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La vita cantata
Oblio e memoria del canto popolare

di Puccio Pucci
Canto popolare, Choraliter 51, dicembre 2016

Ho chiesto a Chiara Sirk, valente musicista e critico musicale, laureata in musicologia, referente della Fonoteca del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna e che pubblica in prestigiose riviste quali Lyrica, Symphonia, Orfeo, CD Classica, Amadeus, Falstaff, Medioevo, International Early Music Review, oltre che a cantare in un coro dal 1998, di offrire ai cori amatoriali del popolare uno spunto per indurli a esprimersi sul repertorio in cui riversano tante energie. Il tema da lei proposto ha un taglio più “esperienziale” che scientifico, come lei stessa ha scritto, ma li riguarda direttamente e comunque non è privo di spunti su cui meditare.

Di cosa cantassero i miei genitori ho un’idea assai vaga: per fortuna, essendo veneti giuliani, il canto, soprattutto di mia madre, in casa c’è sempre stato. Noi, la parte femminile della famiglia, a squarciagola intonavamo le classiche canzoni di montagna, pur provenendo i miei da una città di mare. Era, quindi, un repertorio “generalista”, che poi avrei ritrovato nei campi estivi della parrocchia, nei libretti di varie associazioni cattoliche e anche nei libri scolastici di “educazione musicale”. 

Cosa cantavano i miei nonni non lo so. Quindi, guardando alla mia esperienza, di memoria familiare, basta saltare una generazione per non avere più idea di quale fosse un patrimonio di canti condiviso. Posso pensare che tutti cantassero La mula de Parenzo, arrivata vitalissima fino a noi, ma cos’altro? Certamente qualche canto da osteria non sarà mancato, e anche qualche canto mutuato dal repertorio “leggero” dell’epoca, ma di veramente “tradizionale” cosa intonavano? Cosa si era conservato di quel patrimonio di musiche per particolari occasioni (feste religiose, ricorrenze familiari), per momenti della vita (nascite, morti, la fatica del lavoro, le gioie e i dolori dell’amore e altro) che sempre esiste in una comunità? 

A me non è giunto nulla e temo di essere in buona compagnia. Anzi, mi chiedo quanti siano i fortunati che oggi hanno imparato, metabolizzato, convivono con la memoria di un repertorio tradizionale della loro comunità d’origine. Ci salverà Quel mazzolin di fiori? O il rispolverato (dato l’anniversario della Prima guerra mondiale) Ta-pum ci aiuterà a uscire dall’oblio che dilaga? Ancora una volta la risposta penso sia negativa. 

Questi non sono canti della “tradizione” popolare, che spesso prevede l’uso del dialetto, di riferimenti a luoghi precisi, a consuetudini particolari. Questi sono diventati canti “tradizionali” senza, in realtà esserlo e, stante che in fase di apprendimento spesso la scelta va a canzoni straniere o provenienti dalla musica leggera, potremo assistere, di qui a breve, anche alla loro scomparsa. Del resto il discente, qualunque sia l’ambito (scuola, gruppo, associazione), impara da un docente. Se il docente è predisposto ad andare incontro ai gusti dei giovani e giovanissimi è probabile che nei concerti di Natale risuonerà, di qui a breve, l’Hallelujah di Leonard Cohen al posto di Quanno nascette Ninno. Ci sono tendenze che difficilmente possono essere modificate. Chiedersi se vadano verso un arricchimento di chi canta o verso un’omologazione generale sarebbe opportuno. Richiamare tutti a una riflessione è imprescindibile.

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