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Aestimatus sum
Un'analisi critico-interpretativa

di Matteo Valbusa
Dossier Compositore, Choraliter 49, aprile 2016

Mario Lanaro ha composto il brano Aestimatus sum per la sezione maschile del Gruppo Vocale Novecento di San Bonifacio (Verona), diretto da Maurizio Sacquegna. L’esecuzione di questo pezzo nel 2015 ha ottenuto l’attenzione delle giurie e importanti premi speciali nei concorsi nazionali di Vittorio Veneto e Arezzo, dove il coro si è imposto vincendo rispettivamente il Gran Premio Efrem Casagrande e il secondo premio.

Il salmo e la sua interpretazione teologica

Il testo del brano è l’antichissimo responsorio musicato nel passato da centinaia di compositori. Si vedano per esempio le celebri raccolte di responsori di Orlando di Lasso, Tomás Luis de Victoria, Carlo Gesualdo, Marc’Antonio Ingegneri, Michael Haydn.

ResponsumResponso
Aestimatus sum cum descendentibus in lacum, Sono annoverato fra coloro che discendono nella fossa, 
factus sum sicut homo sine adjutorio, sono diventato come un uomo senza aiuto,
inter mortuos liber.libero fra i morti.


VersusVerso
Posuerunt me in lacu inferiori, 
Mi hanno posto nella fossa profonda, 
in tenebrosis et in umbra mortis.
nelle tenebre e nell’ombra della morte.


RepetendaRipetizione
Factus sum sicut homo sine adjutorio,
Sono diventato come un uomo senza aiuto,
inter mortuos liber.
libero fra i morti.

Il Salmo 88 (87), da cui è tratto il testo del brano, è stato definito dagli esegeti «La più tenebrosa di tutte le lamentazioni del Salterio»; «il cantico dei cantici del pessimismo»; «un grido di desolazione sul modello di quello di Giobbe, ma che, all’opposto di quello, rimane senza risposta».
Lo sheol, gli inferi biblici, domina tutta la lamentazione con la sua lugubre presenza; questo salmo sembra quasi un canto della morte che si ramifica con la sua mano gelida nelle ossa e nella carne dell’orante. È uno sconvolgente lamento in cui si intrecciano sofferenza fisica, ostilità di Dio, solitudine, vana attesa di una risposta, con un unico sbocco verso la morte. L’ultimo grido di un uomo disperato che ha come compagni solo le tenebre, senza sprazzi di luce all’orizzonte.
Lo stesso Gesù Cristo secondo la scrittura evangelica è sceso agli inferi dopo la sua morte (salvo poi risorgerne il terzo giorno) e per questo il testo è stato inserito nella liturgia del Sabato Santo all’interno del Triduo Pasquale, come vaticinio profetico della sorte del Messia. [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, Articolo 5, paragrafo 1, 632, 635: «Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù è risuscitato dai morti presuppongono che, preliminarmente alla risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti». E più avanti la citazione: «Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato ed ha svegliato coloro che da secoli dormivano». Autore Anonimo, Antica omelia sul santo e grande Sabato: PG 43,440 452 461].

Una performance corale

Mario Lanaro ci propone la sua versione che lui stesso definisce un viaggio nel tempo, unendo l’antico al moderno e al contemporaneo, cancellando confini temporali e stilistici, e superando la normale aspettativa creata da un brano corale.
Nell’assistere all’esecuzione di questa composizione colpiscono immediatamente i movimenti del coro e dei solisti nello spazio, l’utilizzo del declamato e ancor più del sussurato, il coinvolgimento del direttore.
Elementi che acuiscono l’intensità dell’atmosfera che si viene a creare. Per questo non parleremo più di semplice esecuzione, ma di performance, in cui ogni aspetto (musicale, visivo, teatrale) non è lasciato al caso. Coristi e direttore diventano attori di una mise-en-scène in cui si rivive il giorno del sepolcro, quando il Figlio di Dio conobbe il terrore della solitudine nella profondità delle tenebre.
Nella musica corale moderna e contemporanea vi sono innumerevoli esempi di coro in movimento, particolarmente nel vocal-pop e nel musical, mentre nella musica colta frequentemente si ricorre alla spazializzazione, al parlato e ad altri effetti. Tuttavia sono rarissimi gli esempi di performance corale intesa come compartecipazione di diverse espressività alla costruzione drammatica del brano. Solitamente è il direttore che interviene su un brano inventando dei movimenti per renderlo più spettacolare, o per renderne più diretto il messaggio. Un esempio celebre (ma di rara esecuzione) è Warning To The Rich di Thomas Jennefelt, che spesso viene eseguito con movimenti derivati dall’inventiva del direttore e dall’improvvisazione dei singoli coristi.
Vedremo invece come Mario Lanaro abbia qui elaborato un percorso tensivo ordinato sulla forma del responsorio, che si realizza attraverso l’uso di tre strumenti principali: l’inserimento di numerosi effetti; l’indicazione di precisi movimenti; un versatile contrappunto che varia il suo stile in base al testo e al carattere da determinare nelle varie parti.

