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Senza pensieri e senza affanni
I canti di lavoro in forma corale

di Giorgio Susana
dossier "I canti del lavoro", Choraliter 46, aprile 2015

Le elaborazioni in forma corale dei cosiddetti canti di lavoro possono essere raggruppate in due categorie. Alla prima appartengono tutti quei canti, e le relative elaborazioni corali, che presentano generalmente elementi ritmici, spesso ripetitivi, piuttosto evidenti che in origine concorrevano a raggiungere lo scopo per cui sono nati: aiutare il lavoratore a trovare il ritmo adeguato a svolgere le sue mansioni. Alla seconda quelli che, richiamando il nome di un lavoro, hanno come protagonista il lavoratore stesso, coinvolto nella sua sfera sentimentale, nella sua vita e nei rapporti con la società. Anche in questi canti, seppur diversi dai precedenti, l’elemento ritmico, anche nelle elaborazioni corali, è presente ma non determinante ed essenziale. Generalmente i canti di lavoro non hanno accompagnamento strumentale. Nati infatti il più delle volte sul luogo di lavoro, chi li ha intonati per primo si è servito forse dei rumori di fondo dello stesso lavoro per farne un accompagnamento alla propria voce. E i compositori, che li hanno elaborati in seguito, hanno intelligentemente e sapientemente mantenuto fede a questo aspetto affidando le loro composizioni ai cori a cappella.

È chiaro che i pochi esempi di canto popolare di lavoro ritrovati si perdono nella notte dei tempi poiché la modernità, le nuove tecniche di produzione e le nuove professioni hanno fatto perdere l’esigenza di cantare mentre si lavora. Pensiamo inoltre a quanta musica oggi ci circonda, e a quanto spesso ci serviamo della musica degli altri, mediante i moderni mezzi tecnologici, per alleviare le eventuali fatiche durante il lavoro quotidiano… Purtroppo esistono pochi esempi di musica corale di ispirazione ed elaborazione di questi canti e ancor minore è il numero di composizioni originali per coro che trattino in qualche modo il tema del lavoro. Sono quasi tutti riferibili a elaborazioni, tra l’altro di non recentissima pubblicazione, scritte per cori popolari (conosciuti erroneamente anche come cori alpini). Di conseguenza sono brani in prevalenza per organici a voci pari (maschili, più raramente femminili). Pochi soprattutto se li rapportiamo al numero cospicuo di canti appartenenti alle altre categorie: d’amore, canzoni a ballo, serenate, canti sociali, politici, ecc… Mi limiterò pertanto, in questa sede, a prendere in considerazione e analisi le composizioni e gli arrangiamenti per coro maschile. Certamente il repertorio del coro della SAT di Trento fa da padrone, sia per la variegata e vasta tipologia di canti e di elaboratori illustri, sia per essere stato tra i primi, in Italia, a suggerire l’idea di elevare il canto popolare a musica colta.

L’armonizzazione che Antonio Pedrotti fa di El caregheta, il seggiolaio ambulante che girava nella ristretta zona fra Primiero e Passo Cereda, utilizza le regole tradizionali dell’armonia. È una vera e propria armonizzazione al canto dato, in stile omoritmico che esalta, mediante la quadricromia del coro, il carattere allegro e scanzonato della melodia originale. È questo un caso di canto di lavoro in cui protagonista è lo specifico caregheta. Il ritmo della musica infatti non sottolinea quello dettato dall’atto lavorativo ma quello del suo stato d’animo di lavoratore ambulante a contatto con la società (e soprattutto con le putèle bèlè), come più volte cita il relativo testo… Di Pedrotti merita una menzione, anche perché lo ritroveremo in altri autori, il canto de Gli aizinpòneri, gli operai addetti alla costruzione della ferrovia in Valsugana nel 1894. Gli Eisenbahner, da cui poi per assonanza aizimpòneri, si alzavano la mattina presto all’alba al suono di una tromba. Pedrotti affida ai soli baritoni, all’unisono, l’intonazione del canto, come per descrivere il suono della tromba solista. Il carattere della musica, e della semplice ma efficace armonizzazione del Pedrotti, richiama alla nostalgia presente, qua e là, in tutto il testo. Anche il finale che raggiunge il do acuto, con i tenori in falsetto, forse allude a un desiderio di libertà e di ritorno alle cose e alle persone care… La raffinata elaborazione di Andrea Mascagni per il Canto di marinai, canto popolare americano tradotto in italiano dallo stesso Mascagni, grazie a un perfetto contrappunto imitativo (canone) tra tenori e baritoni descrive il movimento dell’acqua e il lento sovrapporsi delle onde del mare. È un’immagine che si crea mediante un efficace effetto sonoro (molto caro agli antichi madrigalisti). 

