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Passio Domini nostri Jesu Christi

di Dario Tabbia
Choral Disc, Choraliter 60, gennaio 2020

La passione di Cristo rappresenta da sempre il simbolo della sofferenza umana, che dalla singola esperienza individuale confluisce nel dramma universale. In questa immagine rientrano tutti i nostri dubbi, i tormenti, le lacerazioni vere e proprie del corpo e dello spirito. Per questo il tema che viene ricordato e celebrato ogni anno nella ricorrenza della Pasqua è così caro alla pietà e alla devozione popolari. Proprio per la sua estrema vicinanza al nostro vivere quotidiano, esso risulta così semplice da comprendere, fra le tante cose, che la religione chiede solo di accettare. Nelle figure di Cristo e di Maria sono riconoscibili quelle di qualsiasi figlio e madre, così come lo è il dolore straziante che li unisce in modo indissolubile proprio nell’istante in cui la morte li separa definitivamente. Figure facili da comprendere, difficili da imitare, facili da amare, impossibili da dimenticare.
L’idea che ha portato alla nascita di questo progetto non è nata in ambito musicale. Sono sempre stato convinto che il musicista sia colui che riesce a trasmettere nella musica le emozioni, e spesso le vicende, della propria vita. Purtroppo il tema della sofferenza, del sacrificio, dell’incomprensione appartiene alla vita stessa dell’uomo, ed è ineludibile. Tuttavia quello che ho sempre trovato affascinante e ancor più misterioso è il fatto che proprio negli sforzi che compiamo per superare tutto questo emerga il meglio di noi stessi, come se il dolore fosse indispensabile alla nostra crescita, al nostro essere migliori. 

Per questo ho deciso di raccontare una versione della passione di Cristo diversa da quella che solitamente viene proposta. Il racconto nasce dalla volontà di Dio di mettere fine definitivamente al male che, appartenendo all’uomo in quanto tale, si sparge proprio per via delle sue azioni. Il racconto lascia spazio ai tanti protagonisti della vicenda, precipitando dalla sacralità divina ai personaggi più devastati dai dubbi e dalle debolezze, ognuno dei quali ha spazio e tempo per esporre il proprio pensiero.
Per legare tutto questo si è rivelato indispensabile creare dei testi che ho scritto appositamente e che sono in parte rielaborazioni di altri testi. Oltre naturalmente alla Bibbia e ai vari vangeli ufficiali e apocrifi, altri due libri sono stati citati in modo particolare: Vita di Gesù di François Mauriac e La gloria di Giuseppe Berto. Il racconto inizia quindi dall’idea divina di salvezza e non dalla descrizione dei tragici fatti legati agli ultimi giorni di vita di Gesù e coinvolge, come detto, più personaggi: da Maria a Giuda, da un viandante anonimo a Gesù stesso. I brani musicali sono stati scelti in base ai testi sui quali si basano e che giungono a completare o commentare quelli recitati. Tutto il programma è un’alternanza di voce recitata e cantata, come se il suono riuscisse ad aggiungere quella forza inesprimibile che la semplice parola non riesce a ottenere. Per questo motivo quasi tutti i brani non appartengono al repertorio classico della Settimana Santa e, per ricordare l’universalità del tema e il suo mai interrotto significato, sono stati scelti fra un repertorio che spazia dal Rinascimento agli autori contemporanei. 