La forma

Innanzitutto chiariamo la forma, che si basa su quella classica del responsorio (AB-C-B). Come abbiamo visto la prima parte, detta responsum, contiene i primi due versetti del salmo; segue il versus; conclude la repetenda, ossia la ripetizione del secondo versetto della prima parte («Factus sum…»).
Il compositore aggiunge a questa struttura base una doppia cornice composta da una breve frase di apertura che viene poi ripetuta come chiusura, preceduta da un preambolo cui corrisponde un epilogo. Per queste parti aggiuntive il testo usato è il primo versetto. La struttura complessiva è dunque questa:

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Un’architettura speculare di bachiana memoria che ha come punto focale il verso, centro drammatico di tutta la composizione, in cui viene evocata l’ombra della morte con tremenda efficacia espressiva.

L'introduzione

Cominciamo dalla sezione introduttiva, divisa in due parti: nella prima, chiamata preambolo, il coro si presenta al pubblico nella consueta disposizione a semicerchio, ma voltato di spalle. Davanti al coro sta il primo solista, un basso, anch’egli voltato. Al centro del semicerchio, tra i coristi, l’unico rivolto verso il pubblico è il direttore, che dà inizio al brano recitando il primo versetto. Fin da questo primo momento è chiaro l’intento simbolico dei volti nascosti e dell’orante solitario: è l’abbandono dell’uomo di fronte alla morte, tra le anime dell’oltretomba.
Le parole vengono reiterate dai coristi che declamano in piano lo stesso testo, attaccando progressivamente a coppie speculari dagli estremi fino al centro. Su questo misterioso groviglio parlato il solista canta l’incipit del responsorio in canto gregoriano:

È già palpabile la tensione creata dalla sovrapposizione di diversi piani espressivi: la posizione, la declamazione, il mormorìo, il canto gregoriano. Senza soluzione di continuità i bassi iniziano la seconda parte dell’introduzione, che qui chiameremo frase di apertura, in cui il coro canta l’incipit del brano con una precisa indicazione metronomica e una evocativa indicazione: «quasi irreale». Il suono è quindi etereo, bianco, senza espressione e senza vibrato. La volontà dell’autore è chiaramente segnalata anche graficamente con un font anticheggiante:

Il frammento testuale si arena in un ostinato di due accordi dissonanti, mentre il coro si gira lentamente verso il pubblico creando un effetto di avvicinamento con la sua rotazione, indirizzando la sorgente sonora direttamente verso l’ascoltatore. Nel frattempo direttore e solista scambiano le loro posizioni, e quando tutti sono tornati alla loro postazione ordinaria l’ostinato si interrompe in una improvvisa pausa generale. La sensazione per lo spettatore è quella di entrare nella scena, o meglio di essere raggiunto dai personaggi che la animano.

La sezione centrale: il responsorio

Prima parte: Responsum

L’attesa generata dall’introduzione si risolve con l’improvviso cambio di registro che inaugura la sezione centrale, ossia il responsorio vero e proprio. Il compositore indica più lento e sentito. Il tempo è meno mosso ma l’improvviso fortissimo deve essere sostenuto da un suono pieno e vibrante, che ci avvicina alle moderne sonorità di Poulenc, Martin, Stravinskij.
Ecco svelato il viaggio nel tempo attraverso la diversità degli stili, giustapposti uno dopo l’altro: dal canto gregoriano al suono puro della musica antica, fino alla grande espressività del suono moderno e agli effetti del parlato e del movimento.
La frase prosegue con un ulteriore cambio di situazione temporale, attraverso un piccolo cameo: l’autore inserisce una citazione dallo stesso testo musicato da Tomás Luis de Victoria 430 anni prima, e in particolare del frammento «cum descendentibus in lacum». Potete di seguito vedere il confronto tra l’originale melodia nella sua stampa originale e nell’edizione moderna.

Di seguito la sua citazione opportunamente variata nell’armonia e nel contrappunto delle imitazioni.
La catabasi retorica ideata da de Victoria viene conservata e reiterata da Lanaro, che costruisce una codetta sulle ultime parole «in lacum» dissolvendo il primo gruppo di frasi in un diminuendo al nulla...

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...che si aggancia, dopo un respiro, al secondo verso del responso.
È sulle parole «sine adjutorio», in cui si manifesta la debolezza e la solitudine del salmista di fronte alla morte (o del Figlio di Dio nell’oltretomba…), che il compositore introduce le prime eloquenti figurae suspirationis e inventa un vero coup de théâtre:

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Il coro, mentre canta angosciato e ansimante, interrotto dalle pause, improvvisamente si copre il volto con le mani, di fatto attutendo il suono all’improvviso.
Contemporaneamente il direttore si volta verso il pubblico e declama lo stesso testo, contrappuntato ritmicamente a quello dei coristi. L’incedere ritmico viene reiterato, mentre un solista si stacca dal coro (musicalmente e fisicamente), camminando dietro alla fila dei cantori, lentamente, come vagando solitario tra gli spiriti dell’oltretomba:

Come da indicazione precisa dell’autore, il solista «manda la voce in varie direzioni», cercando invano di misurare col canto uno spazio vago e indefinito come quello del limbo.
Il responsum termina sulle parole «inter mortuos liber», sulla cui interpretazione si è dibattuto a lungo in sede teologica. Alla luce del Nuovo Testamento, la traduzione libero tra i morti sembra essere la più vicina al senso profetico del testo: il Cristo è esente dai vincoli della morte, e scende agli inferi come Salvatore per liberare le anime che vi si trovavano da prima della sua venuta. [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, Art. 5, paragrafo 1, 633: «Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto»].