Nella seconda parte, in corrispondenza delle parole soffia il vento gelido l’autore propone uno stretto imitativo delle voci per evidenziare l’agitazione del mare causata dalla tempesta

Anche qui la nostalgia, forse maggiormente presente a causa del pericolo e della lontananza, si fa percepibile e Mascagni la enfatizza con profonde e lunghe note dei bassi di sostegno ai contrappunti delle voci superiori. Nel Canto del boschiero, di Renato Dionisi, si respirano le difficoltà, la fatica del lavoro quotidiano. Anche questo è un canto in cui l’elemento ritmico non c’entra nulla con il lavoro in questione quanto piuttosto con i sentimenti del personaggio protagonista del canto (Dionisi aggiunge la pittoresca dicitura calmo ma elasticamente nell’indicazione agogica iniziale… chissà…). È evidente la velata malinconia del protagonista nascosta dall’orgoglio di essere un boschiero e che si manifestata cantando (ma sempre alegro canta ’l boschier – un esempio, questo, di canto nel canto…). Dionisi fa uso, come sempre nelle sue elaborazioni, di contrappunti in tutte le sezioni del coro senza tralasciare nessuno e grazie piccoli movimenti cromatici delle parti riesce a muovere e rendere sempre viva e nuova l’armonia… E che dire della sua bellissima elaborazione di Girolemin o canto dell’arrotino? Dionisi fa emergere qui, grazie alle sue competenze tecniche di compositore, la leggerezza della molla che gira – e forse della spensierata vita del giovane arrotino – con una successione di accordi che, nelle prime dieci misure, non sono mai allo stato fondamentale. Si ha la sensazione che le armonie siano sospese in aria, come appese a un filo, su un pedale acuto dei tenori primi…

Anche Mauro Zuccante, per il Coro della SAT, ha elaborato una versione simile di questo canto. Si tratta di Ul mulèta. La provenienza non è trentina ma della Valdossola in Piemonte. Testo e melodia sono però molto simili all’esito ritrovato in Val Rendena. L’elaborazione di Zuccante non sacrifica l’elemento ritmico che imita la molla che gira, ma arricchisce l’armonizzazione rendendola più suggestiva e facendo perdere a volte, in chi la ascolta, l’equilibrio tonale su cui è impostata. Sempre di Renato Dionisi troviamo pure l’elaborazione di un altro canto trentino, El careter. Anche in questo caso si tratta di un canto che descrive il carrettiere, nello specifico personaggio e non in generale, la sua vita spensierata, la sua giovinezza e i suoi amori… (senza pensieri e senza afani). Dionisi asseconda qui il carattere gioioso e giocoso dell’originale melodia popolare; ne evidenzia alcuni particolari (ad esempio insistendo molto sul ritmo puntato). Interessante la discesa cromatica del basso e del baritono nella parte finale in corrispondenza delle parole senza pensieri e senza afani. Anche il compositore piemontese Giampiero Castagna, sulla falsariga di quella di Dionisi, ne ha fatto un’ottima elaborazione per coro maschile. Interessante specie per l’uso di più tonalità nelle strofe e per il gran finale con l’utilizzo di azzeccati accordi alterati che creano una potente resa sonora ed espressiva.
Luigi Pigarelli nel suo Il canto del minatore (canto popolare trentino della Val di Sole), utilizzando una semplice e tradizionale armonizzazione, sottolinea le faticose e pesanti condizioni del minatore, con piccoli ma efficaci accorgimenti: con il cambio di modo dal maggiore al minore tra le prime due strofe, improvviso e repentino, si crea un contrasto piuttosto forte che rende perfino drammatico il carattere apparentemente trionfante e spensierato della prima strofa.

