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Ritratto di un divulgatore
Intervista a Mario Lanaro

di Matteo Valbusa
Dossier compositori, Choraliter 49, aprile 2016


Maestro Lanaro, sei conosciuto universalmente come un musicista eclettico, ti muovi nel mondo corale con agilità impressionante… ma cosa sei in realtà? Un direttore, un organista, un compositore, un insegnante?

Un divulgatore! Mi piace definirmi così. Divulgare attraverso l’insegnamento, la direzione e la composizione. Ho fatto la scelta di vita di essere un docente di conservatorio, quindi un insegnante. Da tanti anni insegno Esercitazioni Corali, e questo mi dà la possibilità di affrontare importanti repertori di alto livello, passando quindi dalla pedagogia al momento concertistico. Ma la priorità è la consapevolezza di portare i ragazzi a fare queste esperienze, che segnano il loro cuore e la loro storia musicale. Parallelamente sviluppo dei percorsi didattici per la direzione corale, in conservatorio e in corsi esterni presso varie associazioni. Sono spinto sempre a portare la gente verso la musica, necessità che realizzo soprattutto grazie alla collaborazione con la Società del Quartetto di Vicenza: l’ultima attività che abbiamo realizzato è stata Invento e canto, una domenica pomeriggio in musica dedicata a bambini e genitori. Uno spettacolo da gustare tutto d’un fiato per capire come funziona un’orchestra, quali sono i ruoli principali e le gerarchie al suo interno, come nasce un brano musicale, come lo si può smontare e rimontare e come la platea degli spettatori può trasformarsi in un grande coro. Il tutto senza mai mettere da parte il divertimento, perché con la musica – anche quella cosiddetta classica – si può, si deve anche ridere e scherzare. Invento e canto fa parte di un più ampio progetto che ho realizzato con la Società del Quartetto di Vicenza, intitolato Scrivi che ti canto e dedicato alla diffusione della musica nel mondo della scuola primaria e secondaria di primo grado. Fra le altre iniziative di questo progetto vi sono un concorso poetico-musicale, una serie di quindici video-lezioni di didattica corale sul web e alcuni incontri di approfondimento sulla coralità nelle scuole, dedicati agli insegnanti.

Hai realizzato numerose composizioni per voci bianche.

Sì, la mia produzione è legata intimamente a Scrivi che ti canto, concorso per testi che nascono tra i banchi e affidati poi a compositori. Sono brani scritti a uso scolastico ma molto utilizzati anche dai cori di voci bianche: le melodie sono semplici, mentre gli accompagnamenti richiedono un mano esperta.

Ultimamente hai avuto delle soddisfazioni importanti con alcuni tuoi brani, non ultimo il brano Aestimatus sum scritto per il Gruppo Corale Novecento di San Bonifacio, premiato al concorso nazionale di Arezzo.

Rappresenta una grande soddisfazione, anche perché il mio primo coro è stato un coro maschile come il Novecento. Da quando sono a Verona ho conosciuto registi, coreografi, autori, e ho cercato di spostare la coralità tradizionale verso la parola recitata, il movimento, la spazialità. Questo brano ha sintetizzato questa esigenza. Non è solo una tecnica per stupire il pubblico: musica, recitazione e movimento vengono concepiti insieme e sono parte integrante del linguaggio utilizzato. Come anticipavo nel brano Il silenzio per coro parlato di voci bianche, non è solo la voce a cantare, ma l’intero corpo (si veda a questo proposito la lezione 13 Fare un bel coro dei video pubblicati su youtube).

Nella grande manifestazione Conto Cento Canto Pace, indetta dall’Asac del Veneto nel maggio 2015, hai avuto occasione di dirigere nell’Arena di Verona un mega-coro di 500 uomini. Quali sono state le emozioni di questa giornata straordinaria?

