Cookie Consent by Free Privacy Policy website

Riflessioni sul modo di comporre per coro
di Pierangelo Valtinoni

Dossier Compositore, Choraliter 62, settembre 2020

Parlare del proprio modo di comporre è sempre complicato. Il rischio, infatti, è quello da un lato di essere troppo tecnici, dall’altro di cadere nell’autoreferenzialità. In ogni modo, sperando di non finire in uno o entrambi i trabocchetti, proverò a farlo.
Come molti amici compositori iniziai lo studio della musica da bambino, perché ascoltare musica mi emozionava più di qualsiasi altra cosa. Ascoltavo quella sacra, eseguita in chiesa dal coro e dall’organo, quella popolare, eseguita dai cori a cappella, e quella trasmessa dalla radio, dalla televisione o riprodotta dai vinili e dalle audio cassette. 

La musica mi piaceva così tanto che, a un certo punto, incominciai a studiarla seriamente, dapprima in privato e poi in conservatorio, imparando a suonare la fisarmonica, il pianoforte e l’organo a canne, e successivamente a dirigere il coro e l’orchestra. Sentivo, però, che la sola esecuzione di musiche scritte da altri non mi soddisfaceva completamente. Volevo ricreare le stesse emozioni che provavo nell’ascoltare o nell’eseguire la musica dei grandi maestri scrivendo io stesso le note musicali. Ed è questo che mi spinse, più avanti, a studiare la composizione.
Le prime cose compiute che scrissi erano destinate al coro a cappella o accompagnato da strumenti, quasi tutte di contenuto sacro e adatte alla liturgia. Poi vennero i pezzi per uno strumento, per gruppi strumentali e per orchestra. E infine l’opera per ragazzi, alla quale, a tutt’oggi, dedico gran parte del mio tempo.
Come tutti i colleghi compositori anche la mia vita da studente fu improntata principalmente allo studio dei grandi maestri, da quelli antichi a quelli moderni e contemporanei. Lo scopo dello studio era di imparare da loro, pur nella diversità dei sistemi compositivi utilizzati, i segreti per generare emozioni attraverso la musica.
La giovinezza del compositore, quindi, non può che essere affastellata di composizioni alla maniera di, ma a un certo punto il compositore deve guardarsi dentro e decidere come creare un proprio modo di comporre facendosi carico delle conseguenze che da ciò derivano. È successo a tutti i miei colleghi ed è successo anche a me. E a un certo punto ho deciso di scrivere nel modo che più ritenevo congeniale alla mia personalità.

A parte qualche rara eccezione, il mio stile è saldamente ancorato alla tradizione dalla quale ho appreso tutto, in primis il senso della forma; tradizione, però, che è stata influenzata da tutto quello che è successo nel Novecento nel campo della musica più complessa (ad esempio le innovazioni di Stravinskij, di Britten o di Ligeti) come in quello della musica meno complessa (ad esempio l’irruenza del Progressive Rock negli anni Settanta).
Anche se, come dicevo poc’anzi, il comporre opere per ragazzi da molti anni è diventata la mia attività principale, le composizioni destinate al coro rimangono un punto fisso nella mia vita da musicista. Non so se la causa sia la folgorazione avuta quando, da bambino, ascoltai per la prima volta cantare un coro, ma è un fatto che, ancora oggi, il suono del coro è il suono musicale che più amo.

Le composizioni per coro di cui vorrei brevemente parlare sono quattro. La prima si intitola Domine, Dominus noster ed è per coro e orchestra. Il testo è tratto dal Salmo VIII. È una composizione del 1993 nella quale, per la prima volta, sperimentai quello che poi sarebbe diventato il mio linguaggio compositivo, che in seguito avrei perfezionato. Domine, Dominus noster si sviluppa come un tradizionale mottetto costituito da diversi quadri collegati tra loro che descrivono quello che il testo dice. Come nella tradizione, le varie sezioni hanno carattere diverso, talvolta omoritmico, talvolta polifonico. Le armonie nascono dalla sovrapposizione di intervalli di terza ma la loro base non è la triade (sovrapposizione di due terze), come nel sistema tonale tradizionale, bensì la pentade (sovrapposizione di quattro terze), che nelle successive composizioni si ridurrà in tetrade (sovrapposizione di tre terze). Il tutto ordinato secondo un rigoroso sistema.

