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Gli extra poteri del corpo cantante 
Anci Hjulström e il coro in scena

di Rossana Paliaga
dossier "Cori in scena", Choraliter 59, settembre 2019

L’ingresso di un coro sul palco ci dice moltissimo del suo modo di cantare ancor prima che i coristi intonino il primo accordo. Il coro parla attraverso la propria fisicità, i movimenti (anche senza coreografie, basta un semplice spostamento dall'ingresso in scena al primo gradino dei praticabili), l’atteggiamento sul palco. Per questo motivo ha senso parlare di “corpo del coro”: si tratta infatti di un organismo che, a seconda della propria compattezza o scomposta frammentazione, canta meglio o peggio già “al primo sguardo”. L’intelligenza del corpo, il suo linguaggio, è un elemento spesso trascurato da chi canta in coro, ma che risulta estremamente utile anche alla voce, all'espressione, alla capacità di essere efficaci in scena, di comunicare con il pubblico, ma anche e soprattutto di rafforzare l’intesa all'interno del gruppo.

Il concetto di Scenic choir (coro scenico) promosso dalla poliedrica artista svedese Anci Hjulström unisce capacità di stare sul palco, consapevolezza corporea, obiettivi chiari per la performance corale. Sentirsi liberi in scena, consapevoli della propria specifica personalità, ma in connessione con gli altri, è un modo per amplificare al massimo la forza comunicativa del messaggio musicale proposto dal proprio coro. Premiata nel 2017 per aver ispirato la coralità svedese a sviluppare un concetto concertistico creativo e innovativo per raggiungere uditori nuovi, la Hjulström, diplomata all’Accademia di musica e teatro di Göteborg, porta avanti un’esperienza maturata nel suo percorso artistico che unisce esperienze di cantante, attrice, regista, insegnante di comunicazione musicale. Ha collaborato nella creazione di performance scenico-musicali con orchestre (anche la Royal Philharmonic Orchestra) e cori, tra i quali il suo progetto più rappresentativo è senza dubbio lo Scenic Choir Amanda, gruppo pioniere nel suo genere.

Come possiamo definire il concetto di "coro scenico"?

È la consapevolezza di stare tutti insieme su un palco con la volontà di comunicare qualcosa al pubblico, la necessità di mettere da parte i comportamenti privati e trasformarsi in individuo scenico. Questo non significa non conservare quello che si è come persone, ma evitare di portare il privato sul palco. In questo modo è possibile aprire i propri sensi o, come amo dire, aprire “extra orecchie e extra occhi” per prestare attenzione agli altri in quanto “corpo del coro”. Quando creiamo questa consapevolezza della presenza collettiva e rispondiamo insieme a molte domande, come ad esempio “cosa vogliamo dire al pubblico con i nostri brani, come lo faremo”, potremo percepire questa comunanza nelle voci e anche piccoli movimenti diventeranno qualcosa di magico.

Questo significa che abitualmente nei nostri cori utilizziamo soltanto una minima percentuale del potenziale offerto dal "corpo del coro", che raramente attingiamo alle nostre "extra riserve"?

Ci sono tanti sensi da mettere in gioco. Quando un docente ci dice di ascoltare, come fa sempre anche il nostro direttore, in realtà non pensiamo che questa indicazione possa riguardare tutto il corpo nella sua interezza. Nelle mie lezioni prima giochiamo un po’, creiamo un’atmosfera piacevole, poi segue il riscaldamento, che anche attraverso la danza prova a instaurare lo stato d'animo adatto. Non pensiamo mai al nostro corpo, siamo così stressati da dimenticarcene. Quando utilizzo la definizione di "extra orecchie" le persone iniziano veramente ad ascoltare. E gli “extra occhi” permettono di non fissare soltanto una cosa, ma di vedere l’intera stanza e ciascuno dei presenti. Proviamo a immaginare di avere occhi ovunque, di aprire i sensi, la loro volontà. Il plesso solare inizia a irradiare energia, come un faro la propria luce. La parola chiave è energia: gli occhi brillano quando si sale sul palco. Puntiamo sguardi sorridenti sugli altri, ci mettiamo in connessione. In fondo è un desiderio che tutti abbiamo. Iniziamo improvvisamente a muoverci insieme come corpo corale, senza bisogno di dare indicazioni. Tutti ne rimangono impressionati, eppure è qualcosa che sappiamo fare, ma l’abbiamo dimenticato. Abbiamo bisogno di essere più consapevoli, di vedere e ascoltare veramente. A questo punto si inizia a fare musica in un modo totalmente diverso.

Quali sono i risultati più importanti nella creazione di un corpo corale ovvero nel percepire una stretta relazione con gli altri coristi sul palco?

Evitare di avere paura in scena, perché un gruppo unito sa che qualsiasi cosa accada, ci aiuteremo l’un l’altro, senza rendere evidenti al pubblico eventuali errori. Per questo tutto ciò che faremo insieme sarà la cosa giusta. I coristi devono rilassarsi e iniziare a fare musica anziché preoccuparsi di eventuali note sbagliate. Purtroppo è facile farsi prendere dalla partitura e investire l’intera energia a disposizione nell'intonare correttamente le note problematiche. Ma facendo questo, inconsciamente tagliamo i ponti con i coristi intorno a noi, ottenendo soltanto un gruppo di cantori isolati che provano a cantare la musica “giusta”. Ma non insieme.

Il corpo corale può fare a meno di un direttore in scena?

