Cookie Consent by Free Privacy Policy website

I canti del Natale nella tradizione popolare
Similitudini e contaminazioni accademiche

di Ettore Galvani
dossier "Il coro a Natale", Choraliter 48, dicembre 2015

L’uguaglianza dei testi e delle strutture non sempre sono indizio sicuro di una stessa matrice poiché […] quando si tratta di pensieri o di desideri o di sentimenti che sono comuni a tutti gli uomini e che per la loro semplicità non possono essere espressi che in una data maniera, quella certa uguaglianza, determinata dalla necessità stessa delle cose, può essere assolutamente fortuita. [1]

L’eguaglianza nell’espressione è determinata dall’eguaglianza stessa delle situazioni. La spontaneità e l’ispirazione, dove appajono, risultano, se vediamo bene, più che altro quali effetti di un dato momento psicologico o, se si vuole anche, fisiologico. Che se la passione e la commozione sono il prodotto di un tal momento, la poesia che lo rispecchia non riesce, appunto per ciò, a diventar tradizionale. [2]

Rifacendosi alla teoria formulata da alcuni dei padri della ricerca etno-musicale dei primi anni del Novecento, tra i quali Antonio Ive e Ireneo Sanesi, e in buona sostanza già ipotizzata da Giuseppe Pitrè nella sua introduzione ai Canti popolari siciliani [3] del 1870, in cui si affermava che: «ogni uomo che si trovi colpito da eguali sensazioni e che sottostia ad egual vicenda, riproduce i medesimi atti e li esprime più o meno analogamente»; tenendo conto inoltre che i canti rituali, proprio per la loro tipologia di narrazione, non sempre rispondono alle leggi dei canti popolari tradizionali in fatto di migrazioni, contaminazioni e modificazioni dovute al tempo e ai vari dialetti con cui si vedono rimodellati i testi, possiamo dire che la maggior parte di questa produzione ha forti caratteristiche geografiche e che detti canti raramente si calano nella concezione di migrazione come se fossero dei veri e propri canti epico-lirici nei quali, di conseguenza, le comunanze visibili nella narrazione diventano metro inequivocabile di paragone.

Ragionando in termini correnti si può affermare perciò che un canto rituale, pur avendo temi e personaggi comuni, sostanzialmente di ispirazione evangelica anche apocrifa, in alcuni casi sottostà alle regole del canto popolare tradizionale ma nella maggior parte dei casi si identifica in produzioni locali fortemente condizionate da tradizioni e costumanze autoctone, sia nelle forme cerimoniali che in quelle della tessitura melodica.

Le tradizioni di canti rituali a sfondo religioso hanno diffusioni diverse da regione a regione ma è innegabile che la contestualizzazione e il radicamento sul territorio della nostra penisola sono differenti, evidenziando una produzione più ricca e folkloristica – nella più ampia accezione del termine – al Sud e che man mano che si ci sposta verso Nord i ritrovamenti di questo tipo di impianto narrativo e soprattutto la vitalità nelle varie realtà vernacolari diventano quanto mai limitati.
Probabilmente le esternazioni folkloristiche e drammaturgiche a sfondo religioso che sono vive tutt’oggi nelle varie regioni meridionali hanno fortemente catalizzato l’attenzione del popolo su questi argomenti anche nei tempi cosiddetti moderni, radicando in maniera indelebile quella che è la tradizione orale del canto rituale sacro.

Nell’area padano-alpina la situazione è molto diversa: il palinsesto del palcoscenico natalizio, pur avendo gli stessi attori, si limita a uno scenario che ripropone il canto strofico di struttura epico-lirica. Nella maggior parte dei casi i canti rimangono autoreferenziali, fini a se stessi, e al momento della riproposta orale, di solito statica o contestualizzata in modo rigido, raramente accompagnati da scenografie itineranti o dialogate che di solito vengono confinate nel periodo dell’Epifania in cui la struttura dialogica, tipica di canti di questua e delle Martine [4], abbinata a quella itinerante sono ancora presenti in molte realtà paesane del nord Italia.
Il campo di analisi, pur contenuto da un punto di vista tematico e temporale con le sue tipicità strutturate all’interno del ciclo natalizio, dall’Avvento all’Epifania, è di imponente vastità in quanto entrano in gioco arcaiche consuetudini legate alle liturgie religiose variamente combinate ad abitudini popolari autoctone come la produzione di addobbi e di immagini sacre, i cosiddetti santini, e poi ancora le filastrocche, i giochi, i tradizionali botti, i regali che ormai inconsapevolmente ripercorrono la tradizione di San Nicola [5], la stessa famiglia chiamata a diventare attrice principale in questa caleidoscopica recitazione e infine l’ampio clima sonoro legato al Natale, che di per sé forma il corpus centrale della ricerca etnomusicale riferita alle tradizioni popolari legate a questo periodo dell’anno liturgico.

