Cookie Consent by Free Privacy Policy website

Dalla luce del testo
intervista a Lorenzo Donati

di Veronica Pederzolli
Dossier compositori, Choraliter 60, gennaio 2020

Lorenzo, cominciamo con la tua formazione. Quando si è palesato l’interesse per la composizione corale?

L’interesse è nato attorno ai diciassette anni, subito dopo aver iniziato a cantare in coro. Prima non pensavo di voler scrivere per coro così come non pensavo di dirigere cori. Volevo diventare un direttore d’orchestra e al liceo musicale scrivevo per pianoforte e tromba, per violino solo, per pianoforte. A diciannove anni cominciai a seguire il corso di perfezionamento in composizione alla Scuola di Musica di Fiesole con Camillo Togni, grandissimo docente che poi scomparve. Rimasto orfano di questa figura, decisi di studiare composizione in conservatorio a Firenze, dove conobbi Salvatore Sciarrino e Romano Pezzati, entrambi compositori legati alla coralità. Nel frattempo alla Fondazione Guido d’Arezzo tra il 1994 e il 1996 partiva il corso per direttori di coro che fu il più grande attivato in quegli anni: c’erano Graden, Luisi, Fasolis. Tutto il mondo compositivo guardò e si rivolse a questo mondo corale perché trasmetteva un’immagine positiva e innovativa della vocalità, sganciandola da un’idea polverosa e antiquata dello strumento coro. Io mi iscrissi al corso per direttori e così il coro diventò il mio principale strumento espressivo, anche nella scrittura.

Nel 1999 hai poi vinto il Concorso di composizione Guido d’Arezzo, allora prestigiosissimo sia per giuria che per montepremi.

Sì, fu straordinario perché davvero in quel momento si trattava del più importante concorso di composizione corale e questa vincita fu così eclatante che mi valse la nomina come insegnante di Composizione e Direzione di coro a Pesaro per una sostituzione nel 2000, quando ancora non avevo il diploma in Composizione. Gioi, il pezzo con cui vinsi, mescolava l’ambito dodecafonico a quello minimalista in una direzione che fu il frutto delle riflessioni nate a seguito di una vacanza studio con Gary Graden nel 1996. Lì Gary mi mostrò quanto l’avanguardia, sulla quale mi stavo concentrando negli studi compositivi, non riuscisse a rendere in ambito vocale. Oggi se ripenso al fatto che ci misi un anno a scrivere Gioi vedo la bellezza dell’aver giornate intere per scrivere musica, per farlo a mano, con la matita.

E oggi qual è il tempo del tuo comporre?

Ora lavoro di più in tutti i sensi: compongo quando posso, dirigo tantissimo, insegno e devo occuparmi di eventi musicali. La composizione è diventata una passione che coltivo nei ritagli di tempo. Avere meno tempo obbliga ad avere cose chiare da dire e una via precisa per farlo, ma avere meno tempo significa anche stentare un poco nei progetti più grandi, nei grandi cicli che necessitano di più approfondimento e quindi più tempo. Questo lo dico nonostante quest’anno mi sia capitato di scrivere dodici pezzi in quindici giorni.

Sembra sempre che tu componga per un coro preciso, spesso per un coro che dirigi. E penso alla Polifonica San Lorenzo per i pezzi su Pascoli, al CGI per Insenso, ai numerosissimi composti per il Vox Cordis, ai celebri Canticum Canticorum o Noche pensati per UT.

Sì, negli ultimi anni una buona parte dei brani è nata cucita addosso ai cori e alle necessità della performance e del programma. Ci sono anche brani come Mignon, commissionatomi dal concorso di Tour come brano d’obbligo, che ho composto senza sapere esattamente chi l’avrebbe eseguito, ma anche in questi casi credo sia importante pensare di creare un vestito per qualcuno e confezionarlo al meglio. Così rimarrà bello anche per altri. Non credo molto nella composizione ideale, ma alla forza dell’occasione come stimolo per il lavoro.

In tutti questi anni di evoluzione e maturazione nello stile potresti trovare una costante caratteristica del tuo linguaggio musicale?