Non si tratta di avere o meno un direttore. In questo modo è certamente più facile lavorare senza direttore in scena, ma credo sia bellissimo per un direttore poter lavorare con un coro che abbia questo senso di unione. Si può ottenere nuovi livelli di qualità esecutiva perché i coristi sono già di base molto presenti, in stretta connessione con gli altri. La presenza ha un suono, che deriva dal fatto che siamo riusciti a uscire dal controllo totale del cervello e abbiamo risvegliato l’intelligenza del nostro corpo e dei sensi. Non dico mai ai coristi cosa devono fare, ma li accompagno verso la soluzione attraverso la sperimentazione dei miei esercizi. Facciamo un esercizio, poi ne parliamo per avere la consapevolezza di quello che stiamo facendo. Quando usciamo dalla nostra sfera privata e ci apriamo al collettivo, cantare diventa sempre più facile perché non ci sentiamo più soli. Ognuno di noi è responsabile del risultato finale, ma ognuno aiuta gli altri.

La connessione con gli altri tuttavia funziona attraverso il privato, ovvero attraverso i nostri sentimenti di maggiore o minore empatia con i singoli coristi oppure si attiva a livello più istintivo?

È un fatto istintivo, anche nella fiducia nei confronti dell’altro. Si tratta di ricordare cose che sappiamo e che riguardano i nostri sensi. Quando si sale sul palco il privato resta fuori.

Pensa che in generale la richiesta del pubblico imponga ai cori di essere performativi, ovvero di fare qualcosa in più oltre a cantare bene?

Penso che tutti desideriamo essere toccati dalla musica e dalle voci dei coristi, ma che non vogliamo guardare cori che si mettono in mostra e si sforzano in ogni modo per fare effetto. Un concerto non prevede pause pubblicitarie. Siamo lì per stare bene e abbiamo bisogno della musica per affrontare la vita nel migliore dei modi. Non ha senso cercare di dare una buona impressione, se tutte le forze che impieghiamo non derivano dal nostro sentire più autentico. Non dobbiamo chiedere al pubblico di amarci. Tutto deve partire soltanto dall'arte e dall'energia positiva. Ricordiamoci che riceveremo sempre quello che trasmettiamo.

Come è nato il suo concetto di consapevolezza corporea del corista?

Sono corista da sempre. Prima a scuola, poi alla scuola di musica, inoltre sono stata una dei cofondatori dell’Amanda Scenic Choir. Ho studiato arte scenica legata al canto all’università e ho due differenti percorsi di studio teatrale, uno nel teatro fisico, l’altro più tradizionale. Derivo il mio concetto principalmente dal mondo del teatro. Come attore devi porti tutte queste domande per poter creare un personaggio. Io le utilizzo in musica per renderla più vivace. Non si tratta di recitare in questo caso, ma di immaginare sentimenti reali. Nel teatro di prosa e in musica raccontiamo storie e cerchiamo il modo per farle vivere con le giuste emozioni. Non siamo veramente quel personaggio, quella situazione, quel sentimento, ma facciamo in modo di renderli reali. Se dico di immaginare che la persona che ami stia partendo e che sulla banchina della stazione tu debba convincerla a restare, ognuno nel coro comprenderà istintivamente di quale tipo di emozione il brano abbia bisogno. Immaginate che ogni persona del coro riesca a essere veramente coinvolta da questa situazione e lo voglia trasmettere al pubblico! Dobbiamo aiutare la musica a essere viva, non solo nella tecnica. Sappiamo veramente di cosa parlino i brani che stiamo cantando? Quando sapremo raccontare l’emozione di ogni storia, la nostra esecuzione salirà a un livello superiore.

Che tipo di esperienza ha sviluppato con il gruppo Amanda?

È un amore che dura da una vita… con tutti gli alti e bassi di ogni tipo di relazione umana. Sono 35 anni di collaborazione, ovviamente con cambiamenti di organico. Amanda è un mix di persone con diverse competenze alle quali era possibile attingere. Il nostro direttore aveva visto riuniti tanti specialisti di diverse discipline, da permetterci di avere tutti un ruolo guida, anche se il vero leader collettivo era ovviamente lui. Ognuno di noi ha insegnato moltissimo agli altri: diversi generi musicali, diversi modi di danzare, muoversi, un incontro di culture del mondo che abbiamo ricreato in modo originale, ma fondandolo sulle conoscenze di ciascuno. Per entrare nel gruppo occorre certamente trovarsi a proprio agio nel nostro peculiare modo di lavorare, essere fortemente parte del processo creativo.

Il coro scenico può essere definito un modo per raggiungere un pubblico nuovo? Una specie di “audience development”?

È un modo per prendersi cura ed essere consapevoli del pubblico, per farli sentire benvenuti e per comunicare meglio. Tutti i cori che ho diretto lo hanno provato fin dalla prima esperienza di “coro scenico”: il pubblico era commosso, coinvolto. Quando i cantori lasciano da parte lo stress mentale e iniziano a credere nel coro in un modo nuovo, possono cantare meglio, muoversi con maggiore facilità, e soprattutto il suono si trasforma nettamente. Voglio che i coristi si sentano a proprio agio sul palco, per potersi concentrare sul motivo per il quale stanno cantando un brano, sulla storia che stanno raccontando e su come comunicarlo. È importante anche avere consapevolezza della drammaturgia musicale della performance concertistica: come iniziamo il concerto e come lo terminiamo, con quale sentimento desideriamo che gli spettatori ritornino a casa, come utilizziamo lo spazio scenico. Un evento ben costruito e condotto potrebbe non rendere necessario addirittura consegnare agli spettatori il programma di sala prima del concerto, ma alla fine. In questo modo otteniamo un pubblico aperto all’hic et nunc, non il pubblico che controlla lo svolgimento del programma. Quando abbiamo il programma in mano, non possiamo fare a meno di guardarci dentro. A volte sarebbe meglio non saperlo e concentrarsi su quanto sta accadendo nella sala da concerto.

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