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Sicut Cervus, dentro e attorno a Palestrina
di Lorenzo Donati

Dossier Compositore, Choraliter 60, gennaio 2020

Negli anni di studi e nei successivi anni di approfondimento, di prove, di concerti, di masterclass poche sono state le partiture o gli autori che sono riusciti a non stancarmi. Opere e autori dove puoi trovare sempre qualcosa di nuovo e riassaporare qualcosa di buono. Partiture che riescono a nutrire. Non starò qui a fare un elenco o una classifica, ma tra le opere irrinunciabili nel mio cammino di direttore di coro e compositore c’è il Sicut cervus di Palestrina.

Spesso quando una poesia, un’opera musicale, un pensiero, un amore mi invade e diviene un pensiero luminoso, un po’ come le palline d’oro dei ricordi speciali di Joy nel film Inside Out, cerco di fissare questa bellezza in qualcosa che sia propriamente mio. Un po’ è un omaggio, un po’ un modo per digerire e fissare questa bellezza, forse un modo per superarla, ma certo sento il bisogno di scrivere un brano che racconti quel pensiero luminoso.
Quando ho iniziato a scrivere il brano Sicut cervus, cantavo quello di Palestrina da anni con l’Insieme Vocale Vox Cordis e il brano nasceva proprio per quel coro. Non era la prima volta che scrivevo pezzi cuciti sul coro che dirigevo, era già successo con il Vox Cordis sulle antifone mariane e tante altre opere, era successo con risultati straordinari con UT, ma anche per il Coro Giovanile Italiano. Scrivere un brano per il gruppo che dirigi offre molte opportunità, ma al tempo stesso rischia di limitarne altre. A volte se cuci l’opera sul coro puoi farla perfettamente aderente alla figura vocale dell’ensemble, sfruttandone al meglio tutte le caratteristiche ed evitando di mostrarne le debolezze. Al tempo stesso il sarto/compositore non se la sente di dire al proprio coro, qui devi dimagrire e questo diviene un limite, perché il vestito su misura non mette mai in luce le possibili migliorie da effettuare.
Nel mio Sicut cervus ho provato a stimolare il mio coro a fare un passo avanti abbastanza complesso. Avevo bisogno che cantassero attorno al pubblico, ma senza improvvisazioni o fasi aleatorie troppo lontane dalla mia idea di omaggio a Palestrina. Quindi la scelta di dividere il coro in quattro cori a quattro voci, da far cantare solisticamente, era un passo che obbligava i coristi a svincolarsi dalla sezione, cantare da soli, essere autonomi.

L’organico è nato dall’idea di essere avvolti dallo spirito di Palestrina, ma l’opera non doveva, se non in un breve momento citare il Princeps musicae. Voleva essere un omaggio alla parola, al fraseggio, al rispetto del testo, allo spazio architettonico e fisico del suono. Questo nella visione che il compositore ha oggi di questi elementi. Per compositore intendo colui che, pur avendo uno spiccato intuito musicale, e quindi mosso da una forte desiderio espressivo, desidera non essere trascinato nel sentimentalismo e avere un certo controllo dell’evento artistico. Il tutto nel desiderio di portare una voce nuova nel panorama della storia, ma consapevole che essere se stessi e unici non basta a essere nuovi e interessanti. Perché nuovi, si chiederà qualcuno, perché nuovo era Palestrina per i suoi contemporanei e Monteverdi per i suoi e tutti gli artisti di sempre. Nuovi ma all’interno di un cammino comune, nuovi perché vivi.

L’opera propone alcuni suoni particolari, quelli che in modo dispregiativo potremmo chiamare effetti, come era effetto la messa di voce o il vibrato, come era effetto il tremolo degli archi o il pizzicato. La scelta che assieme alla voce cantata vi fossero alcuni colori differenti nasceva dal fatto di voler avvolgere l’ascoltatore non solo da frasi melodiche, ma anche da suoni che si staccassero timbricamente dalla massa quadrifonica dei cori. Quindi la esse di sicut diviene una brevissima introduzione timbrica che prepara il primo suono che è un sol. La scelta dell’armatura in chiave e del modo di sol è nata dal fatto che volevo che Palestrina risuonasse nella pienezza delle voci di un organico moderno e quindi l’originale rinascimentale di riferimento è stato trasportato un tono sopra. Tra i suoni particolari c’è anche subito dopo il sussurrato che spezza timbricamente i colori ma senza rompere la parola. L’ultimo importante timbro che diviene strutturale man mano che il testo introduce la parola aquarum è il suono dello sgocciolio dell’acqua che i coristi riproducono con le dita e gli schiocchi di lingua.

La divisione in quattro cori non propone lo stesso organico corale e questo permette di percepire in modo semplice le imitazioni e le differenze. Le voci sono organizzate in due cori a quattro voci standard (SATB), un coro acuto (femminile) e un coro grave (maschile). Poco dopo l’inizio dell’opera i due cori con organico misto presentano, in forma di canone, l’incipit del mottetto di Palestrina, che appare e diviene evidente agli ascoltatori (quelli che lo conoscono) per poi essere riavvolto e abbracciato dalle altre frasi musicali e dalle acque.

Sarà l’amore che avevo per questo mottetto, opera fulcro dello stile romano rinascimentale, sarà la fortunata coincidenza di esecuzioni magistrali che si sono potute ascoltare in questi anni da cori fantastici, sarà quel suono d’acqua che si insinua gradualmente dalla parola al significato al timbro, ma quest’opera negli ultimi anni è stata una delle più eseguite della mia produzione. Questo nonostante l’indubbia complessità di una suddivisione a sedici voci e la spazializzazione necessaria dei cori. Certo è che mi sentirò sempre in debito con Palestrina per tutte le cose che ho imparato cantando le sue frasi e costruendo durante le prove le sue cattedrali di suoni.

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