Il programma inizia con Regina caeli laetare di Tomás Luis de Victoria, omaggio alla figura della madre di tutte le madri, sempre discreta e quasi nell’ombra se non per rivelare tutto il suo coraggio proprio nel momento più tragico, per dare quindi inizio al racconto dal principio e cioè dall’incarnazione (Et incarnatus est, Stéphan Nicolay). Per dare voce anche alla pietà popolare è stato inserito Ël pior ëd la Madòna (Il pianto della Madonna) di Giuseppe Di Bianco, elaborazione contemporanea di un’antica melodia piemontese, cui seguono il drammatico Judas mercator pessimus di Marc’Antonio Ingegneri e Sicut ovis di Lodovico da Viadana, la cui ambiguità testuale può adattarsi sia alla figura di Gesù che, come in questo caso, a quella di Giuda. L’ineluttabilità degli eventi porta necessariamente alla descrizione violenta della morte di Cristo. Tenebrae factae sunt di Ko Matsushita è un brano di straordinaria capacità evocativa e descrittiva. La paura delle tenebre che avvolgeranno l’umanità dopo la crocifissione è percepibile dall’uso insistito dei cromatismi iniziali che si dilateranno nei momenti più drammatici a toccare l’intera serie dodecafonica per risolvere nell’accordo conclusivo in maggiore, simbolo sia della fine delle sofferenze che dello spiraglio che si apre verso una vita nuova. Anche i due brani successivi, Crucifixus di Stéphan Nicolay e Seven last words from the cross di Daniel Elder sono dedicati agli ultimi istanti della vita di Gesù. Il brano di Elder, come quello di Matsushita, si manifesta in una drammaticità quasi rappresentativa, segno evidente di come l’uomo contemporaneo sia più vicino al dolore terreno che alla serenità che abita il sacro. A tutto questo segue l’intenso Ave verum di Philip Stopford, contemplazione statica e desolata del corpo straziato, preghiera intensa, tesa a colmare il vuoto che ormai ci avvolge. Ma naturalmente la parte conclusiva è quella dedicata al messaggio di speranza legato alla resurrezione, qui affidato al Surrexit pastor bonus di Orlando di Lasso, per terminare con un grande canto di gioia e di ringraziamento, Jubilate Deo di Giovanni Gabrieli. 

Partendo da questo grande tema di inesauribile valenza, abbiamo cercato di offrire una lettura più semplice e modesta, legata alla nostra vita quotidiana: il tema della morte legata alla resurrezione può essere attuato già in questa vita, nella nostra singola esperienza. Per cambiare, per migliorarci, a volte è necessario morire, chiudere con una parte del nostro passato che non ci permetterebbe di proseguire. Questo programma rappresenta quindi una sorta di meditazione musicale, lo spunto per una riflessione che affida alla musica il compito di dare voce all’intensità di questi sentimenti, di questi valori. Una sorta di nuovo giorno della memoria, che ci permetta di ricordare il valore del sacrificio inteso come possibilità di vivere una vita migliore, per noi e per gli altri.

I testi

In princìpio fu la creazione e tutte le cose create da Dio erano buone e giuste. Ma egli volle creare anche l’uomo e invece creò il male. Fece l’uomo di polvere e sputo, e di sputo e polvere sarebbero state le sue azioni e i suoi pensieri. Dopo che gli fece assaporare la felicità, lo scacciò da quel paradiso inventato per metterlo alla prova ed egli vagò senza più riferimento e si perse, per sua colpa. L’uomo si riprodusse, così come gli era stato ordinato di fare e il male si moltiplicò. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male. Volle distruggerlo, ne ebbe pietà, volle annientarlo, lo salvò. Ma tutto, sempre, ricominciava. Era necessario aprire una porta, una volta per tutte e dare all’uomo la possibilità di tornare nella sua prima casa. Dio sapeva che gli uomini gli avrebbero offerto nel tempo molti sacrifici. Ora era necessario offrire un sacrificio agli uomini. Era quindi necessaria una fanciulla, pura e vergine, che in cambio del suo dolore, avrebbe avuto gloria perpetua nei cieli e un figlio da immolare sull’altare dell’ignoranza e della paura, e questi non poteva essere altri che il suo. Avvolse nel mistero il suo piano e lo rese incomprensibile. Gli uomini avrebbero potuto salvarsi se avessero compreso i santi segni che avrebbe loro manifestati. E creò la fede. 

