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Accendere l'immaginazione
Il mondo musicale di Pietro Ferrario

di Rossana Paliaga
Dossier compositori, Choraliter 55, maggio 2018

Pietro Ferrario, volto noto nelle giurie di molti concorsi corali e ancora di più nome frequentissimo sui leggii di molti cori a livello internazionale con composizioni che sono ormai entrate nel repertorio corale globale, entra di diritto nella rosa dei compositori ai quali Choraliter dedica un dossier di approfondimento. Lo fa con il garbo che lo contraddistingue, l’approccio sensibile e apparentemente schivo, ma determinato e meticoloso. C’è disciplina e rispetto per il privilegio del comporre nel suo lavoro, nel modo di parlare del proprio articolato percorso di formazione musicale, dell’ampio consenso nei confronti della sua produzione.

Nel suo percorso artistico nasce prima il compositore o il direttore? Ha iniziato a comporre per coro in relazione alle esigenze di un gruppo specifico o lo “strumento-coro” è stato una scelta a monte?

In realtà, a monte di tutto nasce prima il pianista. Solo dopo il compimento medio iniziai ad affiancare anche lo studio della composizione. Quindi l’anno successivo, diplomando in pianoforte e fresco del compimento inferiore di composizione, mi proposero di dirigere nella mia città, Parabiago, la Corale Polifonica Santa Cecilia, mia prima palestra di coralità, dove rimasi per sette anni. Le prime composizioni corali erano inizialmente mirate a soddisfare le esigenze di questa formazione amatoriale legate al suo servizio liturgico. Presto però iniziai a cimentarmi con brani polifonici più complessi, sulla scia dell’enorme entusiasmo suscitato in me dalle prime edizioni della Rassegna corale internazionale Città di Legnano (ora denominata Fabbrica del Canto), che all’inizio degli anni ’90 mi aprì occhi, mente e cuore su un nuovo fantastico mondo. 

Tra i suoi insegnanti troviamo nomi di riferimento come Bettinelli, Molfino, Corghi, Morricone. Cosa ricorda in particolare di ognuno di loro e dei loro insegnamenti?

