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Oltre il minimalismo?
Uno sguardo analitico su alcune composizioni di Gianmartino Durighello

di Alessandro Kirschner
Dossier Compositore, Choraliter 45, settembre-dicembre 2014

Ricordo bene la prima volta che ho ascoltato una composizione di Gianmartino Durighello: mi trovavo a Vittorio Veneto e avevo appena partecipato al concorso corale in veste di corista del coro del conservatorio Venezze di cui ero studente. Si trattava del Gaudens gaudebo, eseguito magistralmente dal coro Anthem di Monza. Conservo ancora la sensazione di stupore e di coinvolgimento che avevo vissuto: un vortice di crescente entusiasmo e la scoperta che era possibile fare una musica “nuova” a partire da elementi molto semplici. La conoscenza diretta di Gianmartino, avvenuta qualche anno dopo, mi ha permesso di intuire quanto ogni sua composizione si potesse considerare come una sorta di icona rivelatrice di un mondo di suoni che trasudano fede e umanità, andando ben oltre alcuni principi formali comunemente presenti in compositori a lui contemporanei.

Volendo focalizzare l’attenzione su alcune sue composizioni corali, la scelta è caduta su tre lavori che possono essere considerati rappresentativi della sua produzione sacra: un frammento da una messa (il Kyrie della Messa in onore della Madonna di Loreto), un mottetto (Veni, electa mea dal Trittico Ungarico) e una sezione da una delle cantate (Eschaton, ultima parte della Cantata Sacrificium Laudis).
Nel sito personale del compositore [1] è possibile reperire gli ascolti dei brani in oggetto e la partitura completa della cantata. La Messa in onore della Madonna di Loreto è invece edita dalle Edizioni Ente Rassegne Musicali “N. S. di Loreto” mentre il Trittico ungarico è edito dalle Edizioni ASAC Veneto nell’antologia Compositori Veneti 2 e dalle Edizioni Suvini Zerboni.
La Messa in onore della Madonna di Loreto, scritta nel 1992, è la composizione con cui Durighello si è fatto conoscere sulla scena internazionale: premiata nel Concorso Internazionale dell’Ente Rassegne Musicali “N. S. di Loreto” ha avuto il merito di essere eseguita da compagini corali di alto livello che ne hanno potuto mettere in risalto la bellezza e gli aspetti innovativi in essa contenuti. Tutte le parti dell’ordinarium sono state messe in musica; sarà sufficiente concentrarsi sulla sola analisi del Kyrie (tra l’altro ripreso quasi integralmente nell’Agnus Dei finale) per rendersi conto dell’originalissimo modo di utilizzare il coro – come naturale estensione di una linea melodica – che caratterizza l’intera composizione. Una melodia dal chiaro sapore gregoriano si sviluppa infatti passando dalla voce più grave a quella più acuta in un ambitus di dodicesima, creando inoltre effetti di riverberazione naturale mediante l’utilizzo di note tenute man mano che lo sviluppo procede verso il registro acuto. La linea melodica stessa è fortemente tematica in quanto sono riconoscibili delle strutture intervallari che si ripetono (cfr. elementi a, b, c dell’esempio 1) e moduli scalari semplificati (utilizzo della scala pentatonica per la prima parte della frase, aggiungendo il semitono centrale solo dopo aver raggiunto il vertice melodico). È possibile inoltre notare il chiasma dato dal procedere orizzontale dell’elemento a e la verticalità dell’elemento b.

Nell’affidare questa linea melodica al coro, si producono effetti assai suggestivi: dopo l’attacco dei bassi le altre sezioni vanno a sovrapporsi garantendo il procedere melodico e aumentando via via la dinamica complessiva fino ad arrivare al forte in corrispondenza della nota più acuta. La semifrase di risposta, affidata in diminuendo alle sole voci femminili, riconduce ai suoni di partenza creando l’illusione di un modo dorico circoscritto dai suoni la (tenor) e re (finalis).

Dal punto di vista esecutivo la difficoltà maggiore consiste proprio nell’uniformità vocale che tutte le sezioni dovranno avere per rendere l’idea di questo flusso melodico che scorre tra una voce e l’altra. Il compositore stesso precisa che ogni attacco di sezione dovrà essere su un “crescendo dal niente” proprio per assicurare la massima continuità dal punto di vista dinamico e timbrico nel procedere melodico. Altro aspetto da curare particolarmente sarà quello dell’intonazione: saranno proprio le note pedale di tutte le sezioni (a distanza di quinta nel tenore e ottava nel contralto) a rinforzare gli armonici che determinano l’effetto di riverberazione che caratterizza l’intera composizione.
Il brano prosegue ripetendo l’incipit del Kyrie ma dopo l’entrata del contralto, con un effetto di pedale superiore all’ottava, il soprano espone il tema del Christe. Il materiale melodico è del tutto diverso (una lunga nota tenuta che cede alla seconda inferiore per poi muoversi in un gioco di terze minori e maggiori collegate da un semitono discendente) e questo contrasto dà spunto a un trattamento opposto rispetto all’episodio precedente. Non più una “melodia estesa” ma un processo imitativo in forma di stretto di fuga. L’intento sembra tuttavia essere non tanto quello contrappuntistico, quanto un suggestivo effetto di eco, viste le partenze così ravvicinate. Le durate irregolari degli interventi creano anche interessanti sovrapposizioni tematiche, quasi a ricordare, per pochi istanti, le tecniche di defasaggio di Steve Reich, padre del minimalismo. Lo spostamento modale verso un modo dorico di mi avviene in maniera del tutto spontanea, viceversa l’inserimento del fa bequadro per continuare il “gioco delle terze” nella coda del Christe crea un destabilizzante effetto di falsa relazione proprio al vertice dinamico del pezzo. L’episodio termina con gli stessi suoni pedale (a distanza di quinta e ottava) con cui era terminato il Kyrie.