Nei testi dei canti di Natale, in modo sostanzialmente costante a tutte le latitudini, entrano in gioco gli elementi dottrinali fondamentali, quali il mistero dell’Incarnazione, l’annuncio di una Redenzione, il prefigurarsi della missione del Bambino Gesù, la predilezione di Dio che nasce in un popolo eletto, il paradosso che tale umile evento costituisca un nodo storico per la totalità dei popoli. Questi temi calano nell’espressione popolare declinati con sentimenti di stupore, gioia, meraviglia, tenerezza e giubilo. L’incarnarsi di Dio suscita un forte senso di partecipazione nei cuori dei popoli che si appropriano volentieri di quei dettagli tanto simili alla vita comune: una famiglia povera e lontana da casa, che soffre il freddo e la fame come tante, un bambino che nasce lontano dai fasti che meriterebbe in una umiliazione che prelude alla morte in croce. E, ancora, l’annuncio dato ai pastori, il loro tragitto nella notte (spesso fra le intemperie).
Tutto delinea una povertà di luoghi e mezzi dove però irrompe niente meno che un canto di angeli, come un ponte tra cielo e terra e, infine, la visita di misteriosi re da oriente.
La presenza di pastori a raccogliere l’annuncio angelico e presso il presepio suggerisce melodie ispirate alle modalità delle tradizioni vocali e strumentali delle campagne. I ritmi binari a suddivisione ternaria (espressione affettiva richiamante il cullarsi e cullare) sono i più diffusi. Le melodie più antiche conservano scale e cadenze modali.
Ed ecco allora che angeli, pastori e magi sono in perfetta sintonia con l’ambiente circostante, con la storia, la fede e le tradizioni popolari e sono parte integrante della vita quotidiana, legata ad ancestrali stereotipi ormai quasi del tutto dimenticati e per lo più codificati in trattati di antropologia evolutiva della quale è appunto una branca l’etnomusicologia moderna.
Prima di addentrarci nell’analisi del repertorio generale delle regioni padano-alpine, però, non possiamo esimerci dal prendere brevemente in considerazione due canti conosciuti e cantati in tutto il territorio nazionale e che rappresentano per molti versi i due fronti del palinsesto melodico e narrativo dei canti rituali del Natale, quello liturgico e quello popolare: Tu scendi dalle stelle e Maria lavava.
Una o più melodie da cui Sant’Alfonso deve aver tratto qualche elemento dovevano esser già note, come testimonia la presenza di un tratto melodico del tutto simile nel Capriccio Pastorale di Girolamo Frescobaldi (I Libro delle Toccate, 1635). La stessa melodia venne rielaborata anche da altri autori del XVIII secolo.
Rivisitata in lingua italiana nel 1754 prende spunto, sia nel contesto narrativo che in quello melodico, dalla pastorale popolare Quanno nascette Ninno a Betlemme scritta dallo stesso Sant’Alfonso Maria de’ Liguori circa dieci anni prima.

Conquistando subito popolarità viene inserita nella terza revisione della sua raccolta di Canzoncine Spirituali [6] del 1757 col titolo Canzoncina a Gesù Bambino, affiancandola alla lauda in dialetto napoletano presente nella raccolta col titolo Per la nascita di Gesù. Senza ombra di dubbio, l’allora sacerdote scrisse una pagina importante nella storia della spiritualità popolare della Chiesa tanto che: «[…] continua ad essere uno dei canti natalizi più conosciuti e cantati di tutti i tempi; ed è proprio per la sua ingenua grazia melodica che non si limitava ad essere utilizzato esclusivamente nei luoghi di culto durante i tempi del calendario liturgico ma, sicuramente, veniva utilizzato, in perfetto stile del più tipico canto popolare di tradizione orale, anche in altre circostanze. Prova ne sono le almeno due versioni ritrovate che pur rifacendosi al testo originale trovano differenze sostanziali nell’impianto melodico». [7]