Tomás Luis de Victoria (1548-1611)
Regina caeli laetare
Regina cæli, lætare, alleluia
quia quem meruisti portare,
alleluia
resurrexit, sicut dixit, alleluia.
Ora pro nobis Deum,
alleluia.

Regina dei cieli, rallegrati, alleluia poiché, colui che meritasti di portare in grembo, alleluia è risorto, come aveva annunciato, alleluia. Intercedi per noi presso Dio, alleluia.

Stéphan Nicolay (1975)
Et incarnatus est
Et incarnatus est de Spiritu Sancto
ex Maria Virgine
et homo factus est. 

E, per opera dello Spirito Santo, si è incarnato nel grembo della Vergine Maria e si è fatto uomo.

Gabriele aveva detto a Maria: «Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato figlio dell’Altissimo e il suo regno non avrà fine». Ora il fanciullo era diventato un adolescente, un giovane, un uomo. Era un operaio falegname. Non era grande e nessuno lo chiamava figlio dell’Altissimo, non aveva un trono ma uno sgabello sul quale lavorava. Dopo vent’anni, dopo trent’anni ella si crede ancora benedetta fra le donne? Nulla accadeva. E cosa mai sarebbe potuto accadere a quel giovane? Di tutti coloro che avevano assistito alla divina manifestazione fin dal princìpio, fin da quella notte, esisteva ancora un solo testimone? Dove erano i pastori, dove erano i Magi? Eppure era necessario che il figlio di Dio si nascondesse nella carne di un uomo. Anno dopo anno ella avrebbe potuto sperare che il destino e le profezie fossero cambiate, come in fondo avrebbe voluto ogni madre, oppure avrebbe potuto convincersi di aver tutto sognato se non fosse invece rimasta alla presenza quotidiana del figlio, in quella casa nell’ombra di Nazareth, là dove la Trinità respirava. Maria, una madre come tutte le madri, consumata da preoccupazioni e inquietudini… Quale madre penetra facilmente nel mistero di una vocazione? Quale madre non si trova smarrita di fronte a un giovane che sa dove deve andare? Maria sa che il momento è giunto, che la vita nascosta e protetta nella casa di Nazareth è terminato. Gesù operaio cessa di esserlo, respinge tutte le ordinazioni, la bottega resta vuota. Sta per avviarsi al suo destino, sta per rivelare al mondo la sua esistenza e il suo compito. Quando pensa ai suoi nemici, Gesù non immagina i Farisei, i sommi sacerdoti o i soldati che lo picchieranno a sangue. Il suo avversario abita ogni angolo della terra e i popoli lo chiamano con molti nomi diversi. Il demonio è il padrone apparente dell’universo in questa quindicesima annata del governo di Tiberio. Gesù è la luce venuta in un mondo che è preda delle tenebre. Prese un mantello, allacciò i sandali e disse a sua madre una parola di addio che non sarà mai conosciuta.

Giuseppe Di Bianco (1969)
Ël pior ëd la Madòna
Victimæ paschali laudes
immolent christiani.
Agnus redemit oves:
Christus innocens Patri
reconciliavit peccatores.
Òh Maria del bon Gesù
j’è San Pè ch’a vi domanda
përché Voi na piori tant.
Mi l’han pioro del mio figliolo
ch’a lo meno a tradiment.
S’a l’han pijalo, l’han lialo,
l’han menalo a l’erbo dla cros.
S’a l’han butaje tre chiodi,
e tre chiodi s’a l’han butà,
e la testa j’an coronà,
d’una corona dë spine bianche,
ch’a j’än butade sël front.
O Gesù Crist, preghè për noi.
L’han butalo tra doi ladron,
l’han foralo con la lansa,
e portava a tùit përdon.
E Maria l’è tuta bagnada,
con ël sangh dël bon Gesù.
Òhi Maria la dolenta,
ch’a piorava sota la cros.
Mors et vita duello
Conflixere mirando:
dux vitæ, mortuus, regnat vivus.
Quand l’è rivaje neuv ore;
con gran vos s’a l’han bin crijà
e le pere ai son sciapà
s’à l’é durvisse la tera ’n doi,
quand ch’a l’è mortj e’l nos Signor.
O Gesù Crist, preghè për noi.
Amen.

