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Il coro nell'universo cinematografico

di Roberto Calabretto
dossier "Il coro al cinema", Choraliter 52, aprile 2017

«A volte esplicitamente espresso, a volte celato e resistentemente riparato anche dagli affondi delle analisi più brusche o cattivanti, a volte velleitariamente sbandierato, il rapporto di mimesi fra cinema e musica e non meno il suo rovescio, il rapporto di mimesi fra musica e cinema, è un gran bel campo di azione critica. Lo è stato e lo sarà sempre di più». Così ricordava il compianto Giovanni Morelli presentando il ciclo Stentoree mimesi. I grandi personaggi della musica catturati dalla rappresentazione cinematografica alla Cineteca Pasinetti di Venezia. L’arte di filmare la musica, non a caso, ha affascinato e coinvolto il cinema sin dalle sue origini ispirando atteggiamenti quanto mai diversi ben circoscrivibili all’interno di alcune categorie e dando così vita a un universo quanto mai poliedrico e variegato.

A pendant con orchestre, pianisti e strumentisti di ogni genere anche le formazioni corali hanno sempre affollato gli schermi cinematografici, divenendo protagoniste di alcuni racconti oppure prestando la loro musica alla colonna sonora di accompagnamento al film.
In queste brevi pagine cercheremo di delineare qualche percorso all’interno di questo universo che si presenta quanto mai complesso e ricco di sfaccettature al fine di offrire un’idea di quali possano essere le potenzialità della presenza di un coro all’interno di un film. Nel fare questo, ci serviremo di alcuni casi assunti come presenza simbolica e rappresentativa, consapevoli ovviamente che molti altri esempi potrebbero essere citati. Il nostro intento in questi brevi appunti, infatti, non è quello di compilare una rubrica quando piuttosto di offrire alcuni modelli poi applicabili a un seguito di situazioni.

Il coro protagonista del racconto cinematografico

Tralasciando i generi cinematografici in cui la presenza di un coro è espressamente richiesta dai codici del genere stesso, come il musical, il coro spesso diviene protagonista di un racconto che verte attorno alle sue performances e alla sua storia. Esemplare, da questo punto di vista, Les choristes (I ragazzi del coro, 2004) di Christophe Barratier che ha riscosso un grande successo divenendo una delle pellicole maggiormente amate dal pubblico degli ultimi anni che, sin dalla sua uscita nelle sale francesi, raggiunse la cifra di ben otto milioni di presenze. Il film, com’è noto, parte con un tradizionale, e forse logoro, flashback che vede Pierre Morhange, un famoso direttore d’orchestra, ricevere una telefonata dalla Francia in cui gli viene annunciato che sua madre è morta. Dopo il funerale, un uomo bussa alla sua porta: è Pepinot con cui Pierre cinquant’anni prima aveva trascorso la sua infanzia in un collegio di rieducazione. Guardando le foto assieme, a un certo punto Pepinot passa a Pierre un diario, scritto da Clement Mathieu, loro sorvegliante all’istituto. Pierre comincia a leggere. A questo punto la storia prende inizio.

All’interno del racconto la musica assume il ruolo di essere uno straordinario strumento di educazione per i ragazzi del collegio vessati dalle punizioni del direttore per cui il loro ritrovarsi a cantare diviene l’unica oasi di felicità concessa dall’istituto. La «fattura sobria e modesta del film», come ha ben evidenziato Roberto Chiesi, mette ugualmente in mostra una narrazione scevra da facili accentuazioni patetiche per cui i sentimenti dei personaggi e dei loro caratteri sono sempre ben controllati dalla mano del regista che sapientemente rifiuta gli effetti e l’invisibilità della macchina da presa ripercorrendo il consolidato e tradizionale «disegno dei personaggi».[1] L’immedesimazione del pubblico con lo sfortunato direttore Mathieu che in quel brutale collegio ha modo di riscattare la vita dei ragazzi con le prove corali, talvolta allestite clandestinamente nelle ore notturne, è fin troppo scontata ma permette di vivere il racconto in stretto contatto con le immagini in movimento sin dall’inizio. Non ultimo la canzone Vois sur ton chemin, vero e proprio Leitmotiv del film e vincitrice dell’Oscar nel 2005, permette al compositore Bruno Coulais di mettere in mostra una delicata pagina musicale che il pubblico ha particolarmente amato.