È difficile. Direi un rapporto con la parola che non è mai troppo madrigalistico e che usa lo sguardo nordico e americano del minimalismo. Al tempo stesso c’è una frase di Schönberg che mi ha sempre dato grande stimolo ed emozione: quando gli chiedevano come riuscisse a gestire la forma di un testo lui rispondeva che in ogni testo c’era una parola chiave. E da questa parola chiave ricavava il colore di tutto il pezzo. Ecco per me vale lo stesso, è da quella luce del testo che parto e non esiste pezzo svincolato dalla liaison tra l’idea e l’emozione che il testo mi ha mosso dentro. Ci sono poi cose che tornano anche dal punto di vista più prettamente musicale come ribattuti, armonie speculari, canoni molto stretti come quelli di Britten in A Ceremony of Carols e il rimanere spesso in ambito diatonico, talvolta un diatonico modale, o politonale, o con particolari note perno.

Nell’ultimo Gran Premio Europeo, svoltosi ad Arezzo, ben tre cori hanno scelto una tua composizione nel loro repertorio. Come valuti questa scelta da direttore artistico del Polifonico?

Innanzitutto spero che i cori facciano questa scelta perché sono convinti del brano e non nella speranza che io possa in qualche modo influenzare la giuria. So che i miei brani sono difficili, sono pezzi “challenge” spesso pensati per cori che vogliono fare performance importanti e quindi sono brani che consentono di mettere in evidenza delle qualità; per questo sono scelti in concorso. Il coro lettone Youth Choir Kamer aveva già portato il mio Sicut Cervus a Tolosa prima della straordinaria performance e della vittoria ad Arezzo: a Tolosa non c’ero e ad Arezzo altri cori hanno fatto i miei brani, ma non hanno vinto. Sono fiero del fatto che il mio nome ormai sia passato oltre l’ambito italiano: ricevo costantemente richieste di licenza da cori indonesiani, coreani e giapponesi per eseguire e registrare miei brani. 

Davvero?

Sì, loro per eseguire devono avere il permesso del compositore. Sul mio sito ormai tutte le mie partiture si possono avere gratuitamente con un semplice download: ho deciso che se un editore vorrà collaborare con me lo farò volentieri purché sia intenzionato a valorizzare la mia musica. Spesso invece l’unico scopo è quello di inserirla in un catalogo e per questo ho detto “no” a diversi editori: non voglio di certo diventare un nome in un catalogo, preferisco che mi eseguano.

Al Conservatorio F.A. Bonporti di Trento arrivano musicisti da tutta Italia per studiare con te anche Composizione corale, che insegni nel percorso di Direzione di coro e Musica Liturgica…

Sì, e ho avuto la fortuna, tra le più grandi del mio essere compositore, di vedere alcuni allievi, che inizialmente erano davvero restii nello scrivere qualcosa, trovare un proprio linguaggio e cominciare a essere eseguiti. Negli anni ho portato alla scrittura Matteo Valbusa, che ora qualche volta vi si dedica, Federico Incitti, che fino ad allora non aveva mai scritto una nota e che poi ha cominciato a scrivere moltissimo e vincere concorsi, Benedetta Nofri, che ormai ha un mercato in cui lei scrive per coro. E così è stato per molti altri. La cosa interessante di questo lavoro è il riuscire a dare consigli senza giudicare, mostrando una possibilità che per un musicista è straordinaria e attorno alla quale ho sempre fatto sperimentare anche i bambini della primaria, negli anni in cui facevo progetti di musica.

Se oggi potessi scegliere un coro per cui comporre?

In questo momento sto scrivendo molto per UT, ho scritto un oratorio sul Qoelet per il mio coro Vox Cordis. Ho avuto modo di scrivere per i Madrigal Singers, per il coro di Gary Graden, per il Coro Giovanile Italiano. Diciamo che molti tra i migliori cori del mondo stanno eseguendo la mia musica. Ci sono dei progetti grandi che non so se riuscirò a realizzare perché mi piacerebbe trovare un coro che abbia la capacità di sostenere un’opera corale importante a cappella, simile al Choir Concerto di Alfred Schnittke. E allora penso ai grandi cori professionali europei, al coro di Radio France, al coro da camera olandese o ai grandi cori estoni, anche se Gary Graden è davvero il migliore nella capacità di comprensione dell’energia di un brano contemporaneo. Devo dire che a volte è bello sentire lo scontro interiore quando ascolto un mio pezzo interpretato in un modo diverso da quello che avrei fatto e comunque vi ritrovo un senso. Questo significa che la musica è viva e che in un certo senso va oltre il compositore.

Ti potrebbero interessare anche:

Questo sito utilizza cookies propri e di altri siti. Se vuoi saperne di più . Continuando la navigazione ne autorizzi l'uso.