Dal punto di vista dei contenuti testuali, le canzoncine di Sant’Alfonso sviluppano concetti molto più ampi rispetto alle costanti di cui si diceva. Potremmo anzi dire che anche in epoche successive non si troverà più una tale ricchezza di immagini e situazioni. Dietro ingenue espressioni, affettivamente alla portata di tutti, sono richiamati grandi temi biblici legati alla venuta del Messia: la pace tra i popoli e anche nella natura, in particolare (da Isaia) la convivenza festosa tra specie diverse. Il fiorire di una natura paradisiaca.
Il Creato che accoglie il Creatore che si fa creatura.
Questa ipotesi brevemente descritta nel volume Canti popolari piemontesi: Son tre re viene confermata dall’impianto melodico di altre due versioni ritrovate in Piemonte: la prima inserita nella selezione di Canti Popolari Religiosi [8] (Società Editrice Internazionale, 1930 Torino), studiata e realizzata dagli autori firmatari della raccolta i quali riportano molte composizioni tratte da pubblicazioni di canti spirituali delle scuole cristiane a opera dell’istituzione del Collegio San Giuseppe [9], la seconda ritrovata a Varzo, paese della Valle Divedro in area Ossolana, e riproposta nella raccolta Gesù, Giuseppe e Maria [10] (1989) dalla Camerata Corale La Grangia di Torino.

Non essendo argomento in questo contesto l’analisi musicale e puntuale dei quattro impianti melodici non ci si può esimere dal notare che, pur diversi dalla presunta versione da cui il Santo compositore rielaborò il suo Tu scendi, tutti i canti ripropongono la stessa ritmica pastorale in 6/8, tutte le versioni iniziano con un’anacrusi e, per analogia, tutte ripercorrono e ricordano in qualche modo la stessa scansione melodica. L’altro canto di impianto più profano ma comunque di enorme impatto nella tradizione popolare peninsulare è quello universalmente conosciuto col titolo Maria lavava «[…] che sottolinea il carattere della festa familiare del Natale attraverso una declinazione quotidiana e quasi feriale della Sacra Famiglia». [11]

Maria lavava,
Giuseppe stendeva,
il Bimbo piangeva,
dal freddo che aveva.

Non piangere, oh Figlio,
che adesso ti piglio,
ti canto una nanna,
ti facci dormir.

La neve sui monti
cadeva dal cielo,
Maria col suo velo
copriva Gesù.

Variante [12]

Maria lavava,
Giuseppe stendeva,
il Bimbo piangeva,
che fame egli aveva.

Del latte t’ho dato
Del pan non ne ho
Sta’ zitto Bambino,
che ti cullerò.

Variante di Ischitella (Fg)

Maria lavava
Giuseppe spanneva
’U figghije chiagneve
a zizza vuleve

“Zitto, mio figlio,
te nfasce e te pigghijete
denghe la zizza
e te torne a cucà”.

Variante di Còmiso (Rg)

Maruzza lavava
Giuseppi stinnìa
Bamminu chianciva
minnuzza vuliva.

“Zittiti, fillu,i
ca ora ti pillu.
Ti dugnu pappuzza
minnedda nun ci nn è!”

“Vidi, Giuseppi
accordalu tu
conzaci a naca
o beddu Gesù”.