Il coro voce interiore dei protagonisti

In altri film il coro, pur non essendo il protagonista del racconto, diviene pur sempre un momento centrale della narrazione assumendo la funzione di essere la voce interiore dei protagonisti. Nelle prime inquadrature di Caterina va in città di Paolo Virzì (2003), la protagonista ci viene presentata all’interno di un coro amatoriale alle prese con lo Jubilate Deo di Wolfgang Amadeus Mozart. Questa scena “è preparata” dalla sequenza iniziale che vede il padre di Caterina alle prese con il suo saluto alla classe in cui insegna: una scena commentata dal rumore del gesso sulla lavagna e dal suono della campana che, interrompendo il discorso del professor Iacovoni, rimarca ancor più la sua distanza dagli studenti e il loro totale disinteresse nei confronti delle sue parole. La musica di Mozart, di conseguenza, sembra irrompere con forza in questo squallore e sottolinea il clima di calorosa familiarità che le immagini subito propongono.[2]

La maniera con cui Caterina canta è singolare, nel senso che accompagna la propria voce con dei movimenti danzanti del corpo («allarga le braccia, scuote estaticamente la testa, chiude gli occhi», troviamo nella sceneggiatura)[3] e non con la tradizionale compostezza che contraddistingue le performances dei coristi. Non a caso, al termine dell’esecuzione il maestro la invita a controllare maggiormente il proprio entusiasmo, per quanto apprezzabile.

Una situazione speculare in senso opposto a quella di Mouchette che, nell’omonimo film di Robert Bresson (Mouchette, 1967), non riesce a cantare e a intonare una semplicissima melodia con il coro della propria classe, a sottolineare la sua condizione di emarginata ed esclusa nel contesto della vita scolastica.
La funzione narrativa di primissimo piano riservata alla musica corale nel corso del film di Virzì viene confermata nel momento del rientro della famiglia Iacovoni a Montalto per le vacanze natalizie quando la musica di Mozart compre per la seconda volta. Ancora una volta, il suo ingresso è preparato con efficacia dalle presenze sonore delle scene precedenti.
Queste erano letteralmente affollate dai rumori e dalle grida delle amiche di Daniela mentre passano da un negozio all’altro con l’auto guidata dall’autista-guardia del corpo Marcello, a sottolineare la loro stupida e banale vena trasgressiva. Ancora una volta la sublime polifonia mozartiana, nella sua semplicità che sembra fare pendant a quella dei coristi che intonano le note, irrompe in questa cacofonia sonora: il suo nitore contrasta con le risate volgari e le urla che avevamo ascoltato precedentemente, sottolineando un’incolmabile distanza fra queste due realtà.

Nella sua nuova residenza romana, Caterina ascolta poi a pieno volume un momento del Nabucco verdiano – precisamente il coro Gli arredi festivi le cui parole («Non far che i tuoi figli divengano preda del folle che spezza l’eterno poter…») già si pongono come una deliberata chiave di lettura del racconto –,[4] in uno stato di trance per cui accompagna ancora una volta la musica con i movimenti del corpo e con la propria voce. La musica, un vero e proprio bagno di redenzione che le permette di superare i momenti difficili della sua permanenza a Roma, determinati soprattutto dal perenne sconforto e dalla grettezza ambiziosa del padre che sono enormemente distanti dalla sua dolce interiorità, per Caterina è una vera e propria ragione di vita e, non a caso, la sua ammissione al Conservatorio di Santa Cecilia con cui il film si conclude sancisce il lieto fine della commedia. La musica inizia sulle immagini di Caterina e Cesarino intenti a mulinare le braccia felici e accompagna la conclusione del film che vede un coro di ragazzi esibirsi con l’orchestra. Caterina, ancora una volta, nell’enfasi del canto chiude gli occhi.

Il coro come commento

In altri film, la presenza del coro può assumere un’importante funzione all’interno del racconto divenendo una privilegiata chiave delle dinamiche narrative del racconto stesso. Volgendo la nostra attenzione a situazioni corali di estrazione popolare, pensiamo a Bronte di Florestano Vancini (1972), un film in cui sono descritti gli eventi relativi ai fatti di Bronte dell’agosto 1860 che hanno ispirato la celebre novella di Verga Libertà. Nelle battute finali, l’estraneità delle truppe garibaldine alla realtà del meridione risulta a chiare lettere anche dalla maniera con cui le truppe stesse entrano nel paese, ossia intonando ad alta voce un canto risorgimentale che contrasta proprio musicalmente con quelli del popolo di Bronte. Il conflitto fra le aspirazioni del popolo e quelle delle truppe guidate da Bixio viene infatti espresso a chiare lettere alla fine quando il comandante, di fronte a un bellissimo coro di lamentazioni funebri delle donne siciliane, dichiara di disprezzare queste barbare esternazioni di dolore. Questa piccola sequenza musicale permette così di cogliere la chiave d’interpretazione del film intero. Bixio, infatti, non capendo il modo con cui le donne esternano il loro dolore dimostra di non capire la realtà del meridione, la sua gente e i suoi problemi. Una tesi, questa, che è alla base dell’intero film e che questo breve segmento della sua colonna sonora stupendamente rivela.
Simili situazioni emergono ancor più a chiare lettere nel cinema dei fratelli Taviani, due registi che hanno attribuito alla musica un ruolo importantissimo all’interno della loro poetica cinematografica tout court. Parlando della loro pellicola maggiormente nota, Padre padrone (1977), hanno infatti asserito che in questo film «tutto è legato al suono: lo stormire delle fronde, il ruscello che scorre, il mulo che passa, l’ansimare di una copulazione collettiva; e poi il Miserere sardo confuso con una canzonaccia tedesca, e il Concerto per clarinetto di Mozart che accompagna lo scontro padre-figlio».[5]