Alla vittima pasquale innalzino, i cristiani, il sacrificio di lode. L’Agnello ha redento il gregge: Cristo, l’innocente, ha riconciliato i peccatori con il Padre. Oh Maria, madre del buon Gesù, San Pietro vi chiede come mai state piangendo. «Piango il mio figlio, il quale è stato tradito. L’hanno preso, legato e posto all’albero della croce. Hanno preso tre chiodi e tre chiodi gli hanno conficcato e lo hanno incoronato con una corona di spine bianche che gli hanno posto sul capo». Gesù Cristo, prega per noi. Lo posero tra due ladroni e lo trafissero con una lancia, nonostante perdonasse tutti. Maria, ora, è tutta intrisa del sangue del buon Gesù e, piena di dolore, si pone ai piedi della croce piangendo. Morte e vita si sono affrontate in un duello mirabile: il re della vita, che era morto, ora, regna vivo. Quando arrivò l’ora nona egli si mise a gridare, tanto da spaccare le pietre e la terra si divise in due, alla morte del nostro Signore. O Gesù Cristo, intercedi per noi. Amen

Un gesto, solo, imprevedibile, terribile. Nessuno avrebbe potuto immaginarsi che quel gesto provenisse da lui, che era verità, amore puro, da colui che era in grado di portare pace in ogni cuore tormentato. Un gesto solo, terribile, di violenza. Con violenza scaccia i mercanti dal tempio, con ira li scaccia dalla sua casa e da quella del padre suo. Si rivolge ai dottori, ai farisei, ai sacerdoti quasi sfidandoli: «Distruggete questo tempio, io lo riedificherò in tre giorni». Ma loro non potevano comprendere. Egli parlava di un altro tempio: parlava del proprio corpo. Quella frase già alludeva alla sua fine sulla croce ma anche alla sua resurrezione. Troppo ambiguo, troppo difficile da comprendere, forse li sta sviando di proposito? Forse egli li acceca perché essi hanno meritato le tenebre, le hanno meritate perché avrebbero potuto non essere ciechi. La sua angoscia sta crescendo. Egli si sta avvicinando alla sua fine e il mondo rimane quello che era. Mancano meno di due mesi al suo destino, alla morte sua e a quella di tutti coloro che nel frattempo non avranno ancora creduto. Ma come era possibile vedere improvvisamente tutto con occhi nuovi? Chi era quest’uomo che con una violenza mai vista prima negli altri profeti proferiva parole di pace e di perdono a chi, secondo la legge, non ne era degno? Dei miracoli i farisei non si stupivano nemmeno più: cosa è mai un morto che resuscita rispetto a un’anima immonda che veniva salvata, alla quale venivano rimessi i peccati? Ma che significava? Gesù è solo e pensieri di angoscia e impazienza abitano la sua mente. Il tempo sta per compiersi e il mondo rimane ancora quello che era. Chissà se nel suo essere diventato davvero un uomo egli non sia stato anche tormentato da dubbi, da paure, come tutti gli altri che uomini e nient’altro che uomini erano sempre stati. Il dubbio, la paura di aver fallito. E forse nella sua testa echeggiavano ancora le parole di Giuda: «È così facile amarti, Signore, ma così difficile crederti».

Marc’Antonio Ingegneri (1535-1592)
Judas mercator pessimus
Judas, mercator pessimus,
osculo petiit Dominum.
Illi, ut agnus innocens,
non negavit Judæ osculum.
Denariorum numero
Jesum Judæis tradidit.
Melius illi erat,
si natus non fuisset.
Denariorum numeroJesum Judæis tradidit.