Di contraltare alla sacralità liturgica della pastorale di Sant’Alfonso, il canto che descrive la quotidianità della Sacra Famiglia prende spunto dalla narrazione dall’apocrifo Vangelo Arabo dell’infanzia: [13] Maria che lava le fasce del bambino è l’immagine che più ha colpito la fantasia popolare.
«[11,1] Il figlio del sacerdote, colpito dalla solita infermità, entrò nell’ospizio e qui incontrò Giuseppe e la signora Maria, dai quali tutti gli altri erano fuggiti. La padrona, signora Maria, aveva lavato le fasce del signore Cristo e le aveva stese sopra della legna. Venne dunque il fanciullo indemoniato, prese una di queste fasce e se la pose sul capo; ed ecco che i demoni incominciarono a fuggire dalla sua bocca sotto forma di corvi e di serpenti».
In un classico quadro di poesia orale troviamo questo affresco musicale particolarmente diffuso in tutte le regione della penisola italica, dal Piemonte alla Sicilia.
Interessante da un punto di vista biblico la figura di Giuseppe ritratto come un vecchio umile e modesto. Fino al V sec. compare per lo più nelle Natività come un personaggio accessorio tra angeli e pastori, buoi e asinelli.
Esile, canuto, con la barba bianca, deve rinforzare il dogma della verginità di Maria e rassicurare i fedeli dando garanzia del suo casto connubio.
In una concezione quantomai moderna della figura di padre, lo ritroviamo partecipe nelle faccende domestiche come per sottolineare la speciale funzione materna di padre putativo di Gesù.

È facile costatare come nell’arte siano confluite le fantasticherie dei racconti apocrifi e la sobrietà dei vangeli, le riflessioni della mente e l’affetto del cuore.
L’arte è il polso, dove si può oggettivamente controllare lo stato di salute della teologia.
Per la conoscenza della teologia di san Giuseppe, non è affatto indifferente che il nostro Santo sia rappresentato con l’aureola o senza, giovane o vecchio, in adorazione o addormentato, accanto a Gesù e Maria ovvero appartato, semplice comparsa in una scena oppure protagonista, intento al lavoro manuale o alla lettura di un libro, con in braccio il Bambino o un arnese da lavoro, con in mano un bastone, una verga fiorita o un giglio, ecc.
Dietro ogni atteggiamento figurativo c’è un presupposto logico, che va accuratamente individuato attraverso un’esatta conoscenza degli evangeli, degli apocrifi, della liturgia, dei documenti del magistero, delle devozioni, delle tradizioni, del folclore, della letteratura religiosa e dell’oratoria sacra. […] San Giuseppe è rappresentato sia giovane che vecchio: i due tipi ricorrono con la stessa frequenza.
Le scene anticamente più rappresentate sono il sogno e lo sposalizio di san Giuseppe, la prova delle acque amare (di origine orientale, non anteriore al sec. VI), il viaggio a Betlemme (dal sec. VI), la fuga in Egitto (molto rara nell’arte del primo millennio; il riposo nella fuga in Egitto compare in Italia nel sec. XIV, trasformandosi verso il 1600 in scena familiare con paesaggio idilliaco)».

La definizione del Riposo in Egitto, collocato all’interno della famosa Fuga, ci introduce a un altro canto rituale e precisamente nella ballata variamente conosciuta col titolo Viaggio a Betlemme ovvero Andem, andem Vergin Maria, San Giusèp e la Madòna o altri similari titolazioni.

Ammirevole nel suo genere per la diffusione trasversale nella nostra penisola, introduce la struttura strofica a carattere dialogico tipica dell’area padano-alpina con una diffusione trasversale partendo dal Piemonte e arrivando fino al Veneto, con tracce contaminate della versione originale inserite in contesti narrativi discosti dalla fonte originale.
«Nell’ambito dei rituali del Natale i canti cosiddetti del viaggio si pongono in una dimensione molto particolare; ispirati ad alcuni passi di vangeli apocrifi diventano, con il passare del tempo, ispiratori presso altre culture limitrofe, tanto da avere ritrovamenti sostanzialmente diversi tra loro ma chiaramente appartenenti ad un unico ceppo originale.
Si può altresì dire che l’estro del popolo attraverso questo semplice canto è riuscito a raggiungere il giusto equilibrio tra contemplazione, sentimento e grazia, nonché a trasmettere quella sensazione di umanità che può trasparire solamente dalle tribolazioni di una madre in attesa di far nascere il proprio figlio.
Nel capitolo 20 del vangelo apocrifo definito dello Pseudo-Matteo [14] si narra quando segue:

