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Piccola Messa Italiana
di Nicola Campogrande

Dossier Compositore, Choraliter 58, maggio 2019

Le commissioni più belle sono quelle che provengono da musicisti. Arrivano da te a ragion veduta, dopo aver ascoltato altra tua musica, e spesso hanno già in mente una data, un programma, un contesto che vorrebbero arricchire con un pezzo nuovo. Talvolta mettono sul tavolo un’idea precisa: «Mi piacerebbe che il pezzo fosse collegato alla Prima Guerra Mondiale…» oppure «Che ne diresti di dare un seguito ai Capricci di Paganini?». Talaltra, al contrario, ti fanno telefonate appassionate senza essere nemmeno certi dell’organico a disposizione. Ma, nei mesi in cui ti ritroverai da solo a inventare musica, senza poterti confrontare con anima viva – chi mai potrebbe vivere con te, pagina dopo pagina, le tue stesse vicende creative e darti un suggerimento appropriato? sai comunque che ci sono dei compagni di avventura ad aspettarti, curiosi, motivati, disposti a dare il meglio di sé per far nascere un nuovo brano.

È una cosa che, per fortuna, mi è capitata spesso. E fa la differenza. Tanto che, se ricevo invece una commissione più istituzionale, faccio di tutto per conoscere i primi interpreti, per immaginare il loro suono, la loro attitudine musicale. Certo, so bene che poi un pezzo, quando è nato, se è riuscito bene avrà una vita autonoma, e lo canteranno e suoneranno musicisti molto diversi tra loro. Ma, mentre lo scrivo, avere in mente un riferimento umano, in carne e ossa, mi piace, mi piace molto.

Così, quando il direttore tedesco Jan Schumacher mi ha chiesto di scrivere quella che sarebbe diventata la mia Piccola Messa Italiana [VIDEO], ho fatto un po’ di festa: a me piaceva il suo modo di dirigere il coro, a lui piaceva lamia musica e, insomma, c’erano tutte le condizioni per pensare di arrivare a qualcosa di bello. Lo racconto perché, per comporre, ci vuole davvero molta energia. Ogni professionista lo sa: tenere accesa la fiammella, quotidianamente (io, tranne quando viaggio, scrivo tutti i giorni), non è facile. Ma va fatto, se si vuole combinare qualcosa. E la prospettiva di trovare un volto amico alla fine dell’impresa, di lavorare a un brano che, oltre a farti guadagnare i soldi per vivere, sarà anche un po’ un regalo per chi lo riceve, aiuta. Perché la creatività va alimentata e non è come la manna che scende dal cielo: se non te ne prendi cura, rischi che si inaridisca.

Il piccolo dono che avevo immaginato per Jan Schumacher era una Messa piena di luce. A Stoccarda, mi ero detto, avrebbero apprezzato una lettura “mediterranea” del testo sacro. Ed è in questo modo che ho lavorato: lasciando che il sole si riflettesse, per così dire, su ogni sillaba, in modo vigoroso e abbagliante nel Kyrie, con lieta dolcezza nel Gloria, quasi scherzando nel Sanctus, come un lunghissimo tramonto estivo nell’Agnus Dei. Per questo la Messa si intitola “Italiana” pur essendo su testo latino: in quell’aggettivo ho provato a segnalare il carattere cantabile, solare, leggero della partitura. E mi sembra di esserci riuscito. Le prime esecuzioni, in Germania, sono state per me molto emozionanti. Il pezzo ha convinto persino l’austera critica musicale tedesca. E, a dirla tutta, mi sarei aspettato molte altre occasioni per riascoltare il pezzo, dopo. Ma un coro misto e una piccola orchestra, in effetti, non si riuniscono così spesso. Purtroppo. 

Così, con la piccola sofferenza di dover rilavorare su colori strumentali così accuratamente studiati, alla fine ho accettato di farne una versione per coro e organo, alla quale sto lavorando proprio in questo periodo. E forse, chissà, ne farò nascere anche una per coro e pianoforte – l’idea, in astratto, non mi dispiace. D’altronde la storia della musica è ricca di trascrizioni e, se si prende la cosa dal verso giusto, considerando che trascrivere non significa riunire su due pentagrammi quello che era su diciotto ma ripensare da capo ogni singola situazione musicale, il gioco è divertente, e tutt’altro che banale. Si tratta, in fondo, di lavorare al quadrato, ricomponendo ciò che si era composto. E per uno come me, che non vede l’ora di tornare a casa per giocare con il Lego insieme ai propri figli, si tratta di un invito a nozze!

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