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Canti di lavoro e sul lavoro

di Dino Coltro
dossier "I canti del lavoro", Choraliter 46, aprile 2015

La tecnologia e la meccanizzazione agrarie hanno fatto scomparire i canti ritmici del lavoro, un tempo diffusi in tutta Europa. Dalle nostre parti, la memoria generazionale ne riporta soltanto qualche modello. Quella dei cosiddetti Canti di lavoro è una categoria assai ampia e (come tutte le categorie che dall’esterno sono state adottate per la classificazione del materiale comunicativo popolare) in parte arbitraria. Infatti si è soliti far rientrare sotto la definizione di canto di lavoro non soltanto quei canti specifici che vengono utilizzati per ritmare il lavoro (soprattutto collettivo), ma anche quelli che sono destinati ad accompagnare o alleviare la fatica e la noia del lavoro, individuale e collettiva.

A) Canti-ritmo

Santo Michele (Ritmo dei battipali)
Questo canto era «usato, fino a pochi anni fa, dai battipali della laguna veneta» (Leydi, pag. 296).
«Figuriamoci sei o otto uomini raccolti in un gruppo attorno a un palo mezzo dentro e mezzo fuori della belletta; tutte quelle sedici braccia nerborute tengono afferrato un grosso e pesante cilindro di legno; uno d’essi intona un verso della canzone; a quell’invito tutti gli altri in coro fanno eco colla voce, mentre sollevano in alto e lasciano piombare il battente che cade sonante sul palo, nel punto che il ritornello finisce; di modo che quei colpi formano per così dire il metro che misura in cadenza la loro barbara musica… Ma lo spirito di patria o di religione le domina tutte quante; e v’han sempre dentro allusioni o a vittorie riportate, o a sdegni con nemiche nazioni, e principalmente co’ Turchi, che i Veneziani aborrirono mai sempre come i loro più acerrimi nemici. Vi si nominano ordinariamente il Signore Iddio, la Vergine, San Marco, e quasi tutti i santi del martirologio, se il canto si prolunga per alcune ore di seguito»
(Pulle, Jacopo Vincenzo Foscarini, pag. 139).
«I battipali veneziani avevano acquisito una tale maestria nella loro specialità da possederne praticamente il monopolio. Infatti erano chiamati a eseguire lavori di palificazione anche in zone lontane dalla Laguna e noi li ritroviamo a Cavarzere, Porto Tolle, Ariano Polesine, Pontelagoscuro (Fe) nonché a Trieste dove (secondo quanto riporta Adolfo Leghissa in Trieste che passa) il cantore-guida (el matadòr) incitava i lavoratori pronunciando un Eh! soltanto a metà della frase, quando cioè il maglio si trovava in cima alla capriata, perché evidentemente il colpo sulla corona del palo coincideva con l’ultima sillaba del verso»
(Cornoldi, pag. 397).

Canto dei battipalo

Oh, lài…

Santo Michele eh!
Pesa le anime oh!

Giusta le tiene eh!
Pesela giusta oh!

L’anima mia eh!
Coma la vostra oh!

Salva la sia eh!
Lassiami in alto oh!

Sono lo santo eh!
Del Paradiso oh!

Ma indove fanno eh!
Gran festa e grido oh!

Ma indove fanno eh!
Gran festa e canto oh!

Ma Gesù Cristo eh!
Signore nostro oh!

Quello che ha fatto eh!
Ma il paternostro oh!

Quello che ha fatto eh!
L’avemaria oh!

Ma dal formento eh!
Sorge la spiga oh!

Ma dalla spiga eh!
Sorge lo grano oh!

Viva San Marco eh!
Gran venesiano oh!

Quello che tiene eh!
Ma l’arma in mano oh!

Ma per distrugiere eh!
Il turco e il cano oh!

Ma giovenoti eh!
Mo’ xe ferma oh!

Ma poi vi canto eh!
L’avemaria oh!

Zò!
(Venezia)


Canto di pescatori

Ed – e tiorte i remi e voga
che femo sta calà

Se – se no se ciapa gnente
no tornaremo a cà

A cà – a cà senza mangiare
no no se puol tornar

Cia – ciaperemo un’anguèla
la spartiremo in tre.