Ripensandoci, prima di sentire il suono vedo gli occhi dei cantori che mi fissano, concentrati al massimo, in attesa dell’attacco. Percepisco l’attenzione palpabile del pubblico, poi arriva il respiro e la voce, la precisione delle sillabe nonostante una massa così grande. La mia preoccupazione era l’intonazione iniziale da far arrivare ai più lontani; il duo fisarmonica e chitarra ha risolto il problema tecnico creando la giusta ambientazione del brano. Tante emozioni, prima durante e dopo e il risultato complessivo ha superato le mie aspettative.

Tu sei sempre stato un direttore di coro maschile, dai tempi del Gruppo Corale Valleogra vincitore di tanti concorsi, al Coro della Brigata Alpina Julia. Cosa pensi della coralità maschile di oggi e del futuro? Quali sono i limiti e le possibilità di un mondo che si lega a tradizioni molto forti, ma che sente anche nuove spinte innovative?

Ho la fortuna di lavorare oggi con giovani direttori di coro maschile molto preparati, che affrontano un mottetto di Palestrina o una invenzione di Pigarelli con la stessa precisione e passione. In Italia alcuni pensano che chi esegue SAT o De Marzi difficilmente possa dirigere un Requiem di Mozart. Questo è fondamentalmente sbagliato. Tempo fa scrivevo «Ci ritroviamo per cantare, o cantiamo per ritrovarci?». Non è un gioco di parole, ma è un setaccio per filtrare gesti e pensieri. La coralità maschile deve chiedersi proprio questo. Pensare più alla musica e meno alla divisa. Anche qui la preparazione del direttore è determinante, e con la preparazione la spinta. Ultimamente sono stato invitato da un coro maschile di derivazione popolare a tenere una lezione sulla fonte orale aperta a pubblico e cantori di altri cori: festeggiare così i cinquant’anni di canto è un segno di intelligenza. 

Ti sei sempre distinto per l’interesse all’elaborazione di canti popolari.

In realtà sono vere e proprie composizioni, perché sono talmente lontane dall’idea originaria che assumono connotati diversi. Chi chiamerebbe musica popolare il Capriccio italiano di Čajkovskij? Eppure è fatto di motivi popolari variati ed elaborati.

Si tratta di una nobilitazione del canto popolare?

Anche la più semplice armonizzazione omoritmica trasforma (per certi versi irrimediabilmente) una melodia dal sapore naïf. Se il compositore incastra questo tema dentro una polifonia complessa chiede al coro le stesse difficoltà che troverebbe nel cantare Monteverdi. L’articolazione, il fraseggio, l’intonazione. Da anni ripeto che non può esistere il coro di canto popolare, perché già nel momento in cui due persone si trovano a discutere dove mettere un respiro è già un’operazione colta e non più estemporanea.

Scrivi anche per coro misto?

Sì, ho composto molto per misto, sia brani da concerto, rivisitazioni dal pop e molto per la liturgia. Essendo organista (e figlio di organista) ho sempre avuto un occhio di riguardo per la musica da chiesa dove serve quella che io chiamo musica d’uso funzionale, che tiene conto delle circostanze e delle reali possibilità dei cori. La mia attenzione è cercare comunque la qualità e un linguaggio personale. Un compositore è un artigiano che sa lavorare con il materiale a disposizione.

Sei stato insegnante in corsi di canto gregoriano e relatore a importanti convegni indetti dalla CEI sulla musica liturgica. Che idea ti sei fatto dell’ambiente della musica corale in chiesa oggi? Si possono realmente conciliare nella formazione e nella scelta del repertorio le esigenze pastorali della chiesa con quelle culturali dei musicisti?

Da buon vicentino non posso dimenticare la grande opera divulgativa di monsignor Ernesto Dalla Libera (1884-1980) organizzatore dello storico 13° Convegno Nazionale della Santa Cecilia a Vicenza del 1923. La musica in chiesa è un argomento che ha portato a forti tensioni. Stiamo pagando la conseguenza di una massima libertà nelle scelte, che ha messo sullo stesso piano disponibilità e specifica competenza. Lo stesso parroco che non esita e contattare il miglior restauratore per la pala e l’ingegnere per sanare le fondamenta della chiesa deve rivolgersi a coloro che sanno rivestire la parola sacra con contenuti musicali consoni o, meglio ancora, elevati. Dovrebbe crescere l’urgenza, la necessità di riportare l’arte nelle nostre celebrazioni. E con l’arte la figura del musicista preparato: compositore, organista e direttore. Da parte nostra serve la qualità e la perseveranza e la speranza che nei seminari ritorni l’insegnamento della musica, dal gregoriano al repertorio ritmico (sempre di qualità).