Se dovessi trovare un comune denominatore tra questi grandi maestri, parlerei innanzitutto del rispetto assoluto della personalità dell’allievo, delle sue inclinazioni stilistiche e dei suoi interessi, e già questo lo considero un grande insegnamento!In particolare, il maestro Luigi Molfino fu la persona che scoprì la mia predisposizione alla composizione e ne guidò i primi passi su questa difficile strada, gettandone le basi indispensabili, oltre che fornendomi costantemente e con generosità tutto il suo sincero ed entusiasta appoggio e incoraggiamento: per tutto ciò gli sarò eternamente grato. Era una persona di squisita umanità, di una gentilezza, saggezza e generosità innate, un autentico maestro di vita. Prima di approdare a lui mi ero fatto un’idea della musica contemporanea esclusivamente in termini di avanguardia, sperimentalismi e linguaggi estremi. Quale sorpresa fu per me scoprire la ricchezza espressiva, la sapienza compositiva con il massimo dell’economia di mezzi, l’eleganza armonica, il senso della forma, l’assorta atmosfera, il celeste candore, la luminosa bellezza e freschezza di alcune sue pagine corali o organistiche! Il suo esempio fu per me determinante nel farmi coraggio e conseguentemente cimentarmi nei miei primi lavori corali, successivamente anche organistici, innescando così quel processo della ricerca di sé attraverso la composizione.
Ma ciò che innanzitutto mi preme testimoniare in questa sede è la sua profonda conoscenza, davvero come pochi altri, dell’armonia, del contrappunto e della fuga, l’estrema sicurezza nella correzione degli elaborati dell’allievo e nello scovarne errori e punti deboli, l’abilità nel cercare sempre delle soluzioni il più possibile musicali, nonostante i limiti dell’armonia e del contrappunto scolastici, in questo del tutto simile all’altro mio grande maestro che mi portò al diploma di composizione, Bruno Bettinelli. Uguale per me era la meraviglia e il privilegio di sentire da entrambi, pur nelle loro profonde differenze di linguaggio, qualche nuovo brano fresco di penna accennato al pianoforte. Comune era il loro amore per l’artigianato compositivo e l’allergia verso il dilettantismo. Quanto a Bettinelli, particolarmente prolifico dal punto di vista corale nell’ultimo suo decennio di vita, non dimenticherò mai il mio sbigottimento nel sentirgli dire, all’indomani del mio diploma: «Bene, caro Pietro, adesso siamo colleghi!», come se fosse paragonabile un gigante del Novecento quale lui era al timido giovanotto esordiente che gli stava di fronte! Negli anni successivi ho continuato ad andare da lui per fargli ascoltare le mie nuove composizioni, traendone sempre preziosi consigli, apprezzamenti e incoraggiamenti. Affascinanti i suoi racconti sull’ambiente culturale milanese degli anni ’30 e ’40, quelli sulle prime riunioni dei futuristi, la conoscenza con Marinetti, l’aver sentito dal vivo e conosciuto innumerevoli personaggi che ora fanno la storia della musica del ’900.
Verso il maestro Azio Corghi (a sua volta ex-allievo del maestro Bettinelli) ho sempre provato autentica ammirazione per il suo personale linguaggio che riesce a coniugare alcuni arditi aspetti dell’avanguardia con un sapiente recupero e rilettura della tradizione, grazie anche a una tecnica (sia compositiva che di orchestrazione) veramente sbalorditiva. Rimanendo in ambito corale, ricordo di essere rimasto a bocca aperta quando ascoltai per la prima volta i suoi cori dall’opera
Blimunda, o il balletto per ottetto vocale e oboe Mazapegul, con le loro particolarissime e irreali atmosfere oniriche, diverse da tutto quanto avessi mai ascoltato sino a quel momento, e così efficacemente rese da memorabili interpretazioni degli Swingle Singers. Sono affascinato dal suo spessore intellettuale e dalla sua saggezza, e ancora oggi gioisco come un bambino quando ricevo i suoi sinceri ed entusiastici apprezzamenti per qualche mia nuova composizione (di solito poca cosa, se paragonate ai suoi grandi affreschi): mi danno la forza di andare avanti. La mia persona e Calycanthus ebbero il grandissimo onore di vedersi dedicati i suoi Cori di Ecuba, brani a cappella per la tragedia lirica Elena, pubblicati da Ricordi e da noi tenuti a battesimo nel 2013 presso l’Accademia Internazionale di Musica Perosi di Biella.
Quanto a Ennio Morricone, lo conobbi nel luglio 1992 all’Accademia Chigiana di Siena, frequentando il suo corso di perfezionamento in musica per film. Ricordo l’accanito lavoro che condussi in una stanza d’albergo senza aria condizionata e senza pianoforte per produrre in pochi giorni una partitura per doppio quintetto di fiati e archi (organico da lui fissato) che fungesse da commento a una sequenza cinematografica di alcuni minuti proiettata durante il corso. Alla consegna della mia partitura e dopo averla visionata, ebbe parole di apprezzamento per la condotta delle parti e la morbidezza delle entrate degli strumenti: non poteva esserci premio migliore alla fatica che mi costò quella prova. Mi sia concesso in questa sede ricordare anche un’altra importante persona che mi formò da zero, quando, bambino di dieci anni con la passione per Bach e per l’organo, iniziai a studiare solfeggio e pianoforte: la professoressa Mariateresa Nebuloni, che mi guidò dai primi passi fino al compimento medio, e con cui formai un duo pianistico negli anni dopo il diploma. Furono molto importanti anche i tre anni di studio di armonia complementare svolti sotto la sapiente guida del maestro Gino Jelo, col quale produssi una valanga di bassi e modulazioni, che considero come la prima e più importante pietra posta alla base di tutto ciò che avrei in seguito fatto come compositore. 