Al di là delle funzioni di commento o di sottolineatura, funzioni che tradizionalmente la colonna sonora era chiamata a svolgere nel cinema di quegli anni, in questo film la musica interviene nelle fibre della narrazione dando vita a percorsi audiovisivi di grande interesse. Nella sequenza della processione si ha un esempio emblematico del ruolo del sonoro in questo cinema per cui «costruire una immagine, significa costruirla in rapporto a un suono, che può essere una voce, un rumore, una musica».[6] Lo scontro generazionale in questa sequenza è posto sul piano delle scelte musicali. Mentre i patriarchi seguono il santo intonando un antico canto liturgico di tradizione orale, i giovani, per una volta riuniti assieme sotto il telo che copre la portantina della statua, discutono della loro condizione di subalternità e decidono di emigrare in Germania. Un semplice accenno a una melodia da birreria e subito la canzone («Trink, trink, Brüderlein trink…») invade la scena sonora ponendosi come inno di libertà da contrapporre al motivo liturgico eseguito dagli anziani. Così i fratelli Taviani ricordano la costruzione di questa sequenza: «Abbiamo girato molte inquadrature per raccordare una serie di primi piani dei padri e dei servi pastori, ma, nella fase del montaggio, abbiamo capito che la soluzione era un unico campo lungo dove si vede la processione che si avvicina alla basilica. In questo unico campo lungo, lo scontro tra padri padroni e servi pastori si svolge a livello del suono.
I due canti si contrastano, si sopraffanno a vicenda, fino alla vittoria conclusiva del canto dei giovani pastori. Una sola immagine funge da base all’attrito sonoro fra i protagonisti della scena. L’essenzialità ottenuta anziché impoverire l’immagine l’ha resa ancora più incisiva, almeno così c’è sembrato. Puntare sul suono non ha significato ridurre il valore dell’immagine, bensì il contrario».[7]
Un canto sardo della tradizione liturgica, il Miserere, viene invece impiegato nella prima parte del film per avvolgere il ritratto del padre con in braccio il bambino svenuto a causa delle percosse subite, conferendo un senso epico all’inquadratura che richiama la rappresentazione della pietà. I valori in cui il padre si riconosce sono espressi in questo canto e la scena nella sua drammaticità trascende da qualsiasi aspetto realistico o descrittivo.Le funzioni di commento che la musica corale esercita in questi casi fanno pendant a quelle in cui la musica è usata a livello esterno, ossia non è presente all’interno dell’inquadratura ma all’interno della colonna sonora.[8]
Anche in questo caso i casi sono numerosissimi. Tra i tanti, citiamo il singolare uso fatto nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini (1964) del Gloria della Missa Luba congolese che si presenta sin dallo scorrimento dei titoli di testa del film accanto al Coro dalla Passione secondo Matteo BWV 244 di Johann Sebastian Bach (le cui parole recitano: «Wir setzen uns mit Tränen nieder / Und rufen dir im Grabe zu: Ruhe sanfte, sanfte ruh’! / Ruht, ihr ausgesonnen Glieder! Ruhet sanfte, ruhet wohl»):[9] in questa alternanza, alla manifestazione di una religiosità celeste e gravida di dolore si contrappone quella di un sentimento religioso terreno che sembra sfociare in un gesto coreutico. Non son queste le uniche presenze corali nel corso del film. I momenti della predicazione di Cristo, infatti, sono accompagnati da due canti rivoluzionari russi: Oh ma vaste steppe [Oh la vostra steppa] e Vi zhertvoiu pali [Voi morirete vittime]. Questi canti, espressione della rivoluzione e del socialismo, sottolineano l’immagine di Gesù come rivoluzionario secondo quell’equazione Cristo-Marx che è alla base del Vangelo pasoliniano.