  1. Nel terzo giorno di viaggio, gli altri camminavano, ma la beata Maria stanca per il troppo calore del sole del deserto e vedendo un albero di palma disse a Giuseppe: “Mi riposerò alquanto all’ombra di quest’albero”. Giuseppe dunque la condusse premuroso dalla palma e la fece discendere dal giumento. Sedutasi, la beata Maria guardò la chioma della palma, la vide piena di frutti e disse a Giuseppe: “Desidererei, se possibile, prendere dei frutti di questa palma”. Giuseppe le rispose: “Mi meraviglio che tu dica questo, e che, vedendo quanto è alta questa palma, tu pensi di mangiare dei suoi frutti. Io penso piuttosto alla mancanza di acqua: è già venuta meno negli otri e non abbiamo onde rifocillare noi e i giumenti”.
  2. Allora il bambino Gesù, che riposava con viso sereno sul grembo di sua madre, disse alla palma: “Albero, piega i tuoi rami e ristora mia mamma con il tuo frutto”. A queste parole, la palma piegò subito la sua chioma fino ai piedi della beata Maria; da essa raccolsero i frutti con i quali tutti si rifocillarono. Dopo che li ebbero raccolti tutti, la palma restava inclinata aspettando, per drizzarsi, il comando di colui al cui volere si era inclinata. Gesù allora le disse: “Palma, alzati, prendi forza e sii compagna dei miei alberi che sono nel paradiso di mio padre. Apri con le tue radici la vena di acqua che si è nascosta nella terra, affinché da essa fluiscano acque a nostra sazietà”. La palma subito si eresse, e dalla sua radice incominciò a scaturire una fonte di acque limpidissime oltremodo fresche e chiare. Vedendo l’acqua sorgiva si rallegrarono grandemente e si dissetarono con essi anche tutti i giumenti e le bestie. Resero quindi grazie a Dio.

Anche se per la probabile continua reinterpretazione dei canti e delle loro storie da parte del popolo la narrazione del canto ha subito la trasformazione dalla Fuga in Egitto al Viaggio a Betlemme, da questo episodio, indicato come il primo miracolo di Gesù, sono nate molte ballate diffuse in tutta l’Italia del Nord e in Europa come Lou Premier Miracle nel sud della Francia, Sant Josep i la Mare de Déu in Catalogna e The Cherry Tree Carol nei paesi di lingua anglosassone». [15]
Ma se la Fuga in Egitto è ammirevole nella struttura e nella diffusione mitteleuropea che ha avuto nei secoli e che potrebbe essere un connubio tra contaminazioni accademiche e similitudini letterarie, il canto che narra più di ogni altro le figure dei Re Magi, comunemente conosciuto col titolo Noi siamo i tre Re, rappresenta un altro tassello importante di quella diffusione trasversale che prende tutte le regioni padano-alpine con una capillarità quasi meticolosa, modificandosi in funzione delle varie aree geografiche ma mantenendo nella maggior parte dei casi inalterata la narrazione di base e gli impianti melodici, che ruotano intorno a poche varianti.

Legata all’antico rito della Stella, detto anche dei Tre re, questa lauda tradizionale è documentata oltre che in Italia settentrionale, in Svizzera e in Sardegna. In Europa la si trova presente in vaste aree di lingua germanofona dove i canti di questua sono chiamati Dreikönigslieder; ma alcune varianti sono presenti anche in lingua boema, ungherese e slava. In Trentino la sua presenza è documentata a partire dal XVII secolo con notizie documentate di una versione a stampa, forse la più antica, contenuta in un opuscoletto ritrovato a Fierozzo San Felice (Tn), stampato a Bassano dalla tipografia Remondini, senza indicazioni riguardanti l’autore del testo né la data di edizione.
Pur supponendolo edito tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700, lo si ritrova in diverse ristampe più recenti col titolo Nuova operetta spirituale sopra la venuta dei Santi tre Re Magi… del Redentore Gesù Bambino, di cui una copia a opera della tipografia Baseggio in Bassano data dal 1834.

La versione popolare che vi esponiamo invece è stata ritrovata a Viganella [16], paese della Valle Antrona (Vb) in Piemonte e, come si potrà evincere nella sua stesura articolata su dodici strofe, vengono riportate, pressoché identiche, tutte quelle presenti sull’antico componimento pubblicato a metà Ottocento.

