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Aneliamo alla bellezza
Intervista a Gianmartino Durighello

di Manolo Da Rold
Dossier compositori, Choraliter 45, settembre-dicembre 2014

Gianmartino Maria Durighello è stato per me, al di là dell’amicizia ormai ventennale, un modello di riferimento musicale e umano. Essere stato allievo prima e amico poi, mi ha permesso di conoscere questo mio conterraneo sotto molteplici aspetti: in lui si sintetizzano perfettamente ispirazione musicale, fede, originalità stilistica e amore per la vita e per il prossimo. Questa intervista mi dà l’opportunità di approfondire alcuni aspetti legati alla sua formazione, ma soprattutto al suo pensiero musicale che forse a qualcuno restano ancora sconosciuti.

Carissimo Gianmartino, il nostro colloquio si divide in due parti: la prima è dedicata alla tua storia di musicista, la seconda al pensiero filosofico e teologico che si cela nella tua produzione musicale. Sei nato in una famiglia di musicisti, tuo padre Martino è un direttore di coro e organista e appassionato di etnomusicologia, ovviamente tutto questo ha favorito la tua precoce crescita artistica. Quali sono state le tue prime esperienze musicali? 

Certo, l’ambiente familiare è stato indubbiamente importante. Ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ho iniziato presto gli studi musicali. Anzi, agli inizi non ero additato in famiglia come quello che avrebbe studiato musica. Ero incostante e, anziché studiare, componevo canzoncine. Poi le distribuivo a fratelli e genitori e organizzavo un festival domestico al quale non so perché vinceva sempre mia mamma. Amo ricordare la tanta musica d’assieme fatta in famiglia. Con i genitori e i fratelli cantavamo e suonavamo un po’ di tutto. Il mio primo strumento fu… un’armonica a bocca (vinsi anche un concorso del dilettante). E a volte penso che vorrei portarmi proprio l’armonica in Paradiso. Una sedia a dondolo e una armonica a bocca. Soltanto con gli anni del liceo iniziai lo studio del pianoforte. Fu mia mamma a volerlo. Contemporaneamente suonavo in chiesa e anche in un complessino per il quale componevo le mie prime canzoni. 

Sei stato fondatore e direttore di un coro polifonico per molti anni, attualmente dirigi il coro del conservatorio di Castelfranco Veneto, istituto in cui sei docente. Quanto e come ha influito l’essere direttore di coro nel tuo cammino di compositore?

Oh, molto. La musica che ho respirato fin da piccolo era anche tanta musica per coro. La schola cantorum e il coro di mio padre, soprattutto. Non ho mai scritto però per il mio coro, il Nuovo Rinascimento. L’ho fatto per i ragazzi del conservatorio, perché mi sono accorto che la cosa piaceva loro e che entrava positivamente nel nostro rapporto. Quanto ha influito l’essere direttore con il mio cammino di compositore? Lo strumento che suoni interagisce con il tuo pensiero. Faccio un esempio. Se per scrivere una lettera scelgo la penna stilografica, piuttosto che la biro o il computer… sarà sempre una lettera diversa, nel contenuto e nello stile, a seconda del mezzo che uso. Figuriamoci in musica. Dirigere un coro e lavorare come insegnante di coro a contatto con centinaia di adolescenti e giovani ha influito certamente sul mio modo di essere, di sentire e di pensare. Non credo sia eccessivo dire che, quando penso, spesso penso in modo… corale. E vorrei poter dire anche che penso… giovane. Speriamo che sia così, almeno un po’.

Hai parlato di giovani e adolescenti, mi è capitato recentemente di studiare con i ragazzini del mio coro di voci della bellissima musica da te scritta per questo tipo di organico. Qual è il tuo rapporto con il mondo dei bambini e dei cori voci bianche?