Giuda, pessimo mercante, con un bacio designò il Signore e quest’ultimo, come un agnello innocente, non ricusò il bacio di Giuda. Per una somma di denari consegnò Cristo ai giudei. Meglio sarebbe stato per quell’uomo se non fosse mai nato. Per una manciata di denari tradì, per conto dei giudei, il Cristo.

Io sono Giuda. Giuda Iscariota, seguace decaduto, apostolo della vergogna, santo, controvoglia, di tutti coloro che hanno in qualche modo tradito o che lo faranno. Ero, insieme a Giovanni, il tuo discepolo più fedele e intelligente. Forse ero addirittura io il tuo prediletto Signore, sicuramente quello che fu scelto per il compito più difficile, l’unico che ti amasse così tanto, l’unico cui poter chiedere un sacrificio simile. Ma nonostante questo fui anche il primo ad avere dubbi sul tuo operato, sulla coerenza delle tue azioni. Come potevi, uomo santo, essere anche così duro, ostico, volutamente incomprensibile? Avevi davvero bisogno di compiere tutti quei prodigi per essere creduto!? La gente ti amava comunque, e allora, perché? Questa fu la mia vera colpa, Signore? Aver cercato di comprendere quello che per gli altri era incomprensibile? Sono stato punito per la mia arroganza, per la mia superbia, come se quel bellissimo arcangelo di nome Lucifero mi avesse chiesto l’anima e ordinato di seguire il suo stesso destino? O forse semplicemente ti amavo, come nessun altro e anche io, come te, sono stato un agnello innocente condotto al sacrificio. Come altri, fui solo una figura predestinata, involontaria. Anche io, come te, ho chinato il capo e accettato un destino che qualcuno scelse per me. Anche io, come altri, ti servivo. Maria ti fu indispensabile per nascere. Io, per farti morire.

Lodovico da Viadana (1560-1627)
Sicut ovis
Sicut ovis ad occisionem ductus
est et dum male tractaretur,
non aperuit os suum.
Traditus est ad mortem, ut vivificaret
populum suum.
Tradidit in mortem animam suam
et inter sceleratos reputatus est.
Ut vivificaret populum suum.

Come agnello fu condotto al sacrificio e, per tutto il tempo che veniva maltrattato, non aprì bocca. Fu condotto verso la morte affinché potesse restituire la vita al suo popolo. Ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato tra gli empi.

Quando arrivarono le tenebre, solo allora capimmo. Quello era il segno forte, vero, irreversibile. Solo allora capimmo che non c’era più tempo per tornare indietro, per ripensare, per riflettere, per rimediare. Solo in quel momento avemmo consapevolezza di dove fosse la verità, dove fosse il giusto, dove il falso. E allora l’istinto fu quello di salvarci o anche di salvarti? Ci gettammo sulla croce, quasi a impedire che tutto si compisse, come se fossimo ancora stati in tempo, come se avessimo potuto fermare gli eventi, cambiarli, strapparti da lì e salvarti Signore, salvarci, non importava più, sentimmo che dovevamo gettarci in mezzo ai denti di quel meccanismo assurdo e perverso per spezzarlo e fermarlo. Ci gettammo sulla croce, invano. Le nostre mani protese non riuscirono ad arrivare a te e scivolarono, graffiando il legno, incidendo in esso il nostro peccato, la nostra ottusità, il nostro essere ciechi. Solo allora capimmo. Capimmo che era troppo tardi.

Ko Matsushita (1962)
Tenebrae factae sunt
Tenebræ factæ sunt dum crucifixissent
Jesum Judæi.
Et circa horam nonam exclamavit
Jesus voce magna:
Deus meus, ut quid me dereliquisti?
Crucifige eum!
Et inclinato capite,
emisit spiritum.
Exclamans Jesus voce magna, ait:
Pater, in manus tuas commendo
spiritum meum.
Et inclinato capite, emisit spiritum.