Noi siamo i tre Re, noi siamo i tre Re venuti dall’Oriente ad adorar Gesù.
Ch’è un Re superiore di tutti maggiore di quanti al mondo ne furon giammai.
Ei fu che ci chiamò mandando la stella che ci condusse qui.
Dov’è il bambinello vezzoso e bello in braccio a Maria ch’è madre di lui.
L’amabile Signore si merita i doni assiem’al nostro cuor.
Perciò abbiam portato incens’odorato, mirra, ed oro in dono al Re Divin.
Quell’oro che portiam soccorre o Maria la vostra povertà.
D’incenso l’odore ne toglie il fetore di stalla immonda in cui troviam Gesù
E questa mirra poi insegna del Bambini la vera umanità.
E mostra di passione l’amaro boccone, l’amara bevanda che per noi soffrirà
Or noi ce n’andiam ai nostri paesi da cui venuti siam
Ma qui resta il cuore in man del Signore, in mano al
Bambino, al Bambinel Gesù.


Per una panoramica generale sulla diffusione di questa ballata natalizia vi riportiamo di seguito alcune varianti presenti sul territorio padano-alpino.
Da segnalare l’interessante e particolare versione presente al sud della Svizzera italiana avente forma contratta nell’impianto narrativo con un contesto melodico che si pone a metà strada con la lezione trentina. A seguire il testo della variante di Fiume in Istria.

Variante istriana [17]

Noi siamo i tre Re, vignudi dal Oriente per adorar Jesù
che ’l xe el più grando Re de quanti al mondo xe
Xe lù che la gran stela, el ga mandà in ziel
che qua ne ga menà adorar Jesù Bambin cussì bel e cussì fin.
In brazo a Maria che ’l lata e che ’l riposa
col manzo e ’l asinel, San Jusepe suo sposo lo scalda col fià.
Eco avemo portà regali del Oriente:
Inzenso profumà, E mira e oro fin per regalo al Bambin.
El oro che ghe sia per ajutar Maria,
in granda povertà, e mira che ghe sia quando che ’l morirà.
Inzenso per profumar questa misera stala
dove el riposarà, fin che per far la straje de qua i lo
scazzierà. E adesso noi partiam in Oriente torniam,
e qua lassiam el cor in man de nostro Signor e in brazzo de Maria.
E cossisia.

Nel contesto del percorso cristiano e liturgico dell’Avvento, della sacralità del Natale e della naturale conclusione del rendersi manifesto al mondo con l’Epifania, in questa rappresentazione solenne e popolare vista il più delle volte come una riproposta in termini teatrali anche con la minuziosa e devota preparazione dei presepi viventi, non potevano mancare le figure dei Pastori.
Primi ad accorrere all’adorazione del Bambino Gesù, i pastori vengono descritti come un gruppo policromo ed eterogeneo e sono raffigurati in diversi momenti della loro quotidianità: mentre conducono al pascolo le pecore (unico animale da gregge ammesso nel presepe), con la famiglia davanti al focolare a treppiede tipico dei pastori raminghi, in preparazione dei doni da portare a Gesù… Non c’è limite al loro numero anche se, nella tradizione arcaica del Presepe, per rispetto al numero dei Magi, non superavano i tre.
I canti del Natale dedicati ai pastori li ritroviamo diffusi in tutte le tradizioni popolari di estrazione cristiana, senza contaminazioni evidenti nelle narrazioni o nei vari impianti melodici.Il contesto similare nelle varie lezioni ritrovate è da ricondurre alle narrazioni evangeliche anche apocrife e alle descrizioni in esse contenute, adattate e riviste in funzione delle tradizione autoctone delle varie aree di ritrovamento.
Personaggio di spicco nella tradizione natalizia soprattutto nell’area piemontese è sicuramente il pastore Gelindo che trova le sue origini in alcune scritture del XVII sec. nell’area del Monferrato ed è descritto nel saggio filologico Il Gelindo. Dramma sacro piemontese della natività di Cristo del 1896 a opera di Rodolfo Renier. Personaggio principale di una sacra rappresentazione definita divota cumedia in lingua piemontese, a sfondo sacro-satirico, la sua tradizione orale appartiene al teatro medievale dell’area franco piemontese, ai Misteri-Mystères e, come già accennato in precedenza, ai presepi viventi di reminiscenza francescana, diventati successivamente drammi sacri con robusta presenza di elementi profani.