Da organista ha sviluppato certamente un rapporto particolare con la musica sacra. Quale ruolo riveste il testo nel suo processo creativo? 

Premesso che il mio rapporto con la musica sacra non ha necessariamente una diretta consequenzialità dal fatto di essere organista, certamente il testo, sacro o profano che sia, ha per me (ma penso per chiunque) grande importanza nel processo creativo. Non essendomi sinora quasi mai capitato di adattare un testo a una musica preesistente, è il testo stesso da cui parto, la sua sonorità, il suo significato semantico o simbolico, che mi forniscono l’ispirazione per l’aspetto musicale, e in un certo senso già “disegnano” la pagina sul pentagramma, non necessariamente sempre convogliandola in una precisa forma ereditata dalla tradizione. 

La visione dell’organista nella simbiosi con le voci dei coristi (ma anche nella sua abitudine a sonorità imponenti) influenza tuttavia il suo modo di scrivere per coro?

In realtà non credo più di tanto, in quanto i “polmoni infiniti” dell’organo presi come modello sarebbero un po’ fuorvianti, rispetto alle ovvie esigenze di respirazione dei coristi, a meno di voler simulare una situazione da legato organistico continuo per mezzo della respirazione alternata, ma sarebbe una situazione particolare. Inoltre, per scrivere efficaci passaggi corali con sonorità imponente, più che essere organisti, è utile conoscere a fondo la resa delle voci nei loro vari registri (a proposito di terminologia organistica…) e nelle loro reciproche combinazioni. 

Alcune delle sue composizioni come Jubilate Deo o Benedetto sia ’l giorno hanno avuto un’ampia diffusione internazionale. Cosa le ha rese così popolari e quali sono state le esecuzioni che più l’hanno colpita per questioni “geografiche” o di esecuzione?

Neanche per il compositore è sempre facile capire perché determinati pezzi abbiano più successo di altri. Nei due casi in questione, sicuramente un motivo non secondario è dato dal fatto che entrambi i brani siano vincitori di due concorsi di composizione, rispettivamente il primo Trofeo Internazionale di Composizione Seghizzi di Gorizia 2004 e il primo Concorso Nazionale di Composizione Corale Canta Petrarca di Arezzo 2016. La concreta possibilità data da tali concorsi di far eseguire i brani primi classificati dai cori partecipanti ha sicuramente contribuito a farli circolare. La riprova è che un pezzo come Benedetto sia ’l giorno, prima dell’affermazione in concorso non catturò particolare attenzione, nonostante ne promuovessi costantemente la sua diffusione. Quanto a esecuzioni da me particolarmente apprezzate, potrei citare quella dei Mt. San Antonio College Chamber Singers diretti da Bruce Rogers all’ACDA Convention di Santa Barbara (California) del 2014 per Jubilate Deo, mentre per Benedetto sia ’l giorno, a parte la splendida esecuzione “virtuale” per sovraincisione a opera del cantante americano Matthew Curtis ascoltabile su Youtube, citerei almeno quella dell’Uranienborg Vokalensemble all’ultimo Polifonico Internazionale di Arezzo: il valore simbolico della città natale del Petrarca, unito a uno dei suoi più famosi sonetti rivestito delle mie note, e il magico suono di questo coro, hanno prodotto un’atmosfera unica, difficilmente riproducibile altrove. Prima di partecipare al concorso di Arezzo, lo stesso gruppo norvegese ha tenuto a battesimo il mio pezzo lo scorso giugno in un concerto a Oslo. Recentemente è avvenuta la prima esecuzione americana a Pasadena, e il prossimo luglio risuonerà anche ai World Choir Games in Sud Africa.

Cosa rende un brano potenzialmente “internazionale”?