Il Kyrie finale ripropone la situazione iniziale se non per un aggravamento dei primi due suoni in maniera tale da distanziare maggiormente il naturale succedere delle entrate e di conseguenza del procedere melodico complessivo. L’entrata del soprano suggella il pezzo ripercorrendo melodicamente la coda del Christe con piccole differenze fino a stabilizzarsi sulla nota re che finalmente risuona come finalis del modo dorico. Inaspettatamente, sull’ultimo accordo, l’apertura di seconda delle voci estreme provoca una situazione di tre quinte sovrapposte: un’evocazione di suono neutro ma armonicamente risonante come quello delle corde a vuoto del violino.

Il mottetto Veni, electa mea. Erzsébet è stato scritto nel 1995, pochi anni dopo la Messa di Loreto, su commissione dell’Università Cattolica di Piliscaba (Ungheria). Assieme ai mottetti Matyas, Beatus vir e Istvan, Lex dei ejus va a formare il Trittico ungarico, una silloge di brani che si presenta come parafrasi dei relativi temi gregoriani.
Probabilmente è grazie a queste composizioni che iniziò a farsi strada l’idea di una musica “minimalista”: il materiale tematico viene più volte ripetuto pur inserendo sempre delle varianti melodiche o armoniche.2 In realtà parlare di minimalismo in composizioni del genere potrebbe risultare alquanto riduttivo; naturalmente sono riscontrabili alcuni atteggiamenti riconducibili a questa corrente ma è più evidente un’eredità storica con ben altre radici.
In particolare Veni electa mea è costruito su una linea melodica di 16 battute ripetuta 4 volte, in cui a ogni ripetizione viene sovrapposta una nuova voce. Dopo una prima lettura il riferimento si sposta velocemente di sette, otto secoli indietro rispetto a Philipp Glass, fino ad arrivare alle prime forme polifoniche dell’Ars antiqua. Molti sono gli elementi che propendono per questa interpretazione: la ricerca di consonanze di quinta e quarta nelle cadenze, i movimenti per terze, un procedere punctum contra punctum tra le due voci acute, la libertà contrappuntistica delle voci gravi rispetto alle acute… Tutto questo fa avvicinare la composizione a un Discantus isoritmico per le voci femminili e a un Organum melismatico se si considerano anche le voci maschili.

Andando a leggere con attenzione la partitura si noterà tuttavia come le sei sezioni di cui si compone il mottetto non sono così rigide come la tabella potrebbe far immaginare: le varie entrate sono preparate da alcuni movimenti melodici che poi diventano tematici (ad esempio il tenore entra alla b. 31 e il basso a b. 48).Una struttura siffatta rende l’ascolto del brano estremamente gratificante: dapprima viene esposto il tema, poi su questo viene sentito un nuovo tema (il discanto) e il precedente prende funzione di basso armonico. L’entrata del tenore trasforma le armonie appena ascoltate e l’interesse aumenta ulteriormente con i cambiamenti armonici evocati dal basso. La memoria dell’ascoltatore è continuamente stimolata con l’aggiunta successiva di nuove linee melodiche, e l’ascolto è appagante per ritorno di elementi già noti.
Dopo l’esposizione di tutte le voci, due battute recanti i primi due versetti del Salmo 109 (Dixit Dominus), separano la ripetizione dell’ultimo episodio contrappuntistico. La salmodia utilizza il primo tono come struttura melodica e all’intonazione dei soli tenori rispondono i soprani sostenuti dalle armonie delle altre voci.
Complessivamente la struttura ripetitiva del pezzo potrebbe tradire la vocazione escatologica della linea melodica gregoriana che per sua costituzione evita qualsiasi forma di ripetizione. Tuttavia è proprio questa apparente contraddizione che rende così affascinante il pezzo per chi lo esegue e per chi lo ascolta: si ha l’impressione di essere immersi in una “contemporaneità arcaica” in cui le connotazioni stilistiche-temporali si (con)fondono. Vorrei dedicare a questo mottetto un’ultima riflessione analizzando la trasformazione ritmica che l’autore opera per ricavare il tema dall’originale gregoriano. Rispettando quasi alla lettera il contorno melodico (vengono aggiunte un paio di note di passaggio), la trascrizione avviene su un ritmo ternario andando a suggerire uno spiccato carattere di danza, come l’indicazione cantabile in uno sembra proprio suggerire. 