Singolari cori operistici

Molte volte, all’interno della filmografia di registi particolarmente ispirati, il coro non si limita ad adempiere a una semplice funzione di commento ma diviene altresì un vero e proprio elemento della drammaturgia del racconto. Esemplare, da questo punto di vista, Bellissima (1952) di Luchino Visconti che inizia con le immagini di una registrazione radiofonica de L’elisir d’amore, scena IV del secondo atto, di Gaetano Donizetti. Dopo le domande concitate del coro («Sarìa possibile? Possibilissimo. / Non è probabile. / Probabilissimo. / Ma come mai? / Ma donde il sai? / Chi te lo disse? chi è? dov’è»), l’annunciatore diffonde la notizia del concorso cinematografico e una folla di donne accorre al richiamo di Cinecittà. Appare finalmente il regista che fa il suo ingresso trionfale accompagnato dal “tema del ciarlatano”, ossia del dottor Dulcamara, colui che vende illusioni al suo pubblico. Il film è introdotto operisticamente, proponendo l’equazione regista-Dulcamara e assumendo delle tinte molto grottesche che ben mettono in risalto i falsi miti del cinema.

Questo “gioco a specchi” ricorre costantemente nella filmografia di Visconti e, nel rendere la musica un elemento privilegiato delle segrete istanze che animano la poetica di un film, spesso eleva le situazioni corali a essere una privilegiata chiave d’accesso alla drammaturgia filmica. Basti pensare a Senso (1954). La generale struttura del racconto cinematografico è di evidente ispirazione melodrammatica. Si vedano i numerosi coup de thèâtre nei finali d’atto – è il caso del secondo con la fuga disperata di Livia, la sua confessione di avere un amante al marito e la finale rivelazione di Ussoni – e l’architettura simmetrica dei quattro atti – per cui i due centrali presentano delle situazioni a specchio e sono incorniciati da un prologo e un epilogo finale, molto più contenuti anche da un punto di vista della durata.È così che l’apertura sulla rappresentazione del Trovatore si presenta subito come la deliberata proposta della chiave di lettura. «In questa prima sequenza, dopo un’inquadratura frontale sul palcoscenico, la macchina da presa avanza fino al limite della ribalta dove Manrico canta Di quella pira; quindi tenendo in campo il tenore, panoramica fino a scoprire gli orchestrali, parte della platea, dei palchi, e il pubblico popolare che gremisce il loggione. È un capolavoro del punto di vista, operato sul piano della scrittura, che rovescia il melodramma sulla realtà e lo proietta sulla scena della storia».[10]

Tutto il film si svolge come proseguendo questa scena iniziale e il suo tragico epilogo, che porta alla fucilazione di Mahler, ha la stessa pregnanza del finale del Trovatore, quando tutte le premesse si risolvono in una folgorazione. In questa prima scena del film il gioco di simmetrie a specchio caro a Visconti prosegue e, proprio mentre il coro intona «All’armi, all’armi! Eccone presti / A pugnar teco, teco a morir», un patriota tira fuori dal cappotto un pacchetto di volantini tricolori e li passa con circospezione a una ragazza. Il pubblico applaude freneticamente e, mentre in platea l’atteggiamento impassibile degli ufficiali austriaci contrasta con l’entusiasmo dei civili, una ragazza dal loggione lancia con impeto un mazzetto di fiori tricolori e urla: «Fuori lo straniero da Venezia…». A quel punto altri patrioti esplodono e a viva voce fanno pendant con: «Viva la Marmora! Viva l’Italia! Viva l’Italia… Viva Verdi!».Del tutto originale e fuori da qualsiasi schema quanto Federico Fellini realizza in E la nave va (1983), un film i cui protagonisti sono dei cantanti d’opera che salpano a bordo del transatlantico Gloria N. per formare un corteo funebre che darà sepoltura alle ceneri di Edmea Tetua. Il regista riminese, nel dar vita a una silloge di materiali desunti dalla gloriosa tradizione del melodramma italiano, chiama Andrea Zanzotto e Gianfranco Plenizio a ricomporre questi materiali con procedimenti di stratificazione fortemente manieristici che evitano qualsiasi forma di coesione all’interno di un racconto. «Il cinema e l’opera – commenta Roberto Pugliese –, la musica e la Storia: lungo questi temi-ossessioni gli ‘Autori’ srotolano le proprie poetiche della disfatta e della memoria, catalogando ogni emozione e pulsione secondo pratiche dell’immaginario che non corrispondono più a schemi di pretesa ‘libertà espressiva’ ma rientrano invece all’interno di operazioni ricapitolatorie e summatorie minate dalla serialità e, ovviamente, dalla prevedibilità».[11]