Il Gelindo viene descritto come un pastore burbero e un po’ testone, dal cuore d’oro, con l’inseparabile agnello disposto intorno al collo e legato davanti sul petto con le quattro zampe, che per obbedire al censimento dell’Imperatore lascia la sua casa in Monferrato e, per quella magia che aleggia nel periodo natalizio, si ritrova dalle parti di Betlemme. Sul suo cammino incontra Maria e Giuseppe, parla con loro, loda la bellezza della giovane sposa e, mosso a pietà, li aiuta a trovare alloggio e a sistemarsi nell’umile capanna: sarà quindi il primo ad arrivare per la nascita di Gesù. Gelindo è il primo portatore di doni, materiali e spirituali, è un’anima semplice, ingenua, ma proprio per questo rappresenta la meraviglia riconoscente degli umili. Il pastore monferrino si rapporta con Maria e Giuseppe senza soggezione, li tratta alla pari, usa espressioni dialettali semplici e genuine e, davanti a quel bambino, agisce come farebbe con qualsiasi bambino: lo loda, lo coccola, lo accarezza, con tenerezza e spontaneità. La figura di Gelindo racchiude un messaggio importante e di profondo significato perché svela e rafforza il concetto di fratellanza ed eguaglianza: siamo tutti figli di Dio e fratelli tra noi, fratelli quindi anche del Bambino che nasce nel freddo della grotta a Betlemme.

Trarre conclusioni definitive sugli argomenti precedentemente esposti sarebbe uno sbaglio e una chiusura alle possibili e probabili evoluzioni demografiche, folkloristiche e accademiche che sicuramente verranno negli anni a seguire.
L’etnomusicologia moderna inserita nel più vasto campo dell’antropologia evolutiva non può che studiare e analizzare il momento contingente in relazione al campo di studi e alle nuove scoperte scientifico-letterarie che di volta in volta confermano o confutano gli studi precedentemente condotti.
A oggi si può affermare che i canti rituali in generale ma soprattutto quelli appartenenti al contesto natalizio sono in parte il frutto di quelle contaminazioni ed elaborazioni collettive tipiche delle fasi evolutive del canto popolare, ma in buona sostanza appartengono altresì anche a quella produzione popolare di origine dotta che trae la propria forza e longevità da contaminazioni accademiche di ispirazione evangelica.
Fatto salvo il lato spirituale che ogni lezione può trasmettere a chiunque la ascolti, abbiamo notato che le tradizioni di ogni singolo popolo sono in realtà un’unica tradizione e, in qualsiasi lingua esse vengano cantate, i personaggi principali ruotano e a turno salgono sul palcoscenico musicale della canzone rituale.
In un contesto di studi più ampi e contestualizzandolo ai giorni nostri, il porre attenzione alle nostre tradizioni in generale – siano esse musicali o comportamentali, fino ad arrivare agli usi e costumi giunti a noi attraverso i secoli – non è altro che un indicatore di rispetto anche per le nuove culture che si presentano alla nostra porta di casa e di cui, in molti casi, condividiamo già l’esotica e caleidoscopica bellezza e vitalità.