Ho lavorato anche con i bambini, ma soprattutto con ragazzi e adolescenti, e amo particolarmente il suono vocale dell’adolescenza. La mia prima attività con bambini e ragazzi è stata, come per molti, quella ludica in campi estivi parrocchiali e in colonie marine. Ne ho ricavato un grande amore per l’esperienza globale e universale che rimane una mia caratteristica. Globale (nel senso di una attività che unisca al canto il gioco, la drammatizzazione, il mimo, dando vita a storie, leggende, fiabe, racconti…) e universale (nel senso di cercare il coinvolgimento di tutti i ragazzi, soprattutto quelli con problematiche di vario tipo). Quando ho iniziato a insegnare alle medie, questo era il mio modo di essere. E, come accennavo, con alcuni di quei ragazzi che sono poi diventati miei amici ho condiviso anche fuori scuola esperienze simili, eravamo guidati dal motto: «In principio c’era l’entusiasmo». O quest’altro: «Teniamo viva la fantasia, per rendere fantastica la vita». Quando sono passato dall’insegnamento alle medie a quello in conservatorio ho pian piano chiuso un rapporto diretto con i bambini, salvo qualche piacevole rimpatriata. Sono stato però invitato a scrivere per cori di voci bianche o giovanili o ancora per le scuole. Penso ai lavori scritti per i ragazzi di Amedeo Scutiero, Cinzia Zanon e altri… E devo dire che uno dei lavori che considero tra i più rappresentativi di me e della mia produzione è proprio un’operina, una leggenda in musica, I monti pallidi. I ragazzi portano in me anche le prime dolorose ferite. Frequentavo il ginnasio quando una mia compagna d’infanzia fu trucidata dal padre. Poi, nei primi quattro anni di insegnamento alle medie, mi morirono quattro ragazzi, in eventi tragici. Quasi come un grido disperato scrissi allora I me mor (Mi muoiono). I ragazzi per me sono anche questo. Il mio primo drammatico incontro con la morte.

Scrivi solamente musica corale o ti capita di lavorare per strumenti o ensemble?

No, non solo musica corale. Sai, la maggior parte del lavoro si fa su commissione, e la maggior parte delle commissioni mi vengono dal mondo corale. Comunque devo ammettere che la mia produzione cameristica nasce generalmente da precedenti lavori corali. è il coro il primo luogo della mia esperienza compositiva. A volte capita addirittura che il committente mi chieda esplicitamente un brano che faccia riferimento a opere corali da lui ascoltate. è il caso ad esempio di Sèfer Torah, per chitarra, inciso da Alberto Mesirca in Ikonostas, Disco d’oro al Pittaluga nel 2007; o le Meditazioni per due fisarmoniche scritte per il duo Dissonance, rivisitazioni di Gaudens Gaudebo e di Dies irae. L’ultimo mio impegno nel campo della musica strumentale è un Concerto per saxofono e orchestra d’archi, Jerushalaim, di prossima esecuzione. Un sogno? Rivisitare i miei motetti più significativi per un piccolo organico cameristico.

Sai come la penso: homo faber fortunae suae. Il successo non avviene per caso o per coincidenze fortunate, l’avvenimento importante ha i suoi effetti sul futuro dell’individuo solamente se quanto viene proposto è di qualità. Vorrei sapere quindi, oltre ai riconoscimenti concorsuali, quali siano stati gli eventi che ti hanno portato ad essere così eseguito anche fuori dai confini nazionali?

Importante è indubbiamente la pubblicazione e soprattutto l’inserimento di una composizione come brano d’obbligo in concorsi di esecuzione corale o in corsi di formazione. Non finirò mai di ringraziare Giovanni Acciai per aver creduto in me e nella mia musica fin dagli inizi, quando ancora pochi mi conoscevano. Egli ha curato il mio primo volume di Motetti per la Suvini Zerboni con una prefazione che conservo sempre nel cuore, e ha inserito diversi miei brani in vari concorsi corali, come il Festival di Riva del Garda. Avevo da poco vinto il concorso di Loreto per una Messa in occasione del settimo centenario della traslazione della Santa Casa. Non ho partecipato a molti concorsi, cinque in tutto e sempre in circostanze particolari, ma sono stati molto importanti. In particolare l’esecuzione in diretta rai della Messa di Loreto (1995) è stato un evento molto importante. Molti cori erano esteri e da questi sono venute le mie prime commissioni. La trasmissione televisiva e/o radiofonica è chiaramente un’importante occasione di diffusione: tra le più recenti l’inserimento di un mio brano insieme a quelli di altri di autori contemporanei italiani in un programma a cura di Marco Berrini trasmesso dalla Radio Svizzera. Ci sono poi alcune commissioni per eventi particolari che hanno un forte impatto sulla diffusione dell’opera o comunque sul far conoscere un autore. Penso ad esempio alla Messa Audi filia per coro e banda, scritta in occasione dei festeggiamenti per il passaggio di millennio per il coro Gialuth di Lorenzo Benedet, e recentemente riproposta nella riduzione coro e organo da parte del compianto Massimo Nosetti. Penso ancora all’inserimento di un brano in corsi di formazione per direttori. Qui la composizione passa direttamente nella mano del direttore. Sono, infatti, i cori stessi, con le loro esecuzioni, che fanno conoscere un brano. E il brano comincia la sua vita fuori dal cordone ombelicale dell’autore. E la musica se deve diffondersi si diffonde. Ne sei testimone tu stesso, con il tuo coro. Ci sono partiture che “girano” ancora sulla fotocopia del manoscritto originale, nel quale risalta la viva scrittura a matita.