Anche in questo film i Cori sembrano essere la metafora della struttura dell’intero film, sin a partire dalle prime immagini che ritraggono il porto di Napoli. «Fra la folla del molo si fa avanti il maestro Albertini, direttore d’orchestra: sciarpa bianca gettata a stola sul soprabito, la chioma argentea sotto il borsalino nero. È un segnale per tutti. C’è un generale disporsi e sistemarsi di tutti i personaggi convenuti. Le bianche mani del maestro sfiorano l’aria e parte la musica. L’attacco è di Fuciletto, ma subito tutti gli altri prendono a cantare con lui. Un coro che accompagnerà tutte le sequenze dell’imbarco e della partenza della Gloria N. […] È proprio l’animarsi improvviso di una rappresentazione musicale, scandita dai gesti eleganti e perentori del maestro Albertini. E tutti, guidati da quelle note trascinanti, si avviano all’unisono alla rapida passerella; la risalgono ‘a tempo’, come in una coreografia, le signore sollevando appena le lunghe vesti; scivolano contro la scura, metallica fiancata del bastimento; si infilano nella paratia spalancata e illuminata».[12]
Da Napoli parte, quindi, una nave i cui passeggeri partecipano a un rito funebre: lo spargimento in mare delle ceneri della cantante Edmea; la dea del canto in cui è facile riconoscere Maria Callas. Si tratta di un rito che, analogamente a tanti altri,[13] ben si addice al mondo dei musicisti. Questa strana crociera deve consegnare al mare le ceneri della regina del canto: «E sembra veramente che con Edmea sia scomparsa la voce stessa della creazione – commenta Zanzotto –, quella che rappresenta ogni armonia innovatrice e conservatrice della realtà.[14] Il mondo e la storia, smarriti, entrano così in un’epoca oscura in cui lo stridore, la disarmonia, il conflitto domineranno».[15]

Il primo Coro nasce da un collage di temi verdiani, giustapposti liberamente, il cui testo è ispirato alla situazione del racconto cinematografico. Citazioni tratte da La forza del destino, un’opera particolarmente familiare a Zanzotto, emergono ripetutamente.[16] Vengono altresì recuperati gli stilemi librettistici a cui si fa riferimento, contestualizzandoli allo stesso tempo in atmosfere decadenti. «Il clima misterioso e mesto si sposa a un’esecuzione un po’ improbabile, quasi improvvisata. La ripresa sonora è talvolta come velata, i piani e i fuochi mutano come per una massa in movimento».[17]
Il secondo Coro compare, invece, nelle ultime battute del film. Dopo la dispersione in mare delle ceneri di Edmea,[18] iniziano i cannoneggiamenti che faranno affondare il vascello partito dal porto di Napoli.[19] Il Coro, pertanto, assume le movenze di un vero e proprio concertato finale, grazie alla ripetizione dei frammenti melodici e al crescendo che porta il racconto verso la sua fine. Il messaggio è veicolato in maniera molto più forte di quanto era stato fatto con il primo Coro: la corazzata austriaca intima che i Serbi vengano consegnati. Il «No, non ve li diam!» assume dei toni perentori, anche se non esenti dall’ironia.
Si giunge così all’epilogo. «Anche l’orchestra si sfa. Il mare invade la nave…»: il viaggio si conclude sulle note di un pianoforte che “intona” il tema de La forza del destino, con l’ultimo accordo sull’ultimo giro di manovella…

Il coro tragico

Parimenti singolare, ma all’interno di percorsi lontani se non all’opposto di quelli dei registi sopraccitati, la presenza dei cori nella filmografia di Pier Paolo Pasolini. Il regista friulano fa ricorso ai cori all’interno della cosiddetta “trilogia classica”, le cui colonne sonore utilizzano canti popolari e musica jazz. Già a proposito di Edipo re (1967), nel corso delle conversazioni con Jon Halliday, Pasolini aveva detto: «In un certo senso [i canti popolari] sono il sostituto di quello che era il coro nella tragedia greca. Naturalmente non potevo interrompere l’azione e mettere un gruppo di persone o una persona sola che facesse i commenti del coro, i cosiddetti stasimi tra un episodio e l’altro, e allora ho deferito a questo canto incessante, continuo e lontano di popolo, la funzione sia pure embrionale di coro».[20]

