver selezionato, a partire dalla fondazione e sino ai primi anni Sessanta almeno, il fiore della produzione d’autore isontina, che comprese all’epoca pure numerose composizioni di Michele Eulambio, Giordano Pazzut, Luigi Giovanni Politti e Cecilia Seghizzi, operazione che dopo sessant’anni esibisce ancora, di tale affascinante settore, i profondi significati culturali e un rinnovato desiderio di ampliamento e rivitalizzazione. Spiccano su tutti e come tali si sono rilevati meritevoli di nuova vita concertistica e discografica alcuni gioielli dei gradiscani Giovanni Pian e Albino Torre e di un compositore di assoluto valore e respiro internazionale quale il polesano Rodolfo Kubik, compositori che hanno saputo innestare personali apporti linguistici sul tronco di uno stile e di un’ispirazione consolidati da decenni quale simbolo di una cultura musicale dai contorni unici.

Giovanni Pian compone nel marzo 1948 e inserisce nella raccolta anastatica completa dei manoscritti Ciantin par furlan, pubblicata a Mariano del Friuli nel 1978, testimonianza di un pluridecennale e solitario itinerario creativo nel mondo della coralità friulana, Se al tornàs, cullante e tenera pennellata, originariamente sottotitolata «Passionale a voci miste», in costante trascolorare tra barcarola pianistica e valzer viennese. Ampiamente noto ma ancor non capillarmente documentato a livello archivistico ed editoriale, nonostante il cospicuo materiale rimasto in Friuli o quello appartenente al vasto repertorio del Cuarteto Armonía di Buenos Aires, da sempre consacrato alla letteratura dei due musicisti, appare al contrario lo stretto rapporto di amicizia e collaborazione che legò in terra argentina Albino Torre e Rodolfo Kubik, musicisti dalla creatività istintiva e passionale corroborata da scaltrite propensioni al multiculturalismo musicale; fu spesso compito del secondo fornire rifinita e consona veste corale, e a curarne altresì parzialmente la pubblicazione per i tipi della Ricordi Americana, ai voli di fantasia di Albino Torre, musicista tanto impegnato nel repertorio da intrattenimento quanto ispirato alla nostalgia e agli echi sonori della sua terra, all’insegna di una stimolante contaminazione tra antiche tradizioni quali la canzone a ballo, in questo caso la stàjare, che si fa incessante e vivido motore ritmico del Coro Amor e lavor, e i più recenti ritmi latino-americani dell’habanera e del tango, che con fascino straniante traspaiono nel clima struggente del suo capolavoro, Glesiute me, eseguito per la prima volta il 15 settembre 1947 dal Coro Universitario de la Plata diretto da Kubik; ed è proprio Rodolfo Kubik a consegnare alla coralità friulana, tra le mirabili sue pagine corali, due vertici assoluti, Cun me mare e Biele di vôi, contraddistinto dalla rituale dicitura di «villotta friulana» e contenuto con esile e armonicamente preziosa discrezione negli intangibili confini strutturali e formali di una cullante ispirazione popolaresca il primo, emotivamente librato in lirica e vibrante cantabilità il secondo, tra i contorni di una classica forma tripartita con «da capo» abbreviato, esaltazione di ariosa, sinfonica classicità.

Orgogliosa consapevolezza di mestiere e instancabile ricerca di novità stilistiche nel solco di una tradizione solidamente perpetuatasi, non mancarono neppure al sacerdote di Fogliano Narciso Miniussi, musicista sorprendentemente attratto, al limitare della vicenda creativa, dalle peculiarità linguistiche di una periferica variante linguistica friulana che negli anni Ottanta gli ispirava Fontanes di For e Grazie, Signôr, meditazioni corali in cui l’austera solennità d’esordio innesca a poco a poco insopprimibili moti ascensionali verso vette di sfolgorante e declamatoria esuberanza.

Suite for Vajont di Remo Anzovino, infine, compendia simbolicamente nella data del 9 ottobre 1963 lo spirito di un popolo che i secoli hanno forgiato con l’incessante scandirsi di drammi e resurrezioni; e si fa grido di giustizia, motto di speranza di un’orchestra di voci, delle duemila anime vaganti nella valle tra vertiginose progressioni ritmiche e urla strazianti, onda emotiva che trascina nel vortice di quella tragedia, dichiarazione d’amore per la propria terra, infine, da parte di un nobile portavoce delle più aggiornate e lungimiranti tendenze musicali ponte tra l’esperienza classica e il Jazz, che così ha voluto riassumere il significato della propria recente e unanimemente acclamata creazione: «La musica può, a volte, aiutare la memoria. Cinquanta anni dalla notte del Vajont sono tanti per chi vuole si dimentichi. Sono niente per chi vuole sapere perché».

[David Giovanni Leonardi]

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