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Il coro nella musica di Ennio Morricone

di Stefano Cucci
dossier "Il coro al cinema", Choraliter 52, aprile 2017

Avvicinarsi con un’indagine musicologica all’universo sonoro di Ennio Morricone presuppone prendere coscienza del sincretismo con cui il compositore romano è riuscito a coniugare il linguaggio della musica assoluta e di quella applicata, muovendosi abilmente da un territorio all’altro. Erede della tradizione contrappuntistica di scuola romana, allievo prediletto di Goffredo Petrassi, Morricone ha ben presente che la musica è ancorata al piano dei significati e il weberniano “pensiero comprensibile” si traduce, nella sua produzione sterminata di colonne sonore e di opere cameristiche, sinfoniche e sinfonico-corali, in una costante ricerca di senso.

Da archetipi celeberrimi quali il frammento del Ricercare Cromatico post Credo di Frescobaldi, utilizzato ne La battaglia di Algeri di Pontecorvo, al fiamminghismo del nome di B A C H presente nel tema principale de Il clan dei siciliani e, in forme meno esplicite, in opere di musica assoluta (Totem terzo per fagotto e pianoforte etc.), Morricone prende spunto per progettare strutture compositive dove ogni materiale è giustificato e valorizzato da un attento lavoro di elaborazione.
Pochi compositori di musica per il cinema, perlomeno in epoca recente, hanno riservato alla vocalità corale lo spazio che Morricone le ha dedicato in film di grande impatto quali C’era una volta il West, Il buono il brutto il cattivo, The mission. Questa attenzione particolare all’effetto emozionale che il suono del coro è in grado di produrre, gli deriva anche in parte dall’incontro con i Cori di Didone di Luigi Nono ascoltati a Darmstadt negli anni dei suoi esordi avanguardistici.
In una sua intervista con Umberto Padroni Morricone dichiara espressamente: «[…] i Cori di Didone mi fecero una grande impressione […] capii che non avrei più potuto scrivere due note senza che esse contenessero risposte ad alcuni miei interrogativi».
Proprio questi presupposti si possono rintracciare in una scrittura per coro che, anche nel cinema, sperimenta stilemi della musica colta.
È il caso della partitura composta per La Bibbia nel ’64 e mai utilizzata nel film per scelte del produttore. Nella grande scena della Creazione le voci si sovrappongono progressivamente fino a verticalizzare un gigantesco accordo cromatico che, immobile, funge da sfondo all’articolazione nervosa della trama orchestrale:

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Ma è nella Torre di Babele che Morricone dà sfoggio di grande abilità contrappuntistica impegnando il coro in un parlato ritmico a 22 parti reali che, come in un suggestivo affresco sonoro, rappresenta l’intricata babele linguistica della storia biblica:

Con una gamma dinamica che dal ppp arriverà al fff il compositore richiede ai coristi una estrema precisione nell’articolazione del testo e nella divisione “solfeggistica”. Nulla è lasciato al caso o a una pratica esecutiva aleatoria.
Il testo in ebraico è reso con una fitta sovrapposizione di pulsazioni ritmiche, e il coro deve cimentarsi in una sorta di caleidoscopica trama di timbri e dinamiche. Come in un gigantesco ingranaggio le sillabe pronunciate con chiarezza concorrono alla creazione di un brusio che si agita progressivamente fino alla ripresa concitata delle ultime sei battute orchestrali.
Con una funzione diversa e con risultati completamente differenti la massa corale assolverà anche in futuro compiti descrittivi e coloristici utilizzando una scrittura a fasce, e talvolta una divisione in doppio coro. È il caso del film Sacco e Vanzetti diretto da Giuliano Montaldo nel 1971 in cui, nell’esempio riportato, il coro contrappunta armonicamente la melodia solistica:

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Già qualche anno prima (1969), nel bellissimo film La tenda rossa di Kalatozishvili, Morricone aveva usato una struttura compositiva a fasce con armonie statiche, sotto la quale gli archi ripropongono frammenti del tema principale.
Il coro dovrà rigorosamente rimanere ancorato ai suoni lunghi con una respirazione in sezione che dovrà eliminare ogni accento, pur sottolineando con leggera espressione le note dei cambi di armonia.
Nella stessa partitura il coro assume anche una funzione più prettamente lirica, con una esplicita inclinazione al commento epico, un gesto vocale sostanzialmente omoritmico e un’arcata espressiva più lunga e definita:

Sarà però nell’epopea western di Sergio Leone che il Maestro sperimenterà in maniera emblematica la “funzione epica” del coro. In verità l’incontro con il regista, a suo tempo compagno di scuola del compositore, segna un momento di svolta nel linguaggio della musica per il cinema. Non solo per l’uso della voce ma anche e soprattutto per la disinvoltura quasi sfrontata con cui la partitura, di impianto fondamentalmente sinfonico, assumerà spesso connotati pop in un funzionale equilibrio linguistico.
L’introduzione di effetti, di strumenti insoliti, di procedimenti compositivi mediati dalla musica colta, originerà dei topoi inconfondibili nello stile di Morricone. Queste nuove colonne sonore costituiranno uno spartiacque, ci sarà un prima e un dopo nella storia della musica da film del secolo scorso.