Se in Edipo i cori tragici sono idealmente sostituiti dalla musica popolare rumena, negli Appunti per un’Orestiade africana (1970) quest’idea viene ulteriormente completata. Nel film vi è un vero e proprio intervento musicale a “livello intradiegetico” di Gato Barbieri (sax), Donal F. Moye (batteria), Marcello Melio (contrabbasso), Yvonne Murray e Archie Savage (cantanti) per leggere “musicalmente” i versi di Eschilo.
Nella sua Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa, Pasolini scrive: «Basti pensare, per esempio, a che stupenda funzione potrebbero avere i cori in un film africano: basta prendere la gente di qualche villaggio (direi senz’altro dell’Africa cosiddetta “sudanese” le cui istituzioni monarchiche, sotto la veste dell’arabizzazione, conservano elementi della monarchia faraonica egiziana, discesa in tutta l’Africa equatoriale del Nord, attraverso la Nubia), e dire a questa gente: “Cantate e ballate”, ed ecco che i cori greci sembreranno rivivere: basterà stampare come didascalia sotto quelle voci “selvagge” che cantano le parole chiarificatrici e evocatrici del coro. Basti pensare a una figura come quella di Cassandra, che prevede, anzi vede fisicamente la propria morte – che avverrà fra poco dentro la casa del Re – e la descrive: anche questo “a solo” di Cassandra potrebbe essere tutto cantato, in quella specie di trance che prende spesso i negri quando cantano. Come si vede, il film in qualche modo rientrerebbe in un genere già familiare ai pubblici: il musical. Ma si tratterebbe di un musical tragico, quella tragicità mistica che è tipica del canto negro».[21]
In Medea (1969) quest’idea trova il suo definitivo compimento. Quando le donne della comunità colchica sono intente a lavorare e cantano coralmente – si tratta di un canto corale polifonico bulgaro –, anticipano gli eventi futuri, ossia l’arrivo degli Argonauti e la sorte a cui andrà incontro Medea dopo aver incontrato Giasone. 

Non a caso il testo di queste canzoni recita: «Cadremo come morti per terra / e quando riapriremo gli occhi / vedremo le cose abbandonate per sempre da Dio. / Mentre staremo pregando / cadremo per terra come epilettici / e quando ci rialzeremo non conosceremo più Dio».[22] La valenza profetica di queste parole è evidente e, non a caso, le scene seguenti vedranno compiersi questi fatti.
L’enorme importanza che Pasolini attribuisce al coro rivela, quindi, un programma che non è meramente cinematografico. Inoltre, quale elemento di primaria importanza, va ricordato che questo uso della musica nell’Orestiade, in Edipo e Medea restituisce a essa una delle principali funzioni attribuite dalla civiltà greca[23] e che Friedrich Nietzsche ha esaltato nella sua Nascita della tragedia dallo spirito dalla musica, come reca il sottotitolo del testo. La presenza della musica, nelle lunghissime sequenze con cui viene organizzata all’interno dei film, riporta quindi al carattere dionisiaco della tragedia dove il linguaggio sonoro diviene portatore di senso, presenza ermeneutica che travalica la parola. In questo caso ci troviamo di fronte a una situazione che difficilmente trova analoghi riscontri ed esalta la presenza del coro all’interno di un racconto filmico portandola a dei vertici di significatività assoluta.