Eh – prendi i remi e voga
che facciamo questa calata (di reti).

Se – se non si prende niente
non torneremo a casa.

A cà – a casa senza mangiare
non si può tornare.

Cia (Pre) – prenderemo un’anguilla
la divideremo in tre.
(Chioggia, Venezia)

B) Canti sul lavoro

In questa seconda categoria rientrano le canzoni che, in vario modo, fanno riferimento al lavoro e alle condizioni di lavoro. Non vi è dubbio che nel numero di queste ultime hanno risalto le canzoni della risaia, sia quelle originali, sia quelle che derivano da prestiti di altre canzoni. Le caroze fanno parte del repertorio della risaia, in una versione defunzionalizzata, ma l’originale è una canta di nozze. La melodia gioiosa di un canto d’invitati serve bene a esprimere la diversa allegria, ma altrettanto sentita, del ritorno a casa della mondina. Così, molte canzoni epiche o militari sono servite come prestito testuale o melodico al canto della risaia. La condizione della mondina è sostanzialmente quella del soldato: il reclutamento, l’abbandono della casa, la lontananza dei propri cari; la tradotta che sbuffa verso paesi per lei sconosciuti; l’obbedienza e la sottomissione alla caporala, al padrone dale bele braghe bianche; la fatica non sempre equamente ricompensata; la nostalgia, il moroso lontano, la lettera che mai non arriva, il ritorno… con le caroze!

Senti le rane che cantano
Senti le rane che cantano
che gusto che piacere
lasciare la risaia
tornare al mio paese
lasciare la risaia
tornare al mio paese.

Amore mio non piangere
se me ne vado via
io lascio la risaia
e ritorno a casa mia
io lascio la risaia
e ritorno a casa mia.

Non sarà più la capa
che mi sveglia a la matina
ma là a casa mia
mi sveglia la mamina
ma là a casa mia
mi sveglia la mamina,

Vedo lagiù tra gli alberi
la bela mia caseta
e vedo là su l’ussio
la mama che mi aspeta
e vedo là su l’ussio
la mama che mi aspeta.

Mama papà non piangere
non sono più mondina
a fare la contadina
sono tornata a casa
a fare la contadina.
(Povegliano, Verona)

Medi el meo

«Il méo, cioè il miglio (panicum miliaceum), è una graminacea coltivata sia in veste di cereale per ricavarvi granella sia di foraggera. Dalla granella si ottengono modesti quantitativi di farine con cui confezionare alimenti per l’uomo, il resto è usato come becchime per polli o uccelli. Questo ai giorni nostri, ma nel Medio Evo e fino all’epoca dell’introduzione del mais e del riso ebbe, come cereale, notevole importanza alimentare per l’uomo. Senza contare che, anche in tempi recenti, le papete de méo venivano usate per scopi medicamentosi. La mietitura era fatta a mano, con la messora (lat. missoria falx); la battitura col verzèl (lat. virga), uno strumento costituito da due bastoni uniti da una correggia. Il più lungo era brandito e mulinato in maniera che l’altro colpisse il grano steso sull’aia e liberasse i chicchi dalla pula. L’impastatura era fatta a mano, lavorando a lungo la pasta per poi cucinarla nel forno domestico o sul focolare coprendola con il testo (lat. testu).
Le due protagoniste della canzone sono la nuora, Meorina, e la madona, termine ancora oggi in uso, soprattutto nell’ambiente contadino, per designare la suocera. La canzone veniva cantata, o meglio interpretata, da due donne, preferibilmente di diversa età.
E di fronte all’incalzare della suocera che ripeteva i suoi imperativi (bati el méo, impasta el méo, ecc.), sorda alle richieste della nuora, meno temprata alle fatiche e desiderosa di marendar, di consumare cioè la colazione portata con sé, la voce di quest’ultima diveniva sempre più fioca fino allo spegnersi completo» (B. Chiappa).