Tuttavia all’interno di questa suddivisine ternaria è possibile scorgere una ternarietà anche tra le battute, riconducendo quindi l’intera linea melodica a una situazione di tempo perfetto con prolazione maggiore (con un elemento di varietà al termine della frase). Un’ulteriore trascrizione che tenga conto di questa interpretazione ritmica potrebbe essere quella riportata nel prossimo esempio. Questa lettura potrà risultare particolarmente utile per il direttore, dal momento che il tempo ternario in uno è una situazione spesso difficile da gestire.

Tra la produzione di cantate sacre di Durighello spicca per originalità e per spessore teologico la cantata Sacrificium Laudis per coro e quartetto d’archi. Scritta nel 2002 per l’Ensemble Couleur Vocale e il suo direttore Roland Demiéville [3] è costituita da cinque quadri chiusi attraverso i quali chi ascolta (e chi esegue) vive una vera e propria catarsi: dal grido primordiale invocato all’inizio della cantata (il titolo del primo quadro è Foné) si giunge a quello rivelatore e riconoscente del quadro conclusivo (…abbiamo ricevuto uno spirito da figli per mezzo del quale gridiamo “Abbà Padre!”). L’ultimo episodio reca il suggestivo titolo Eschaton (superlativo di eschatos quindi “ciò che sta al termine”) che ben esprime l’imperturbabilità e contemporaneamente la necessità a procedere che caratterizza l’intero quadro. In due delle tre sezioni in cui il quadro è sostanzialmente diviso, è presente un’interessante indipendenza tra l’andamento del coro (a valori larghi e rigorosamente sul metro indicato dal tempo) e quello degli archi. Questi ultimi creano, alternandosi, un effetto di carillon con un frammento melodico di cinque suoni consecutivi su uguali valori di croma, determinando quindi uno sfasamento progressivo tra il metro della battuta e quello della percezione melodica.

Poche battute più avanti si trova un’analoga situazione, arricchita – rispetto alla situazione precedentemente descritta – da un andamento melodico risultante dalla nota più acuta dell’elemento messo in loop. Ne consegue una scansione ritmica di cinque semicrome di cui l’ultima nota determina l’illusione melodica. Ancora una volta è evidente il contrasto ritmico tra il coro, sul metro della battuta, e l’accompagnamento che potrà ritrovare la situazione iniziale solamente dopo 20 moduli ovvero dopo 5 battute. 

È interessante notare come questi due frammenti possano essere considerati anche complementari l’uno all’altro dal punto di vista armonico: il primo comincia utilizzando una scala pentatonica (la b, si b, re b, mi b agli archi con aggiunta del fa nelle parti vocali) che si rivela al termine dell’episodio come un modo eolio di fa, mentre il secondo utilizza solo i suoni fa, do, re aggiungendo la terza maggiore, il la, solo nella cadenza. Si determina quindi progressivamente un passaggio suggestivo: pensando grossolanamente in termini pianistici, dai tasti neri ai tasti bianchi, da un modo eolio a uno ionio luminoso pur epurato dalla tensione dei semitoni. Per metafora potremo quindi dire dalla penombra alla luce, dal canto sommesso alla gioia manifesta. La Cantata termina proprio con questo atteggiamento; la lode alla Trinità viene espressa con una reiterazione più o meno regolare di sequenze armoniche diatoniche che si sviluppano dal procedere per grado congiunto delle parti estreme inizialmente a partire dal suono la per poi spostarsi nelle ultime battute sul re. Moduli ritmico-melodici passano con libertà dagli archi alle voci e viceversa, arricchendo a ogni ripetizione quanto detto precedentemente.

Alla luce di quanto visto finora è assai difficile poter classificare l’opera di Durighello semplicemente come “musica minimalista”. Senz’altro ricorrono alcuni elementi caratteristici di questa corrente come la reiterazione di moduli ritmico-melodici, tecniche di defasaggio, e soprattutto la semplificazione del linguaggio musicale in nome di un ascolto più accessibile, tuttavia c’è anche molto altro. Prima di tutto una consapevolezza storica delle forme musicali e dello sviluppo armonico che evoca quella sensazione di “arcaica contemporaneità” descritta precedentemente, e una personale ricerca spirituale che si traduce di volta in volta in una nuova intuizione musicale.
Gli elementi minimalistici diventano perciò la cifra comune dell’alternanza tra “stasi dinamica” e “movimento statico” che caratterizza la ricerca contemplativa del credente-musicista.

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Note

  1. gianmartinodurighello.it
  2. Nel corso del convegno “Incontri con l’autore” (Mel, 2010) in cui il maestro Durighello era invitato a descrivere il suo mondo compositivo, egli stesso raccontò di come l’etichetta di minimalista che gli era stata assegnata era probabilmente il risultato dell’entusiasmo con cui aveva scoperto la possibilità del “copia-incolla” negli attuali pc. Naturalmente si tratta di una battuta, tuttavia è innegabile che l’utilizzo di determinati strumenti condizioni e direzioni la creatività.
  3. couleurvocale.ch
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