Porti su di te una particolare etichetta, quella di compositore minimalista. Alcune biografie e alcuni critici ti citano sovente come rappresentante della musica minimalista in Italia, condividi questa analisi? Se sì, quali sono le cose che ti accomunano con altri compositori di questa importante corrente di pensiero?

Ero in conservatorio, in un momento di pausa, e stavo rileggendo un mio lavoro per organo appena ultimato. Un allievo entra, ascolta e mi dice: «sei anche tu un minimalista?». Fu la prima volta che mi sentii così etichettato. Poi, come dici, me la sono vista un po’ dappertutto questa etichetta. Devo ammettere che non sapevo neanche troppo bene cosa significasse il termine minimalismo. Un termine oggi impiegato come un ricettacolo molto ampio, e spesso a sproposito. Non tutta la mia musica può dirsi minimalista in senso stretto, ma devo dire che questa etichetta mi piace e la trovo rispondente a una parte di me e della mia produzione. Sono arrivato a questo per una via diversa da quella che si può immaginare. Non ascoltavo né leggevo musica minimalista. Ripeto: sono gli altri ad avermela poi fatta conoscere. Cercavo un linguaggio che mi fosse proprio, e mi stava stretto quello dell’avanguardia dal quale per un certo senso provenivo. Miravo cioè a un modo di esprimermi che rispondesse a quello che ero, alla mia fede innanzitutto, e a come cercavo e cerco di viverla. Anche se in senso diverso da quello che originariamente il termine voleva significare, mi sento minimalista nella ricerca della sobrietà e della riduzione del materiale musicale in funzione espressiva. L’uso della ripetizione ritmico melodica, soprattutto in cellule modali, mi consente di muovermi in una ricerca compositiva che risponde al mio essere «sfociando – come disse un allievo a un corso – in una stasi dinamica o un movimento statico». Devo riconoscere che sono io, desideroso di contemplazione e insieme immerso nell’azione.

Cito testualmente da uno dei tuoi libri (Il canto è il mio sacerdozio, Padova, Armelin Musica, 1997): «… se davvero riuscissi, insegnando a cantare, a predisporre i nostri cuori all’Amore, così che fede e carità si fondino e la vita si faccia culto…». Queste parole mi hanno fortemente colpito. Per te, dunque, il “fare musica” è un mezzo, non un fine ultimo. Puoi spiegare questo tuo pensiero?

Nel canto e nell’amore è difficile separare il mezzo dal fine. Credo che, nella nostra imperfezione e nei nostri errori, tutti in fondo cerchiamo questo: amare ed essere amati. Credo che la spirale della nostra esistenza stia qui: «è dinamica, sprigiona vita, l’essenza del canto. Strettamente legato alla vita, il canto spinge ad amare, a concepire la vita come amore», scrivo ancora in quel libro. Il canto allena ad amare. Amare ti spinge a cantare, sfocia nel canto. Il fine di tutto credo sia un grande silenzio nel quale amore e canto si fondono, mezzo e fine si identificano. Un silenzio frutto melodioso di vite cantate. Guardo con commozione i grandi santi della carità, Teresa di Calcutta su tutti, ma so di non essere come loro. Nel mio piccolo, però, mi scopro insegnante e comprendo che insegnare a cantare in coro è educare all’amore. Un mondo che canta…

Il tuo cammino spirituale corre a braccetto con la tuo essere musicista. Giovanni Maria Rossi nella prefazione al tuo libro che ho appena citato scrive: «Il canto-suono, che è già dentro la persona umana dove lo spirito grida con gemiti inesprimibili, deve sfociare in un atto di “fede vitale”». Secondo te la musica, intesa come anelito alla Bellezza Assoluta, è come imprigionata dentro di noi e sta a noi liberarla per compiere un cammino di fede?