Spesso sei invitato come presentatore a introdurre i concerti di importanti cori italiani, come il coro della SAT di Trento. Anche questo è un canale privilegiato per la divulgazione?

Dopo una di queste presentazioni una signora mi ha ringraziato per aver finalmente capito la differenza tra armonizzazione e composizione. Ho sempre un pianoforte che mi serve come lavagna. Anziché presentare il brano nel suo significato testuale (il testo è nel programma di sala), preferisco dare dei suggerimenti per seguire meglio l’esecuzione. Un po’ come quando al ristorante si spia dentro la cucina per scoprire cosa fa lo chef. Mi piace parlare del dietro le quinte e spostare il punto di osservazione. Estrarre dal brano un elemento, farlo sentire e chiedere poi al pubblico di cercarlo durante l’esecuzione. A un concerto ho dato questo spunto: «questa sera non ascoltiamo il canto, ma i respiri». In questa maniera si valorizza la musica e si dà un ruolo al pubblico: spesso chiedo di non applaudire, per renderlo ancora più consapevole. Un applauso di dieci grammi non valorizza un brano. Anzi, il silenzio dopo l’accordo finale è necessario, pensate ad esempio a un Responsorio della Settimana Santa… perché applaudire? Mi piace dare dei consigli nella regìa della serata (rassegna o concerto) con una scaletta che preveda meno chiacchiere e ringraziamenti al microfono.

Hai scritto un bellissimo libro, edito da Carrara, che hai titolato Esperienze Corali. Ce ne vuoi parlare?

Ho diretto complessi di tutti i tipi, dalla scuola materna ai licei, dalle case di riposo al carcere, incontrando anche le persone meno motivate al canto: e lì mi son messo alla prova, contro l’indifferenza o la noia. E poi cori e orchestre professionali, la Traviata di Verdi che ho diretto in Corea, prime esecuzioni, raduni corali e l’incontro con cori di altissimo livello. Da queste situazioni ho sempre ricevuto stimoli e insegnamenti che ho riportato nel mio libro. Non è un manuale di direzione, ma una raccolta di esperienze dopo trent’anni di appassionato lavoro. Sono consigli per una operatività pratica, per trovare qualcosa da fare nell’immediato per migliorare il nostro far coro. Vi si troveranno vocalizzi, discussioni sull’economia della prova, tecniche per ottimizzare il rendimento del cantore. Una didattica pratica che va diretta al punto, che vuole trovare soluzioni.

Negli anni hai avuto centinaia di allievi di coro e molti di direzione corale.

Cerco di insegnare un atteggiamento di apertura mentale che porti il direttore a cimentarsi in diversi generi. Insegno ai miei allievi che il cantore non è un tasto di pianoforte: c’è una mente che pensa, accoglie, rifiuta. Prima dell’informazione deve esserci il contagio: il direttore ama ciò che fa, la sua passione deve arrivare anche al cantore più distratto. Ai miei coristi chiedo di sorridere, interiormente ed esteriormente, cosa che non si nota spesso. Chiedo di ascoltare, specialmente generi lontani dal loro percorso didattico.

Perché non dirigi più un coro stabilmente? 

Più motivi. L’interesse per la didattica, la composizione e la divulgazione in generale richiedono molto tempo. Dal 1997 non dirigo più un coro in modo stabile. In Italia un direttore è direttore di quel coro, col quale nasce, cresce e vive rallentando (o annullando) la sua crescita personale. Ho preferito un’attività freelance che mi permettesse di conoscere molti gruppi, associazioni culturali, ensemble strumentali con particolare interesse alla loro formazione di base. Oltre al mondo amatoriale e la scuola dell’obbligo ho cercato il contatto con realtà molto diverse, ad esempio in teatro, con cantanti professionisti, avvicinandomi a registi, autori, colleghi musicisti. 