Se ci fosse una ricetta bell’e pronta, penso che chiunque tenterebbe di riprodurla in modo seriale. In realtà sono tali e tanti i fattori che entrano in gioco, che una ricetta vera e propria a mio giudizio non esiste. Fatto salvo per un felice connubio musica-testo, che dovrebbe costituire un prerequisito, può avere successo tanto un brano veloce e ritmico quanto uno lento e ascetico, un difficile pezzo dall’armonia complessa quanto una bella melodia supportata da pochi e semplici accordi, una composizione dalle sonorità taglienti quanto una morbida e suadente, un tipo di scrittura aleatorio o d’avanguardia piuttosto che uno stile più tradizionale. Ci sono poi le infinite combinazioni e gradazioni tra queste caratteristiche. Ma più importante di tutti, dovrebbe essere presente una comunicatività in grado di toccarci nel profondo o di accendere la nostra immaginazione: e quando si verifica quest’alchimia, è pura magia! 

Armonie luminose, trasparenza della struttura, riferimenti all’antico, ispirazione sacra caratterizzano la sua produzione corale più diffusa. Cosa manca a una definizione più completa?

Le caratteristiche che hai citato sono sicuramente presenti in vari miei brani corali, pur con delle differenze notevoli qua e là, soprattutto per quanto riguarda alcune “inquietudini” armoniche che, soprattutto nella prima fase della mia produzione, conducevano a dei percorsi marcatamente modulanti, un po’ alla Max Reger, da un lato imprevedibili e sorprendenti, dall’altro non sempre di agevole realizzazione tecnica, pur nella stringente logica di ciascuna linea. Certamente, per un ritratto più veritiero e completo del mio essere compositore, a parte i brani corali profani e le varie elaborazioni di canti popolari o pop-song, sarebbe necessario prendere in considerazione anche le composizioni strumentali, e in particolare quelle rivolte ai miei due amati strumenti, il pianoforte e l’organo, produzione che nel complesso considero altrettanto importante quanto quella corale: si scoprirà allora un variegato e piuttosto ardito mondo sonoro, risultato di un crogiolo di influenze che vanno dagli impressionisti francesi, a Prokofiev e la scuola russa, a Casella, Chopin, Godowski, ai post-franckiani, a Messiaen, con una curiosa “diramazione” che porta dritto al jazz di Keith Jarrett e Nikolaj Kapustin. 

Un compositore che dirige è sempre un vantaggio per il coro che può avere a disposizione sia brani nuovi che arrangiamenti su misura. Come definirebbe in questo senso l’esperienza con il Calycanthus?

Certamente è spesso capitato che concepissi nuovi brani pensando alle voci del mio gruppo, col vantaggio di poter fare una immediata verifica sul campo di quanto scritto. Da questo punto di vista è stato ed è, penso, un arricchimento reciproco: da parte mia ho potuto affinare la mia scrittura corale, mentre loro, anche grazie alle mie composizioni, hanno potuto progredire tecnicamente e musicalmente. Per il resto, potrà sembrare strano, ma in realtà ho sempre cercato di limitare il numero di miei brani da far studiare a Calycanthus, nonostante la maggioranza dei miei coristi apprezzi ciò che scrivo, un po’ per oggettive difficoltà di programmazione, un po’ per allontanare alla radice la tentazione di trasformarlo in una realtà monotematica. Amiamo invece confrontarci con più tipi di scrittura corale, con brani di diversi compositori ed epoche, sebbene il contemporaneo abbia per noi un interesse particolare, come appare evidente nei nostri programmi concertistici, o in un CD come Aurora, inciso nel 2007 per Bottega Discantica. Inoltre, un compositore che dirige Calycanthus e che scrive per esso non necessariamente è sempre coinciso con la mia persona: conserviamo tra i nostri ricordi più belli uno stage con Vytautas Miškinis, dove, oltre a dirigerci in un intero concerto con sue musiche, ci dedicò un pezzo scritto appositamente per noi, Dum medium silentium, da noi tenuto a battesimo, e ora inciso da importanti cori ed eseguito in vari concorsi un po’ ovunque. 