[Dense] tenebre coprirono la terra mentre i giudei crocifiggevano Gesù e, verso l’ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» «Crocifiggilo!» E, chinato il capo, spirò. Gesù, esclamando a gran voce, disse: «Padre, nelle Tue mani affido il mio spirito.» E, chinato il capo, spirò. 

Il cervo è dato ai denti dei cani, l’agnello è pronto a farsi sbranare, in silenzio. I carnefici fanno il loro dovere, né più né meno, come sempre. Egli si trascina per quegli ultimi metri. Forse non sa che sua madre è lì e approfitta del fatto che il suo Dio stremato non ha neanche più la forza di allontanarla. Ella decide di assistere, vuole essere lì, forse anche per comprendere fino in fondo la profezia che ancora bambina l’ha coinvolta e ritorna al momento in cui l’arcangelo le rivolge parole incredibili, sante, dolcissime e terribili. «Stabat mater dolorosa». Il coraggio di stare, di esserci, di non scappare, di guardare il miracolo della redenzione di tutti gli uomini attraverso la morte di uno solo, del proprio figlio, di quel povero Cristo appeso a una croce sopra la quale qualcuno mise una scritta che lei sola poteva capire. Una scritta che valeva sia per lei che per suo figlio, una scelta che fecero entrambi. «INRI»: Io Non Ritorno Indietro.

Stéphan Nicolay (1975)
Crucifixus
Crucifixus etiam pro nobis
sub Pontio Pilato.
Eli! Lamma sabacthani?
Passus et sepultus est.

Fu crocifisso per la nostra salvezza sotto Ponzio Pilato. «Dio mio! Perché mi hai abbandonato?» Morì e fu sepolto. 

Daniel Elder (1986)
Seven last words from the cross
Pater, dimitte illis,
quia nesciunt quid faciunt.
Pater, dimitte mecum, hodie,
eris in Paradiso.
Mulier, ecce filius tuus.
Deus meus, ut quid dereliquisti me?
Sitio, consummatum est.
Domine! Pater!
In manus tuas, Domine,
commendo spiritum meum.

Padre, perdona loro poiché non sanno quello che fanno. Padre, perdona me, quest’oggi, Tu, che sei in Paradiso. Donna, ecco il tuo figlio. Dio mio, perché mi hai abbandonato? Saziatosi, tutto fu compiuto. Signore! Padre! Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. 

L’ultimo insegnamento che ci hai lasciato, Signore, è stata proprio la tua crocifissione. La fine di un percorso di sofferenza, il più crudele e insieme il più liberatorio. Senza di essa il dolore tuo e nostro sarebbe continuato. Arrivasti anche a desiderarla davvero la morte? Molti uomini la invocano per sfinimento estremo, per liberarsi di un dolore insopportabile, anelito a un momento privo di sofferenza. Ma è solo voglia di smettere di soffrire oppure nello stesso momento si cerca la porta verso un’altra dimensione? Si è davvero così disperati che il paradiso per molti può essere semplicemente la liberazione dal dolore? Senza che necessariamente ci sia altro? Può davvero bastarci smettere di soffrire? Tu ci hai insegnato che la morte non è che un passaggio, una porta oscura che separa tenebre e luce. Ma ci vuole coraggio per aprirla, Signore. Tu sapevi cosa avresti incontrato oltre. Noi, ancora una volta, avremmo dovuto accettarti, ancora una volta avremmo dovuto fidarci, ancora una volta crederti. E avemmo ancora paura e al tempo stesso voglia, fretta di andare oltre, là dove nulla è oscuro, dove nulla ci minaccerà e nulla ci potrà turbare. E ammirammo allora il tuo coraggio, la tua coerenza. Venerammo da quel momento il tuo corpo straziato, capimmo che ci indicasti la strada. A questo punto anche noi avemmo tutto. Tranne il coraggio.

Philip W.J. Stopford (1977)
Ave verum
Ave verum corpus
natum ex Maria Virgine:
vere passum, immolatumin cruce pro homine, cujus
latus perforatum da fluxit sanguine:
esto nobis prægustatum
mortis in examine.
O dulcis, o pie, o Jesu, fili Mariæ,
miserere nobis.
Amen.

