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Coro e movimento coreografico in aggiunta al canto

di Mario Fontana
dossier "Coro e movimento", Choraliter 47, agosto 2015

Ringrazio la redazione per avermi chiesto di scrivere sul tema coro in movimento. Dirigo il coro di voci bianche Calicantus che ho fondato nel 1993 e ho introdotto il movimento scenico solo 15 anni fa. Allora ci preparavamo per un festival in Canada e volevamo portare un’immagine semplice ma convincente della freschezza di alcuni brani folcloristici del Canton Ticino. All’epoca far muovere i giovani adolescenti era un’impresa nuova e la loro resistenza era manifesta: mettersi in gioco fisicamente richiedeva di superare inibizioni e di avere una certa confidenza col proprio corpo.

Proprio nell’età in cui veniamo stravolti dalla crescita, nella quale il nostro corpo può non piacerci affatto e nel quale magari non ci riconosciamo più, ecco che l’esperienza corale si presenta con una sfida e un’opportunità: muoversi davanti a un pubblico.
Questo ci fa capire innanzitutto l’importanza di conoscere bene i nostri cantori. Così come per la scelta fondamentale del repertorio, che il direttore deve fare in base alla conoscenza delle potenzialità dei propri cantori, allo stesso modo decidere di inscenare coreografie deve dapprima passare per un’adeguata quanto imperativa sensibilità nei loro confronti. Il secondo passo è avere un progetto artistico che abbia un senso. Per il primo punto è anche vero che non tutti i giovani incontrano reticenze verso l’esibizione scenica. L’omologazione agli stili e ai modelli di comportamento veicolati dai vari media e dall’odierna cultura dell’apparire, se da un lato favoriscono l’espressione fisica, dall’altro ne possono appiattire, annullare e banalizzare il senso. Ecco allora il secondo punto, che senso deve avere il movimento in un coro? Innalzare l’arte corale? Rendere visibile un concetto, un’idea? Imitare in qualche modo le star del momento? Conquistare il pubblico? O i cantori stessi?
Nel canto, come sappiamo, l’esecutore è anche lo strumento. Il corpo è lo strumento. Nell’educazione dei bambini è molto utile cominciare sin dalla tenera età a costruire una percezione corporea che permetta pian piano di trasformarsi in coscienza corporea. Questo approccio aiuterà il giovane non solo nell’attività musicale, ma in primo luogo contribuirà a formare la percezione di sé, a dare sicurezza e coscienza alla persona e alla sua formazione complessa prima, e fisica poi, nella postura, nella tonicità. In seguito, ai sensi dell’educazione propriamente vocale, ciò sarà la base per assumere un’adeguata respirazione diaframmatica e sviluppare una propriocezione specifica delle parti del corpo concorrenti al canto.

Nella nostra scuola di canto Calicantus i bambini di quattro anni cominciano in questo clima a prendere coscienza del ritmo attraverso giochi e stimoli fisici legati al canto. A sei anni essi scoprono il canone e imparano a sostenere questa rudimentale forma di polifonia con il supporto del movimento. Le diverse frasi musicali del canone vengono descritte con un dato movimento coreografico: ciò rende immediatamente comprensibile dove situarsi, favorendo la prima conquista di autonomia dell’orecchio. Aggiungere piccoli movimenti per determinati fraseggi o parole, può anche dare semplicemente il gusto al cantare o sottolineare il senso ludico di un determinato canto. E questa è una buona cosa. 

Nel caso de L’ago in un pagliaio di Andrea Basevi, il coro cerca l’ago al suo interno, piccoli gruppi di bambini lo vanno a cercare anche nel pubblico, il direttore fruga sul leggio. Esilarante! Nell’età dell’adolescenza i giovani sono inseriti nel cosiddetto coro principale, dove eseguono brani a tre, quattro, sei voci e dove vengono ingaggiati in tutto il mondo. In questo gruppo il movimento subentra quale elemento coreografico ben preciso. In rari casi come in Can you hear me? di Bob Chilcott ci atteniamo alle indicazioni della partitura. Solitamente creiamo noi le varie coreografie. Di per sé non scelgo mai di fare una coreografia per migliorare un brano o per cercare un effetto. Se la composizione viene a stimolare la mia intuizione, decido di procedere con la spettacolarizzazione. È il caso di Wah-bah-dah-bah-doo-bee di Ivo Antognini.

Ma se ricerca autentica vogliamo fare, allora la mia posizione sul coro in movimento rimane scettica. Nella comunità corale, i gesti coreografici in accompagnamento al canto sono diventati vieppiù presenti nei cori, in particolare giovanili. Se da un lato ciò sembra rendere più vivace l’esibizione di un coro, considerata tradizionalmente statica, dall’altro in troppe situazioni il movimento va a scapito della qualità vocale. Ciò riduce l’arte corale a una messa in scena fuorviante che, ahimè, riscontriamo troppo spesso. Non è raro infatti percepire l’entusiasmo dei cantori, dato dal fatto di esibirsi nello spazio, ma con una scarsa capacità a sostenere la vocalità. Vocalità che diventa debole, abbruttita, a volte persino volgare. Questa situazione è molto diffusa e a questo livello, a mio avviso, va affrontato il tema. Bambini e giovani si muovono, eseguono le consegne ricevute, intanto canticchiano e non c’è nulla che funziona: la musica è spenta, la spettacolarizzazione è triste. Il pubblico è contento. Sì, commosso dalla naturale risonanza della propria infanzia di fronte a un coro di giovani, l’adulto è soddisfatto. L’arte no! Nulla da eccepire, per contro, riguardo quei cori che, nel rispetto del canto, sanno anche regalare un’immagine scenica spettacolare, in particolare in certo repertorio folcloristico. La voce dunque va protetta e salvaguardata.

Chi come noi non ha a disposizione un docente di cultura fisica, di danza o un coreografo, a maggior ragione deve fare un lavoro interiore e capire cosa sta cercando e cosa vuole dare alla musica. Potersi esprimere al meglio in movimento richiede un lavoro approfondito sul piano della tecnica vocale, a cominciare dalla respirazione, con una chiara consapevolezza della posizione delle vocali nella bocca, del sostegno del respiro, oltre che aver costruito gradualmente una postura corporea e, più importante di tutte, un’attitudine al senso del collettivo. Dare senso al movimento in coro è a tutt’oggi una ricerca da svolgere, seriamente, un dibattito da ampliare (e il presente dossier ne è un ottimo esempio). In primis per onorare l’azione educativa, della quale siamo chiamati a rispondere. Nonostante i cori-musical e i quasi karaoke-cori stiano indicando modi e percorsi assai preoccupanti, sintomatici di un’attitudine e riflessione piatte e povere proprio in seno all’odierna società dell’apparire, dove la nostra cultura potrebbe invece riscattare valori autentici e meditati, credo che muovere le braccia su una parola, fare una smorfia ecc. sia comunque un fatto positivo.
Da qui a parlare di arte e a farne un uso intelligente, nel rispetto dei nostri cantori, forse ci manca un bel pezzo di strada. Credo che frequentare il teatro e la danza, i concerti e le palestre, possa aiutarci a ritrovare nelle varie discipline i rispettivi elementi estetici e a riflettere sul senso che essi possono avere oggi all’interno di un coro, per elevare infine l’arte corale al suo originale luogo di provenienza.

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