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Note

  1. Roberto Chiesi, Les choristes. I ragazzi del coro, «Cineforum», 2004/44, 440, dicembre 2004, p. 68.
  2. Gianfranco Bettetini mette in risalto le sottili connessioni sonore che uniscono le prime sequenze del film. Dopo la scena delle prove del coro, quella della passeggiata di Caterina con Cesarino vede un delicato dialogo fra il flauto e il pianoforte, mentre l’arrivo della famiglia Iacovoni a Roma è animato dalle voci del cortile e i rumori d’ambiente. La colonna sonora, pertanto, sembra «accompagnare lo spettatore, portandolo per mano all’interno della commedia, facendogli conoscere i protagonisti e motivando le radici delle loro successive evoluzioni: il tutto con delicatezza e con il ricorso ad accenni empatici più che a forzate manifestazioni di coinvolgimento emotivo». Sempre in questo testo, l’autore sottolinea come le componenti audiovisive: «agiscono in simbiosi reciproca e sono destinate a produrre nello spettatore una situazione di appercezione estesica, sostenuta da atti comunicativi combinati e intenzionalmente finalizzati» (Gianfranco Bettetini, Il timpano dell’occhio, Milano, Bompiani, 2009, pp. 87; 95). Analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per quasi tutti i film del regista e, in particolar modo, per La prima cosa bella (2010) le cui prime sequenze sono unite proprio dalla colonna sonora.
  3. Bruni - Virzì, Caterina va in città, Venezia, Marsilio, 2003, p. 17. «Caterina ha Giuseppe Verdi nel cuore e se lo spara in cuffia, figlia della provincia e del melodramma per cui ogni cosa, alla fine, deve tornare al suo posto e l’apparenza non inganna» (Piera Detassis, ivi, p. 6). «La passione di Caterina per il canto e per la musica classica – commenta lo stesso Virzì – sembra che racconti qualcosa del suo carattere un po’ inconsueto e demodè, del suo desiderio segreto e di felicità e di armonia» (Virzì, Dal diario di lavorazione del regista, ivi, pp. 10-11). Così la troviamo anche in uno schizzo disegnato dal regista nella sceneggiatura.
  4. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per il Coro dei servi dal Don Pasquale di Donizetti, «laddove i sottoposti si lamentano allegramente dei capricci dei potenti, [contribuendo] a conferire a questo piccolo dramma personale e familiare una tonalità di tragedia civile e collettiva» (ivi, p. 11).
  5. Paolo e Vittorio Taviani in Ermanno Comuzio, Musica e suoni protagonisti nel cinema dei fratelli Taviani, «Bianco & Nero», XXXVIII/5-6, settembre-dicembre 1977, p. 120.
  6. A colloquio con i fratelli Taviani. L’utopia come progetto concreto, intervista a cura di Vittorio Giacci, «Cinema Sessanta», XVII, 116, luglio-agosto 1977, p. 19, p. 21.
  7. Paolo e Vittorio Taviani, Padre padrone, Bologna, Cappelli, 1977, p. 7.
  8. «Si definisce di livello interno un evento musicale prodotto nel contesto narrativo della scena/sequenza. La sua presenza può essere manifesta oppure dedotta dal contesto. […] Si definisce di livello esterno un evento musicale che si pone in veste di accompagnamento o più spesso di commento, in ogni caso non prodotto all’interno della narrazione e come tale non condiviso da personaggi e spettatori, bensì indirizzato esclusivamente a questi ultimi. […] Avendo presenti i meccanismi che presiedono alla realizzazione di una soggettiva visiva o sonora – in cui il punto di vista o di ascolto dello spettatore passa attraverso quello del personaggio, fenomeno che la filmologia fa rientrare fra i casi di focalizzazione del racconto – è agevole riscontrare un processo simile nel livello mediato, col quale si ha il privilegio di accedere alle sensazioni musicali che il personaggio “ascolta” dentro di sé, sulla spinta di un ricordo o di un’emozione. Affinché l’intervento possa essere definito inequivocabilmente di livello mediato occorre però che in una fase anteriore della narrazione filmica il personaggio abbia potuto udire, anche distrattamente, quella stessa musica a livello interno, avendone assunto così coscienza e memoria, oppure che quelle musica appartenga senza dubbio al suo vissuto (come nel caso tipico di un compositore)» (Sergio Miceli, Musica per film, Milano, lim Ricordi, 2009, pp. 643; 649; 654-55).
  9. Il Coro, momento conclusivo del capolavoro bachiano che aveva reso celebre la colonna sonora di Accattone, è ben descritto da Alberto Basso in questi termini: «Un autentico tombeau è, invece, il grande coro finale Wir setzen uns mit Tränen nieder (n. 78), che sostanzialmente è un’aria col “da capo” liberamente inteso, recante alcuni passaggi in cori “spezzati”; accorato è il tono, perché dolorosa è la circostanza della sepoltura, ma l’invocazione del riposo e l’augurio, anzi, la certezza del poter chiudere gli occhi nel sonno celeste, costituiscono un affabile messaggio di fede sublimato da una scrittura mottettistica essenziale e calda, ariosa e benedetta dalla notte apportatrice della quiete, quella “buona notte” che nel corso del precedente recitativo obbligato a quattro (n. 67) il coro aveva dolcemente invocato con quattro brevi cullanti motti diversamente articolati» (Alberto Basso, Frau Musika. La vita e le opere di Johann Sebastian Bach, vol. 2, Edt, Torino 1979, p. 489).
  10. Luciano De Giusti, I film di Luchino Visconti, Roma, Gremese editore 1990, p. 64.