Si noti il movimento ascendente delle voci corali sul testo, ostentato con il moto parallelo delle parti: è il tema iniziale, ma ora è una vera e propria anabasi, testimone del processo salvifico delle anime. Il solista vi contrappone l’incipit e termina con un desolato mordente.

Seconda parte: Versus

Il verso, parte centrale di tutto il brano, inizia con la sovrapposizione di tre elementi: le colonne instaurate da bassi e baritoni che rendono vivo e vibrante il pedale tricorde; l’elemento ritmico dissonante dei tenori con l’alternanza cantato / metà sussurrato; il canto del primo solista che interviene in mezzo al coro, cui s’aggiunge il secondo solista in movimento.

Il crescendo graduale porta a un fortissimo, cui segue il cuore della composizione:

È sorprendente l’uso dei fiati enfatizzati, veri respiri di terrore, e la parola mortis sussurrata, l’ultima volta addirittura con il volto coperto dalle mani: l’effetto è quello di esalazioni spiritiche.
Ma la vera ricchezza sta nella battuta successiva: la pausa generale col punto coronato è l’apice tensivo del brano, concreta descrizione della morte attraverso il silenzio.

Terza parte: Repetenda

Come da tradizione, dopo il verso viene ripetuto il secondo versetto del responso, con la stessa musica.
Due sole varianti per il secondo solista: ora si evita il movimento dietro al coro, e il mordente finale è leggermente variato.

La conclusione

La sezione conclusiva completa la cornice iniziata dall’introduzione, utilizzando in senso inverso lo stesso materiale. Ecco la transizione, con il suo colore antico, caratterizzato anche graficamente:

E infine l’epilogo, con una variante rispetto all’omologo preambolo, che rende originale il finale del brano grazie a un piccolo punto di disequilibrio: l’ultimo intervento non è come ci si aspetterebbe il declamato del direttore (che aveva aperto la performance), bensì l’incipit gregoriano:

L’autore specifica molto significativamente: «segue silenzio».
Quel silenzio che nel versus è punto focale dell’intera composizione lo ritroviamo alla fine, così intenso nella sua vacuità, prima dell’inevitabile applauso scrosciante del pubblico.

Considerazioni finali

Forma e contenuto

Alla fine di questo percorso, con uno sguardo dall’alto possiamo vedere la forma speculare e ciclica del percorso tensivo: dal preambolo al verso si realizza un crescendo di pressione emotiva, che raggiunge il suo culmine nella pausa generale alla fine della sezione centrale, per poi iniziare con la repetenda una graduale decompressione che si prolunga sino all’ultima nota dell’epilogo e al silenzio che segue. Si noti che la posizione dell’apice tensivo non è centrale rispetto alla struttura (e in particolare rispetto alla sua durata), ma posizionata in rapporto di sesquialtera 2:3, il che conferisce all’architettura sonora del brano una sua naturale proporzione.

Effetto ed Affetto

Nel corso della lettura si è sicuramente notata la quantità di informazioni inserite dal compositore in partitura, la cura del particolare nelle scelte grafiche e nella precisione delle indicazioni per l’interpretazione e per i movimenti. Non deve sfuggire però il senso ultimo di queste azioni, che è la partecipazione totalizzante degli attori della performance (cantori e direttore) per una esegesi artistica del testo sacro, ossia la comprensione profonda del suo significato attraverso l’esperienza artistica. Questa consapevolezza crea l’opera d’arte e ne trasferisce potente il significato al pubblico.
Questo aspetto di certo non è una novità, basti pensare a quanto si è investito nella storia delle arti per trasferire emozioni al pubblico e cambiarne lo stato d’animo. Tuttavia nel nostro tempo, che purtroppo è quello della superficialità diffusa e della scarsa attitudine ad affrontare le complessità, è bene ribadire il rapporto che ci dev’essere tra effetto e affetto, tra genialità e significato, tra spettacolo e profondità. I primi sono strumenti dei secondi, e senza quest’ultimi rimangono aridi esercizi virtuosistici.
Un grazie a Mario Lanaro per averci dimostrato come questi aspetti siano complementari e possano sbocciare in un brano corale contemporaneo, trovando grande efficacia in una performance istruita e cosciente come quella realizzata dal Gruppo Vocale Novecento.

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