Tu hai conosciuto da vicino Piergiorgio Righele, a cui oggi è titolata l’Accademia di direzione di coro organizzata dall’Asac. Qual è stato il tuo rapporto con questa figura?

L’editore Carrara, all’indomani della morte di Righele, mi chiese un brano in suo ricordo da pubblicare e scrissi Passer invenit sibi domum basato sul tema gregoriano, suo grande amore. È un mottetto a cappella che riporta questa dedica: «a Piergiorgio, cantore della ritrovata polifonia». A Piergiorgio devo molto. Righele ha insegnato la grande passione per la polifonia a cappella come fatto musicale autonomo, da portare in concerto e non solo vincolato al servizio liturgico. Pensiamo che negli anni Settanta presentava un intero programma di polifonia cinquecentesca. Oppure una parte dedicata a un testo come l’Ave Maria, dal gregoriano a Bruckner. La proposta monografica quindi, arricchita da programmi di sala con note e traduzioni che lui stesso preparava. Un esempio di stile e superiore capacità. Per un ragazzo studente d’organo, che già a quattordici anni iniziava a dirigere la coralità amatoriale di parrocchia, divenne un esempio da imitare. Il nostro rapporto si interruppe a un certo punto, ma volemmo poi riprenderlo, purtroppo poco prima che ci lasciasse.

Ci sono altri personaggi dell’ambito della coralità che ti hanno influenzato o che sono stati importanti per te?

Credo molto importante per un direttore di coro (e un musicista in generale) frequentare non solo colleghi – anche una giuria di concorso non dovrebbe avere solo direttori – ma anche altri artisti e gente di spettacolo. Devo molto al mio maestro d’organo Renzo Buja e al maestro Antonio Zanon, di composizione. Ci sono dei colleghi a cui devo molto, ma anche allievi che mi hanno imposto di prepararmi al meglio. Ho cercato (e cerco) le occasioni che mi obbligavano a vedere e ascoltare le mie convinzioni musicali da altra angolazione. 

Parliamo di futuro: negli anni ha condotto importanti workshop corali con i giovani, come quelli del Festival di Primavera organizzato da Feniarco a Montecatini Terme. Come vedi lo sviluppo della coralità giovanile in Italia?

Il Festival di Primavera mi ha impressionato per la vitalità e la voglia di cantare. Ogni scuola dovrebbe avere attività corale e teatrale. Mettere in moto il corpo umano con le vibrazioni di un suono vocale o di un gesto scenico, di questo abbiamo bisogno! È confortante sapere che, nonostante i pochi contributi economici, le famiglie chiedono e sostengono queste attività. Dobbiamo formare dei docenti che presentino la pratica corale in modo vario, non solo in inglese/americano, ma anche scegliendo il repertorio italiano (ci sono ottimi arrangiatori). Al conservatorio di Verona, nel triennio di Direzione corale, portiamo i nostri allievi in classe, preparandoli prima per delle lezioni/prova alle scolaresche.

Prossimamente cosa ci aspetta?

Sempre divulgazione, tanta, ma anche concerti e l’esecuzione di un progetto compositivo a cui sto lavorando da tempo: la cantata mariana L’Annunciazione su testo di Pasolini che a ottobre sarà eseguita da I Polifonici Vicentini, diretti dal maestro Pierluigi Comparin. Il particolare organico consta di solisti in movimento, coro misto, flauto, corno inglese, violoncello e arpa. Al testo italiano ho affiancato l’antifona latina Ne timeas Maria e la celebre lauda Altissima luce. È l’infanzia di Maria, con un testo sorprendente in cui Pasolini sa descrivere con grazia la fragilità di una ragazza più umana che mai. Inoltre sarà presto eseguito il mottetto Beati quorum via per baritono, coro maschile e viola, scritto per il maestro Giorgio Susana e il suo Corocastel di Conegliano Veneto.

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