Tu sei il felice papà di Benedetta, una adorabile bambina. Bene, quando il bambino è nel grembo della mamma è forse imprigionato? San Paolo paragona la creazione alle doglie del parto. Credo che la nostra esistenza si svolga come in un grembo, il grembo di Dio. Ogni nostro canto esprime lo scalciare del bimbo nel grembo, la sua voglia di venire alla luce. Ogni nostro canto esprime il vagito, il grido del neonato che viene alla luce. Diciamo il nostro disagio, ma anche la nostra volontà di vivere e di essere alimentati alla vita. Ed è per questo che il nostro canto si placa nel silenzio, quando siamo abbracciati al petto della mamma. La musica non è solo anelito, è anche all’origine della Bellezza. Nel racconto della creazione Dio “disse” e il mondo prese vita. E Dio vide che era cosa “bella” (questo il significato letterale). Con il suono della sua voce Dio dà vita alla Bellezza. La nostra musica è sì anelito alla Bellezza vera, ma nello stesso tempo facendo musica noi continuiamo l’opera creatrice di Dio. Aneliamo alla Bellezza generando bellezza. Perché il creato porta in sé l’impronta del suo Creatore. E l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Per questo siamo invitati ad ascoltare il suono che è in noi. Liberarla, la musica, – come tu dici – significa accettare di vivere il dinamismo della creazione. Allora, se è vero che il grembo non è un carcere, è anche vero che grazie alla musica ciò che appare come un carcere può rivelarsi un grembo.

Spesso nella tua musica si celano dei significati simbolici che, a quelli che come me amano particolarmente la teologia, si rivelano con gradualità durante lo studio dei tuoi brani; è una sorta di cammino escatologico che prepari volutamente per gli esecutori o il rapporto con il symbolum è una tua fondamentale dimensione spirituale?

Sì, il simbolo è una dimensione molto importante per me. Nei miei primi lavori la dimensione simbolica era per lo più limitata al rapporto testo-musica sulla scia della tradizione gregoriana e mottettistica. Con il tempo tale dimensione si è fatta molto più presente investendo la composizione fin dalla sua ideazione e divenendone l’elemento caratterizzante, dalla architettura generale al più piccolo tema. Anche se alcuni di questi ultimi lavori possono risultare più semplici e immediati, in realtà sono il frutto di una attenta meditazione. Chi entra nel mio studio nella fase di ideazione si diverte a vedere appesi sui muri fogli di carta da pacco sui quali appunto tutti i miei schemi… è innanzitutto una mia esigenza spirituale. Nella Bibbia è Dio stesso a donare le misure per la costruzione della città santa e del tempio. Così è per la architettura e così è per la musica. La musica abita il suono che Dio stesso ha donato creandoci a sua immagine e somiglianza.

Un uccellino mi ha detto che hai iniziato a suonare l’arpa, non sarà forse che nell’iconografica comune è lo strumento privilegiato dagli angeli e quindi non vuoi farti trovare impreparato?

Mannaggia. Mi verrebbe da risponderti che… anche gli angeli mangiano fagioli. Ma questo è un altro film (ma gli uccellini non potrebbero limitarsi a volare e cinguettare?). Per l’arpa ho avuto sempre un certo affetto, ed essa è presente, ad esempio, nelle mie due cantate natalizie: Natalis annuntio, scritta per Mauro Zuccante, e L’Annunciazione per Pierluigi Comparin. Il discorso si ricollega alla domanda precedente. Mi sono trovato l’arpa in mano in un corso di formazione liturgica organizzato dalle Figlie della Chiesa di Roma, perché la ragazza che avrebbe dovuto suonarla è stata costretta a dare forfait. Da allora l’ho tenuta in mano sempre più spesso fino ad appassionarmi. Ora studio con Alessandra Casarin (che fu mia allieva di coro) e nel mio piccolo cerco di… suonare. Nella lingua ebraica gli strumentisti sono proprio detti “coloro che tengono in mano”. Devo dire che per me, che non ho in curriculum un corso di studi in uno strumento, è molto importante… tenere in mano uno strumento. Ed è sempre musica d’assieme, con gli amici ed ex allievi del Gruppo Ashirà con il quale animiamo liturgie e proponiamo percorsi di Lettura cantata della Parola di Dio, come ad esempio il Cantico dei Cantici. Questo mi riporta alla prima domanda che mi hai fatto. è importante per me far musica pratica, tenere in mano uno strumento, anche se a livello amatoriale. Amatore e dilettante. Essere amatori e dilettanti ci ricorda che la musica è amore. In questo senso i professionisti non dovrebbero mai smettere di essere amatori e dilettanti. Sì, adesso ho due arpe celtiche, che si aggiungono alle mie due zampogne e alle mie armoniche a bocca. Ma, ripeto: in Paradiso porterò l’armonica a bocca.

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