Ave, vero corpo, nato da Maria Vergine, che veramente patì e fu immolato sulla croce per l’umanità, dal cui fianco trafitto ne fluì il sangue: fa’ che noi possiamo goderti nella prova suprema della morte. O Gesù dolce e pio, figlio di Maria, abbi pietà di noi. Amen. 

Sei andato Gesù. Hai oltrepassato la porta oscura e non ci hai concesso di seguirti. Hai vissuto come un uomo e come un uomo qualsiasi sei morto, così almeno sembravi in fondo a tutti noi, nonostante i prodigi e la tua santità, perfino alle guardie che dissero ai sacerdoti che le rimproveravano di non aver osato mettere le mani su di te e arrestarti: «Mai un uomo ha parlato come quest’uomo». Ti abbiamo seguito e abbiamo visto che mangiavi e dormivi come tutti noi, anche se non eri come tutti gli altri. Tu eri di un altro mondo, affascinavi chiunque si avvicinasse a te, ma anche tu subisti i sentimenti e le debolezze che vivono in noi. Ti abbiamo visto morire, Gesù, e allora dubitammo. Nonostante le tue parole, ti avevano ucciso e adesso non c’era differenza fra il tuo corpo lacerato e quello dei ladroni che su quelle croci rappresentavano tutti noi. Ciò che ti dissero quei due che avevi accanto negli ultimi istanti, ci fece capire che proprio nel momento della nostra morte avremmo ancora avuto la possibilità di scegliere: se crederti, farci dare le chiavi della porta oscura e seguirti oltre, oppure, restare, scettici, nell’oscurità perenne. Anche in quel momento Signore hai avuto la forza di pensare a noi e indicarci per l’ultima volta la strada, senza pensare nemmeno a morire. Ecco, sei andato Gesù. Ma dove?

Orlando di Lasso (1532-1594)
Surrexit pastor bonus
Surrexit pastor bonus, qui
animam suam posuit pro
ovibus suis, et pro grege suo
mori dignatus est.
Alleluia.

È risorto il buon pastore il quale, per salvare le pecore del suo gregge, si immolò donando la sua vita e per il suo gregge ritenne degno morire. Alleluia. 

Ecco, la via è aperta. Qui ovunque è la luce. Qui regna il silenzio perché le parole non servono più. Qui tutto è perfetto e tutto è pace. Nel mondo dovrete ancora soffrire ma fatevi coraggio, perché io ho vinto il mondo. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Rallegratevi ed esultate perché la destra del Signore ha fatto meraviglie. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Giovanni Gabrieli (1557-1612)
Jubilate Deo
Jubilate Deo omnis terra
quia sic benedicetur homo
qui timet Dominum.
Jubilate Deo omnis terra.
Deus Israel conjugat vos, et
ipse sit vobiscum.
Mittat vobis auxilium de sancto
et de Sion tueatur vos.
Jubilate Deo omnis terra.
Benedicat vobis Dominus
ex Sion, qui fecit coelum et terram.
Jubilate Deo omnis terra.
Servite Domino in lætitia.

Acclamate Iddio voi tutti della terra poiché è così che l’uomo, timoroso del Signore, lo ringrazia. Acclamate Iddio voi tutti della terra. Il Signore d’Israele vi ha uniti ed Egli sia sempre con voi. Vi presti il suo santo soccorso e da Sion vi custodisca. Acclamate Iddio voi tutti della terra. Vi benedica il Signore di Sion, il quale creò cielo e terra. Acclamate Iddio voi tutti della terra. Servite il Signore con esultanza.

Testo introduttivo e testi di raccordo del progetto di Dario Tabbia, liberamente tratti da Antico e Nuovo Testamento, Vita di Gesù di F. Mauriac e La gloria di G. Berto

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