  11. Roberto Pugliese, E la nave va, «Segnocinema», III/10, novembre 1983, p. 51. Molto discutibile, invece, quanto Pugliese sottolinea a proposito della collaborazione Fellini-Zanzotto. «L’entente cordiale Federico Fellini-Andrea Zanzotto che nel Casanova viveva di improvvise accensioni verbali e mortuari ripiegamenti lirici, qui si semplifica e sfilaccia in annotazioni per così dire a margine dell’opera, non significanti né significate». Motivo per cui ne deriverebbe una rilettura «orgogliosamente kitsch» del melodramma, qui divenuto «rimpicciolimento compiaciuto e pettegolo di tematiche e sentimenti» (Ivi).
  12. Federico Fellini, E la nave va, Copia dattiloscritta della sceneggiatura, p. 36. In queste sequenze iniziali, il film procede mutando i contesti linguistici. «Dal linguaggio del film muto (didascalie che spezzano l’immagine, il bianco e nero, anzi il color seppia, poi il pianoforte di accompagnamento, l’andamento spezzato dei “quadri”) al linguaggio del sonoro, con l’inserimento della voce stessa dei personaggi già conosciuti e dunque al colore, con il primo canto corale di tutti i personaggi e il riferimento diretto alla “verità” del discorso cinematografico, che si basa sul trucco totale (dallo spazio ricreato nel teatro di posa, ai costumi d’epoca attualizzati, al play-back)» (Assunta Bianco, La traccia espansa Ancora su E la nave va di Federico Fellini, in «Cinemasessanta», XXV/160, novembre-dicembre 1984, p. 11).
  13. Si pensi ai pellegrinaggi wagneriani a Bayreuth, oppure a quelli nella tomba di Chopin, solo per citare alcuni tra i maggiormente conosciuti.
  14. «L’un des thèmes les plus importants du film E la nave va (Et vogue le navire), qui s’enchevêtrent en renvoyant les uns aux autres, est celui dela voix. Quelle voix? Avec le bateau, on pourrait aller assez loin dans son identificatuion; peut-être s’agit-il même de cette voix unique et extrême qui, de son impératif, a fait naître le monde et qui confère à toute voix particulière le sceau d’une individualité irrépétable» (Andrea Zanzotto, E la nave va, in «Positif», XLXI/507, mai 2003, p. 104).
  15. Andrea Zanzotto, E la nave va (1983), in Id., Cori per il film E la nave va, Milano, Libri Scheiwiller, 1988, p. 5.
  16. «In particolare, questa [La forza del destino] era per me una musica molto familiare perché la suonavano in paese con l’altoparlante due volte la settimana, come sigla del cinema parrocchiale» (Andrea Zanzotto in Stefano Verdino, Zanzotto librettista di Fellini, in Se quello schermo io fossi. Verdi e il cinema, a cura di Massimo Marchetti e Renato Venturelli, Genova, Le Mani, 2001, p. 42).
  17. Gianfranco Plenizio, Note di copertina dell’LP E la nave va, Fonit Cetra, lpx121.
  18. «Ora tutti i passeggeri della nave sono radunati in coperta per presenziare alla cerimonia funebre […] E l’atmosfera si riempie del canto melodioso della Tetua [il disco propone l’Aria all’inizio dell’Atto III da Aida («O patria mia, mai più ti rivedrò!»)], invadendo il cielo plumbeo che fa da sfondo a quella triste cerimonia. Mentre il vento disperde le ceneri mortali di Edmea Tetua, una partecipazione commossa accompagna il compiersi del rito» (Fellini, E la nave va cit., pp. 130-132).
  19. «Non v’è granché di elegiaco nella mesta cerimonia, durante la quale il vento dissolve nell’aria i resti della mitica Edmea e sulla tolda si leva il canto degli astanti; scompare ogni iato fra realtà e rappresentazione, scivoliamo in una dimensione che è operistica e cinematografica e nella quale è arduo stabilire ove la comune esperienza smetta di essere tale per ornarsi di vesti più seducenti e per dilatarsi» (Mino Argentieri, E la nave va di Federico Fellini, «Cinemasessanta», XXV/155, gennaio-febbraio 1984, p. 56).
  20. Oswald Stack, Pasolini on Pasolini, qui citato da Laura Betti - Michele Gullinucci (a cura di), Le regole di un’illusione, Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991, p. 161.
  21. Pier Paolo Pasolini, Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa. In Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia Pordenone, Cinemazero, 1979, pp. 80-81. Serafino Murri commenta in questi termini le scelte pasoliniane: «La funzione del coro e quella del verso vengono così unificate da un canto libero, irrazionale, ma moderno, a metà strada tra il razionalismo sonoro bianco e l’improvvisazione ‘blues’ degli schiavi neri, un canto angoscioso e liberatorio al tempo stesso: il canto dell’Africa occidentalizzata» (Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Perugia, Il castoro, 2003, p. 117).
  22. Pier Paolo Pasolini, Medea, in Id., Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano, Garzanti, 1991, p. 547.
  23. «Il coro può essere descritto come una Persona collettiva, come un antico parlamento. Esso ha le sue tradizioni, i suoi modi di pensare e di sentire, e un suo modo di essere. Esiste in un certo senso come un’entità vivente, ma non con la penetrante realtà di un essere individuale. Percepisce; ma la sua percezione è allo stesso tempo più estesa e più vaga di quella di un uomo singolo. Partecipa, a modo suo, a quella azione di ricerca che è il tema generale del dramma» (Francis Fergusson, Idea di un teatro, traduzione italiana di Raoul Soderini, Milano 1979, p. 39).
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