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Dagli archetti ai fraseggi dei cantori rinascimentali

di Walter Marzilli
dossier "Rinascimento. Cinquecento anni di successi", Choraliter 55, maggio 2018

Naturalmente non siamo in grado di sapere come avranno cantato i cantori del Rinascimento, quali fraseggi usassero né quali prassi esecutive applicassero. Questo fatto da un lato appare come una fortuna – ci sarebbe da rabbrividire ad ascoltarli, a giudicare da quanto si legge nelle testimonianze dell’epoca –, dall’altro ha dato il via a innumerevoli interpretazioni, ipotesi, idee, che sembrano avere diritto di esistere per il solo motivo che provengono da esseri eruditi e di grande esperienza come i musicisti. In realtà è ormai ben dimostrato come il nostro operare di musicisti sia strettamente collegato con le nostre esperienze personali, e che la strada che decidiamo di seguire riguardo la prassi antica purtroppo ci sembri l’unica possibile. Ma non è così.

Per cercare di fare chiarezza dobbiamo fare un passo indietro. Ci viene in aiuto una nota legge del mondo culturale che va sotto il nome di legge delle aree periferiche.
Devo la conoscenza di questa legge al professor Giacomo Baroffio tanti anni fa, quando era il mio insegnante di canto gregoriano. La legge dice che dal luogo in cui nasce una certa tradizione – nel nostro caso si tratta della prassi esecutiva e dei fraseggi dei cantori rinascimentali – essa si espande nelle aree limitrofe. In queste si conserva a lungo, mentre si perde nell’area nella quale ha avuto origine. Naturalmente sono scomparsi tutti i cantori dell’epoca, e quelli attuali hanno caratteristiche fisiche e fisiologiche completamente diverse. Queste differenze hanno inevitabilmente modificato il nostro modo di cantare: corde vocali più lunghe, gabbie toraciche più sviluppate, altezza media molto aumentata, conformazione fonica del coro completamente diversa, con i contralti scuri al posto dell’altus chiaro e acuto, i tenori acuti al posto dell’antico tenor baritonale e tutte le altre modifiche che ben conosciamo. Non ultime le consapevolezze perdute relative all’intonazione delle scale antiche. 

Cosa ci rimane, secondo la legge delle aree periferiche? Appunto l’area periferica, dove tuttora possiamo pensare che gli antichi fraseggi siano rimasti intatti o quasi: il quartetto di archi. Questa formazione strumentale, insieme ai cornetti presenti soprattutto in area spagnola, accompagnava frequentemente i cantori durante le esecuzioni nel Rinascimento. Naturalmente si sarà creata al tempo una simbiosi tra cantori e strumentisti: è impensabile che adottassero due prassi esecutive diverse. Mi spingo oltre, dicendo che la scelta del quartetto di archi per accompagnare, raddoppiare o sostituire i cantori, possa essere stata fatta proprio per le sue caratteristiche sonore, e che i fraseggi si saranno influenzati a vicenda. Quindi, se è vera la legge in questione, allora possiamo attingere dai fraseggi degli antichi archi per cercare di avvicinarci agli antichi fraseggi vocali.

Ma come erano gli archetti del Rinascimento, e soprattutto, quale suono potevano fare? Guardiamo qualche immagine per capire meglio. 

È evidente che archetti siffatti non potevano creare un suono forte, perché con la pressione si sarebbero facilmente piegati da un lato. Ma soprattutto avranno creato automaticamente un crescendo-decrescendo, cioè la classica messa di voce completa. E questo sia con arcata al tallone che alla punta, indifferentemente. Di conseguenza non erano adatti per produrre suoni costanti e stabili. Per ottenere questo tipo di suoni fermi dovremo aspettare che l’archetto si rovesci, e da convesso diventi concavo, seguendo il processo indicato nella figura seguente, tratta da Mauro Uberti, I fisiologi spiegano il passaggio dal linguaggio parlato al canto.
Anche l’archetto barocco del XVII secolo mostra ancora una forma inadatta a creare suoni fermi. A causa della sua forma asimmetrica, tirandolo al tallone avrebbe fatto un decrescendo, alla punta un crescendo, ma certamente mai avrebbe prodotto un suono stabile e costante.
La lunga durata in uso dell’archetto rinascimentale, con la sua forma primordiale di arco da caccia, già in uso nel XIV secolo, ci induce a pensare che gli antichi musici desiderassero proprio quel tipo di suono, morbido e articolato

Oltre a queste considerazioni dobbiamo aggiungere un’ulteriore riflessione: come suonano oggi gli strumentisti ad arco, seppure con archetti moderni, fatti per ottenere suoni tenuti e costanti? Come suonano le note lunghe? E quelle puntate? Legate e ferme, oppure articolate e libere? Naturalmente articolate e libere, creando spazi fra una nota e un’altra, lasciando un suono prima di produrne un altro, come se facessero circolare dell’aria tra le note. L’estremizzazione di questa prassi si ha nell’esecuzione delle note puntate nella musica barocca: il desiderio di muovere il suono portò addirittura alla creazione di una pausa in corrispondenza del punto
E questo desiderio di “muovere” il suono senza tenerlo fermo dovrebbe essere la bussola per orientarci nell’esecuzione della musica rinascimentale. Essa è scritta in senso orizzontale, e allora non ci sono solo accordi verticali da concatenare, che potrebbero indurre a un trattamento equo e generico tra loro. Si tratta invece di avere tra le mani una melodia viva, che serpeggia e si snoda tra le sezioni del coro e le attraversa continuamente. Si inerpica tra le note alte dei soprani e si appoggia comodamente tra le braccia dei bassi. 
Ma soprattutto ha una testa e una coda, un principio e una fine, un momento di luce e uno di ombra, un movimento vitale e un successivo momento di riposo. Un accento da mettere in evidenza e una debole sillaba atona da ombreggiare e proteggere. Una melodia mai ferma, proprio come i fraseggi degli archi, antichi e moderni. Legge delle aree periferiche. Grazie Giacomo…

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