La seconda composizione è intitolata Ad honorem Regi summi, ed è un pezzo scritto per il progetto europeo El Canto, nato in seno all’Internationales Forum Junge Chormusik di Rotenburg (Wümme). Il progetto El Canto aveva il nobile scopo di unire tutti i Paesi europei attraverso la musica corale. Per questo era stato chiesto ad alcuni compositori europei di scrivere una composizione per coro a cappella che in qualche modo avesse attinenza con il Cammino di Santiago de Compostela, quella rete di itinerari che i pellegrini, dal Medioevo in poi, percorrevano attraverso tutta l’Europa per giungere alla cattedrale della città galiziana. Risposi all’invito scrivendo Ad honorem Regi summi, una composizione per coro a cappella a cinque voci (che diventeranno quindici nella sezione finale) utilizzando un altro tipo di linguaggio armonico che avevo già sperimentato in precedenti lavori strumentali. In questo caso il sistema poggia su una particolare scala di sette suoni, sulle armonie realizzate sovrapponendo a un suono uno o più intervalli di quarta e su una fitta rete di interazioni tra scala e differenti zone armoniche.
Il testo utilizzato è l’antico inno medioevale dedicato a San Giacomo tratto dal Codex Calistinus e la composizione si sviluppa attraverso diversi quadri, omoritmici, polifonici, cantati da tutte o solo da alcune sezioni ecc., collegati tra loro.
Domine, Dominus noster e Ad honorem Regi summi sono due partiture molto difficili da eseguire, soprattutto la seconda che, essendo a cappella, richiede una grande concentrazione per mantenere l’intonazione dall’inizio alla fine del pezzo.

Il lavoro seguente, invece, pur contenendo qualche piccola insidia, è eseguibile anche da un buon coro non professionale. Si intitola Much water may not put out love (Le grandi acque non potrebbero spegnere l’amore), porta il sottotitolo Love song from Song of Song (Canzone d’amore dal Cantico dei Cantici), mi fu commissionato nel 2010 dal Festival corale internazionale Voce! ed è per coro a cappella. Il suo testo è tratto dal Cantico dei Cantici ma non è una composizione sacra, come probabilmente nemmeno la splendida poesia messa in musica lo è. Il linguaggio di cui mi servo è quello che ormai uso da molto tempo, lo stesso che ho sperimentato per la prima volta nel lontano 1993 in Domine, Dominus noster. Inoltre, da quanto mi dicono gli amici compositori, c’è un aspetto teatrale in questo pezzo, un elemento non evidente ma nascosto, che traspare anche in altre mie composizioni non di genere operistico. Anche in questo caso il mio lavoro di compositore fu quello di descrivere ciò che il testo raccontava servendomi di un sistema compositivo capace di garantire la coerenza melodica, armonica, ritmica e formale.

L’ultimo pezzo di cui vorrei parlare è la Cantata della Creazione, per soprano, coro, flauto, oboe/corno inglese, violoncello, arpa e organo, commissionato dal Festival Biblico nel 2015. L’idea generale della composizione fu di creare una specie di trittico della gioia, un pezzo, cioè, dove la gioia della Creazione fosse espressa in tre modi diversi: una gioia serena e contemplativa nella prima parte, meditativa ed evocativa nella seconda ed esaltante nella terza. Ecco quindi la scelta dei tre Salmi dove queste suggestioni sono già latenti nelle parole. Diversamente da un pezzo per solo coro o per coro accompagnato dall’organo o dal pianoforte, l’utilizzo di un accompagnamento realizzato da strumenti differenti mi suggerì l’impiego di una forma concertata nella quale tutti i protagonisti avessero la possibilità di dire qualcosa e di interagire tra loro. Il linguaggio, dal punto di vista ritmico, melodico e armonico, è lo stesso di Much water may not put out love ma alla fine della prima e della terza parte è inserita una semplice melodia che, se imparata precedentemente, può essere cantata anche dal pubblico.
I quattro pezzi citati saranno pubblicati prossimamente dalla filiale della casa editrice Boosey & Hawkes di Berlino.

Per concludere vorrei dire che il mio attuale sistema compositivo non tiene spesso in considerazione le moderne tecniche vocali, come l’impiego di particolari modi non ordinari di cantare o la cosiddetta spazializzazione (tecniche che invece ho usato in passato e che, qualche volta, uso ancora nelle opere liriche). Anche se molti miei colleghi le impiegano in modo intelligente e comunicativo, una delle mie scelte compositive è stata quella di preferire il suono dell’oboe o del flauto, ad esempio, nella sua normalità piuttosto che forzare lo strumento nella ricerca dei suoni multifonici. Così come, quando scrivo per coro, preferisco concentrarmi nel cesellare una melodia per renderla cantabile piuttosto che spingere il coro nella realizzazione di effetti speciali che, se non vengono impiegati con saggezza, suonano più vecchi e scontati del cantare ordinario.

Questo sito utilizza cookies propri e di altri siti. Se vuoi saperne di più . Continuando la navigazione ne autorizzi l'uso.