Quando dirige i suoi brani possiamo probabilmente ascoltarne l’intenzione precisa, ma ogni composizione che inizia il proprio viaggio di leggio in leggio assume forme e intenzioni diverse. Ha mai scoperto in esecuzioni altrui soluzioni che hanno superato la sua immagine del brano?

Sì, assolutamente: varie volte mi è capitato di assistere a esecuzioni che, o nell’approccio generale, o in qualche particolare dettaglio, mi sorprendessero positivamente, proprio per la capacità di andare oltre a ciò che avevo inizialmente immaginato. È una duplice, curiosa sensazione: da un lato riconosci la tua impronta in ciò che stai ascoltando, dall’altra c’è il filtro di un’altra personalità che inevitabilmente dà una diversa lettura di ciò che hai creato. A tal proposito, proprio per lasciare dei legittimi margini di libertà interpretativa, parlando per esperienza personale, la linea di demarcazione tra una partitura eccessivamente sovrabbondante di prescrizioni esecutive a un’altra troppo avara di indicazioni, a volte può essere molto sottile: sempre ci si interroga su cosa sia meglio scrivere e cosa no. 

Collabora spesso a concorsi corali in qualità di giurato. Quali sono i suoi criteri imprescindibili ovvero che tipo di giurato è?

Sapendo per esperienza diretta quanto faticoso lavoro ci sia dietro alla preparazione di un concorso, sento ogni volta una gravosa responsabilità nel dover giudicare nel modo più equo possibile le varie esecuzioni. I criteri alla fine sono quelli più o meno universalmente accettati: parlerei quindi di fusione, intonazione (in questo il mio orecchio assoluto m’è molto d’aiuto), bellezza del suono, gamma dinamica, comunicatività, differenziazione stilistica, livello di difficoltà dei brani, interesse artistico del programma. Se, oltre a tutto ciò, vengono trasmesse durante l’ascolto anche emozioni profonde, beh… allora siamo proprio al top! 

Nelle molte attività della sua carriera ne appare anche una che incuriosisce, ovvero la collaborazione con l’Archivio Storico di Casa Ricordi. Ce ne vuole parlare?

Nel 1998 fui chiamato per collaborare a tempo determinato con la redazione di Casa Ricordi. Allora, gli uffici, il magazzino e l’Archivio Storico si trovavano ancora nella periferia milanese, in via Salomone, prima del trasloco presso la Biblioteca Nazionale Braidense. La tipologia dei lavori svolti in quel periodo fu quanto mai varia, dalla semplice correzione di bozze musicali, alla riduzione pianistica di complesse partiture orchestrali di musica contemporanea, al lavoro su microfilm di antichi spartiti finalizzato alla stesura di edizioni critiche, come quello svolto con Emilia Fadini per il completamento degli ultimi volumi delle Sonate di Scarlatti (peccato che questo mio lavoro venne rocambolescamente perso durante il trasloco dell’editore, e dovettero rifare tutto!), oltre a vari lavori di catalogazione, come ad esempio quella degli splendidi bozzetti e figurini di Giuseppe Palanti, pensati per le opere liriche che fanno la storia del melodramma, il tutto affidato alla competenza e amorevoli cure della responsabile dell’Archivio Storico, la dottoressa Maria Pia Ferraris, splendida persona. Puoi immaginare l’emozione del giorno in cui fui autorizzato a scendere nel famoso caveau sotterraneo contenente le partiture autografe originali di quasi tutto Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti, ma anche ad esempio del “quadernetto” autografo coi 24 Capricci per violino di Paganini. Un altro giorno fu portata su dal caveau la parafrasi di Liszt sulla Lucia di Lammermoor, e per me, che sono pianista, capitarmi per mano un autografo originale di Liszt e avere il privilegio di poterlo visionare pagina per pagina fu una forte emozione.

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