Medi el méo, Meorina (bis)
poi marendarem (bis)
poi marendarem Meorina
poi marendarem…

L’ho medù, Madona (bis)
olìo che marendem? (bis)
olìo che marendem, Madona?
olìo che marendem?…

Bati el méo, Meorina (bis)
poi marendarem (bis)
poi marendarem Meorina
poi marendarem…

L’ho batù, Madona (bis)
olìo che marendem? (bis)
olìo che marendem, Madona?
olìo che marendem?…

Impasta el méo, Meorina (bis)
poi marendarem (bis)
poi marendarem Meorina
poi marendarem…

L’ho impastà, Madona (bis)
olìo che marendem? (bis)
olìo che marendem, Madona?
olìo che marendem?…

Côsi el méo, Meorina (bis)
poi marendarem (bis)
poi marendarem Meorina
poi marendarem…

L’ho cosù, Madona (bis)
olìo che marendem? (bis)
olìo che marendem, Madona?
olìo che marendem?…
(Isola della Scala, Verona)

A la matina bonora

«Questo canto deriva (?) da quello notissimo degli scariolanti delle bonifiche romagnole» (Paiola, p. 383).
Una versione, riportata dal Cornoldi (pag. 189), risulta molto simile a quella romagnola (cfr. F.B. Pratella, Etnofonia di Romagna, pag. 94) e sembra sia stata importata in tempi relativamente recenti «dai braccianti adibiti al rafforzamento degli argini del Delta, perché in quelle zone (Adria, Loreo, Ariano) era facile l’incontro con i lavoratori ferraresi e romagnoli» (Cornoldi, pag. 189). Si cantava anche nella Bassa Veronese (D. Coltro, Paese Perduto).
In questa canzone «l’adattamento locale è evidente anche per la presenza del vocabolo ezemponeri che deriva dal tedesco Eisenbahnbauern, operai addetti alla costruzione delle ferrovie. Questo elemento colloca il canto in connessione con l’emigrazione veneta in Tirolo» (Paiola, pag. 383).
«È interessante notare che fino al 1896 l’emigrazione transoceanica verso l’America, e quindi da ritenersi permanente, era nettamente superiore a quella verso i paesi europei, quindi temporanea; dal 1897 fino al 1914, l’emigrazione verso il centro Europa è di gran lunga superiore.
Si forma la corrente dell’emigrazione temporanea verso i centri industriali della Germania o presso le grandi opere pubbliche o private che si costruiscono in quel paese: partono muratori, sterratori, manovali, facchini. È lo sciame uscito dalla massa dei disoccupati che si muove a trovare lavoro. La Prussia, come suona dall’espressione del popolo migrante, è un miraggio che brilla sempre più in quegli anni» (G. Quintarelli, Uno sguardo alla storia della economia veronese nel secolo della Cassa di Risparmio, in «La Cassa di Risparmio della Città di Verona e un secolo di economia veronese», Verona 1925, pag. 86).
Il giudizio del popolo sul miraggio che brilla doveva essere diverso se, ancor oggi, per mandare in malora qualcuno, la nostra gente dice: «va in Prussia» (D. Coltro, I leori del socialismo, pag. 182). Da notare ancora come siano introdotti nella terza e quarta strofa il timore della ragazza verginela e la risposta dell’emigrante che troviamo in una nota canzone della guerra 1915-18, Di qua e di là del Piave.
La canzone ha, inoltre, la struttura del contrasto, diviso in strofe.

A la matina bonora
si sente le trombe suonar.
Lerilerà.
Saranno gli ezempòneri
che vanno via.
Ciombolalilailela,
Ciombolalilailà.

Mi si ca vegnaria,
ma dove mi condurai?
Lerilerà.
Ti condurò di là del mare,
dall’ezempòner.
Ciombolalilailela,
Ciombolalilailà.

Ma quelo che io ti prego,
ti prego di non mi tocare.
Lerilerà.
Perché son verginela,
da maritare.
Ciombolalilailela,
Ciombolalilailà.

Se sei da maritare,
dovevi dirlo prima.
Lerilerà.
Le figlie dei ezempòneri
non han marito.
Ciombolalilailela,
Ciombolalilailà.
(Asiago, Vicenza)

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Il presente articolo è estratto dal capitolo “Preghiere e canti rituali del lunario”, tratto da Dino Coltro, Mondo Contadino. Società, lavoro, feste e riti agrari del lunario veneto, Arsenale Editore, Venezia 1982.
Pubblicato per gentile concessione degli eredi.

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