Ne Il buono, il brutto e il cattivo, in C’era una volta il West e in Giù la testa le voci, trattate come una grande sezione di strumenti a fiato, creano un fondo armonico di estrema risultanza sonora, contrappuntato dalle smaglianti melodie dei corni e dalle incalzanti pulsazioni degli archi (memorabile la sezione da battuta 101 a 120 della partitura orchestrale, che simula in maniera quasi onomatopeica la cavalcata nelle praterie del far west), che esaltano le immagini a campo lungo e i primi piani inconfondibili dello stile di Leone.
In Giù la testa il coro si cimenta in un difficile episodio in re bemolle maggiore con una scrittura di impianto seriale che impegna i coristi in una rigorosa scansione ritmica, pur nella morbidezza dell’emissione vocale. Le sezioni si inseguono in una costellazione di punti luminosi che accompagna la dolcissima melodia principale intonata dai fiati.

Morricone userà ancora questo tipo di effetto in Vittime di Guerra di Brian De Palma (1989), ma costruendo linee melodiche a lunghe arcate che si sovrappongono e si urtano in dissonanze di non facile intonazione, particolarmente per le voci maschili.

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Diversamente, in Quemada di Gillo Pontecorvo il compositore affida al coro una ritmica e ossessiva ripetizione della parola abolisson, costruita in modo antifonale e spinta nelle estremità del registro sopranile. In questa pagina corale di grande effetto le voci sono sostenute dalla sezione di percussioni e da un ostinato di violoncelli e contrabbassi, con un costante intervento dell’organo. La sezione ritmica (batteria, chitarra e basso elettrico) spinge la composizione nella direzione di una sempre più energica ed entusiasmante declamazione della parola che, nel progressivo innalzamento della tessitura vocale, arriva a una vera e propria apoteosi sonora. Il grido del popolo schiavo si eleva così a livello di sacrale invocazione di diritti e di libertà.

Con il film The Mission del 1986 Morricone in qualche modo chiuderà i conti con la scrittura per così dire “epica” riservata alla massa corale in tante sue partiture, dedicando però al coro alcuni splendidi lavori di musica assoluta quali Voci del silenzio del 2001, Vuoto di anima piena del 2008, la Missa Papae Francisci del 2015. In The Mission il compositore sovrappone due formazioni corali, un gruppo di voci folk e un grande coro di impostazione chiaramente mottettistica. Al coro folk è affidata una ritmica elaborazione di uno dei temi principali della colonna sonora. Con una articolazione frastagliata e una energia selvaggia, le voci folk si oppongono al coro grande con il grido disperato del popolo Guaranì, eroe e vittima nella grandiosa epopea del film di Joffe.
Il coro grande impegna le voci di soprani e tenori in regioni estreme della tessitura, contrappuntando altri importanti temi della partitura. Ne risulta uno dei più grandiosi affreschi sonori della storia del cinema, che consacra la vocalità nel ruolo di insostituibile strumento emozionale.
Nelle innumerevoli occasioni in cui ho avuto modo di concertare questo splendido brano con cori di diversissime provenienze e impostazioni vocali (non importa se iperprofessionali come il coro della Radio Televisione di Mosca o giovani ed entusiasti come i ragazzi dello Stockholm Musikgymnasium Choir), ho sempre potuto constatare la forza comunicativa che è racchiusa in questo inizio sommesso, in cui le voci femminili intonano la melodia galleggiando sulle armonie della sezione maschile che le sostiene come fossero violoncelli e contrabbassi. I contrappunti interni dei contralti assumono una funzione importante di articolazione del fraseggio che il Maestro, in prova, non si stanca mai di sottolineare.In queste prime dodici battute è racchiuso tutto il materiale compositivo, che si illuminerà progressivamente con cambio di clima espressivo introdotto dalle percussioni e dall’ingresso delle voci folk. La scrittura per coro di Morricone non è mai indulgente con le sezioni sopranili e tenorili (lo testimoniano numerosi lavori di musica colta, non ultima la Missa Papae Francisci) e anche in The Mission ne abbiamo ripetutamente conferma, ma il risultato è sorprendente, e tutti i cori hanno sempre affrontato con slancio la fatica dell’esecuzione, premiati dalla gioiosa apoteosi del finale.

Se dovessi in poche battute, alla fine di questo breve excursus fra le sue partiture corali per il cinema, sintetizzare il valore dell’attività compositiva del Maestro (del quale ho l’onore di essere collaboratore da quindici anni) potrei dire che coerenza e dedizione sono alla base del suo lavoro creativo. La sua duplice attività di compositore per il cinema e per le sale da concerto lo ha sempre costretto a controllare l’aspetto sensuale della materia sonora, così facile a essere irretita dalla logica del gusto, con il filtro attentissimo di un intellettualismo talvolta di maniera. Non sempre infatti gli esiti sono stati felici, e il cinema lo ha costretto a ripiegare su lidi meno sperimentali e più rassicuranti, così come alcune opere da concerto non hanno superato i limiti della autoreferenzialità.
Va riconosciuta comunque a Morricone la tenacia nel voler giustificare sempre il lavoro di scrittura, con la tecnica e la costruzione di un senso mirato alla comunicazione. Proprio questo mi sembra oggi l’oggetto principale della sua ricerca, e la sintesi a cui è arrivato il suo linguaggio può indicare una rotta a chi verrà dopo di lui. Potrà anche testimoniare come solo la sapienza e la consapevolezza storica della nostra tradizione musicale possano salvare la musica dai suoi distruttori.

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