-

Note

  1. Ireneo Sanesi, «La Critica», Rivista di letteratura, storia e filosofia. Vol. IV, Giuseppe La Terza & Figli Editori, Bari 1906.
  2. Antonio Ive, Canti popolari Velletrani raccolti ed annotati da Antonio Ive, Loescher Editore, Roma 1907.
  3. Canti popolari siciliani raccolti ed illustrati da Giuseppe Pitrè, L. Pedone-Lauriel Editore, Palermo 1870.
  4. L’antica tradizione del Cantar Martina, pratica molto diffusa nelle valli piemontesi, era legata ai riti calendariali. Inserita nel contesto delle veglie invernali, soprattutto nel periodo di Carnevale, vedeva alternarsi due gruppi di cantori: uno fuori, a chiedere il permesso di entrare nella stalla della veglia, l’altro all’interno, a rispondere per poi concedere l’ingresso.
  5. San Nicola di Bari, noto anche come san Nicola di Myra, san Nicola dei Lorenesi, san Nicola Magno, san Niccolò e san Nicolò (Patara di Licia, 270 circa - Myra, 6 dicembre 343), è venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da diverse altre confessioni cristiane. Fu vescovo di Myra (oggi Demre) città situata in Licia, provincia dell’Impero bizantino, nell’attuale Turchia. È noto anche al di fuori del mondo cristiano perché la sua figura ha dato origine al mito di Santa Claus, conosciuto in Italia come Babbo Natale.
  6. Sono cantici religiosi composti con lo scopo di sostituire le canzoni licenziose in uso durante i lavori dei campi e utilizzate durante le missioni predicate da Sant’Alfonso e dai suoi compagni. È probabile che le prime Canzoncine siano state composte prima che Sant’Alfonso diventasse sacerdote; dopo il 1730 ve ne sono notizie dalla corrispondenza del Santo e dal luglio 1732 incominciano a essere pubblicate. Verso questa data infatti apparve una prima edizione assai modesta, al prezzo di 33 grana il centinaio: senza dubbio si trattava di un foglietto distribuito durante le missioni. Negli anni successivi la pubblicazione viene via via incrementata: l’edizione del 1758 ne conteneva 28; quella con la traduzione in versi latini, pubblicata da P. Reuss nel 1896, ne conteneva 45.
  7. Canti popolari Piemontesi, dal Piemonte all’Europa, vol II, Son Tre Re, Canti natalizi della tradizione popolare, Daniela Piazza Editore, Torino 2004.
  8. Canti religiosi popolari, A&C, Società Editrice Internazionale, Torino 1930.
  9. La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di Antonio Acerbi, Vita e Pensiero, Milano 2003.
  10. Gesù, Giuseppe e Maria, Camerata Corale La Grangia LP, Torino 1989.
  11. Canti popolari Piemontesi, dal Piemonte all’Europa, vol II, Son Tre Re, Canti natalizi della tradizione popolare, Daniela Piazza Editore, Torino 2004.
  12. Italica: Bulletin of the American Association of Teachers of Italian, Volumi 27-29, George Banta Publishing Company, Menasha, Wisconsin 1950.
  13. Il Vangelo Arabo dell’Infanzia è un vangelo apocrifo pervenuto in arabo e siriaco e databile tra il V e il XIII secolo, con maggiore probabilità per l’VIII-IX secolo. Al pari degli altri vangeli dell’infanzia (Protovangelo di Giacomo e Vangelo dell’infanzia di Tommaso) e basandosi su essi, contiene racconti relativi all’infanzia di Gesù. All’inizio del testo si afferma che il Vangelo, chiamato Vangelo dell’infanzia, sia opera di Giuseppe detto Caiafa (versione greca del latinizzato Caifa), sommo sacerdote degli ebrei al tempo di Gesù (18-36), affermazione che faceva dunque datare il testo al I secolo; tale attribuzione è tuttavia considerata pseudoepigrafa dagli studiosi.
  14. Il Vangelo dello pseudo-Matteo, così chiamato per distinguerlo dall’omoepigrafo canonico Vangelo secondo Matteo, è uno dei vangeli apocrifi, scritto in latino e databile VIII-IX secolo. Viene chiamato anche Vangelo dell’infanzia di Matteo o con la dicitura medievale Libro sulla nascita della Beata Vergine e sull’infanzia del Salvatore, che ne descrive il contenuto. In alcuni manoscritti il testo si presenta come opera dell’evangelista Matteo, supponendo una datazione al I secolo. Tale attribuzione è però considerata dagli studiosi come pseudoepigrafica e dunque apocrifa. Il testo presenta una elaborata operazione pseudoepigrafica volta a legittimare tale paternità: il vangelo sarebbe stato scoperto, nell’originale aramaico, da Girolamo e da lui tradotto in latino dietro invito di Cromazio, vescovo di Aquileia (387-407), ed Eliodoro, vescovo di Altino.
  15. Canti popolari Piemontesi, dal Piemonte all’Europa, vol II, Son Tre Re, Canti natalizi della tradizione popolare. Daniela Piazza Editore, Torino 2004.
  16. Cantar Storie, Viaggio nel canto popolare, con cd Audio, vol. 2, a cura di Loris e Luca Bonavia, Grossi Editore, Ornavasso (VB) 2001.
  17. «La voce del popolo - In Più» (supplemento), anno 9/n. 77, 24 dicembre 2013, EditPola, Fiume.
Questo sito utilizza cookies propri e di altri siti. Se vuoi saperne di più . Continuando la navigazione ne autorizzi l'uso.