Paol Bon, nel suo repertorio appartenente alla Nuova coralità – una ricerca, avvenuta tra gli anni ’60 e ’70, frutto di una laboriosa sperimentazione con l’obiettivo di far rivivere il folklore in modo nuovo e ricercato – conta alcuni esempi di canti di lavoro. Tra questi spicca sicuramente Ohi zater. Il canto per sole voci maschili, scritto integralmente da Paolo Bon senza prendere spunto da alcun tema popolare arcaico, trae la sua ispirazione da suggestioni raccolte nell’archivio della Biblioteca Civica di Belluno studiando l’organizzazione della corporazione degli zatterieri bellunesi (fine del ’400 ca.). Essi avevano il compito di far fluitare legnami provenienti dal Cadore e dal Bosco del Cansiglio, lungo la Piave fino a Venezia, per le costruzioni navali della Serenissima Repubblica. Di questo brano vale la pena di prendere in considerazione il prezioso canone della seconda parte sulle parole para qua, para là, la zata va. Si tratta di un doppio canone (bitematico ma con un rapporto di imitazione nell’incipit) per doppio coro a 6 voci. A ogni periodo del canone la tonalità si sposta di un tono all’acuto seguendo un rigoroso ordine di entrata delle voci. Bon, in una intervista con chi scrive, afferma di essersi in qualche modo ispirato al Canone per Tonos de L’Offerta musicale di J.S. Bach. Si tratta di uno dei canoni più ingegnosi della celebre opera del compositore tedesco che presenta l’indicazione enigmatica Ascendenteque Modulatione ascendat Gloria Regis (Che la gloria del re salga come salgono le modulazioni), riferito ovviamente al Re Federico Secondo di Prussia al quale Bach aveva dedicato questo lavoro. Al di là della conosciuta e apprezzata bravura e dell’ingegno di Paolo Bon è interessante, per quel che ci riguarda, soffermarci sull’effetto, voluto dallo stesso autore, che questo canone crea nell’ascoltatore. La resa sonora infatti vuole descrivere la spinta continua regolare e alternata su entrambe i lati della zattera con lunghi pali di legno. Forse ispirandosi a questa immagine Paolo Bon ha scelto di usare il doppio coro che dialoga secondo un preciso ordine di entrate. A questo brano si riallaccia, solo per tipologia di mestiere, Lous Tilholes sempre di Bon. Si tratta di un canto del sec. XVII dei battellieri di Bayonne (Guascogna). Il canto è in antica lingua d’oc. Qui l’elaborazione con il ritmo puntato del primo tema, binario-composto del secondo, i continui ritardi nella risoluzione del tema, che scandiscono la ripresa di ogni strofa, sembrano annunciare una imminente sconfitta ma nel contempo fanno risaltare la fierezza dei battellieri, con il loro capo, in testa mentre vanno accompagnandosi al ritmo di Tra la la la la…

Un altro brano di Bon da segnalare è sicuramente I’ meta, I’ meta. Anche qui siamo di fronte a un tema popolare, un antichissimo canto della mietitura diffuso nelle campagne pugliesi e abruzzesi. E anche in questo caso l’elaborazione di Bon è ricca di particolari, sapiente uso del contrappunto e dei rapporti tonali che danno, a questo semplice canto monostrofico, un risultato complessivo di grande pathos. Bon aggiunge un interessante accompagnamento alla melodia (affidata ad alcuni tenori primi) reiterando insistentemente l’elemento melodico che caratterizza il modo lidio della melodia originale. Le voci si intersecano, si imitano, si chiamano e si cercano tra loro su un incipit che presenta una doppia appoggiatura accentata. Qui Bon è davvero abile nel descrivere la scena: la calura estiva della campagna pugliese; la fatica del lavoro contadino sotto il cocente sole; il movimento regolare di una falce che miete il grano; e infine la rabbia di questo sfortunato contadino a cui non è promessa in sposa la figlia della padrona (tutte le grane ie li voje scippaje!). Anche nel repertorio del Coro Stelutis di Bologna, curato da Giorgio Vacchi, compaiono alcune elaborazioni di canti popolari di lavoro. Il magnanello, canto emiliano, Il ciabattino, per coro misto, Siam calderai, interessante soprattutto per la parte iniziale nello stile del recitar cantando affidata a un solista su accompagnamento accordale del coro. L’elaborazione di Vacchi, per questa categoria di canti, certamente più interessante è quella per Il canto dei battipali. Si tratta di un canto veneziano le cui strofe erano inventate di volta in volta per dare il ritmo al durissimo lavoro dei battipali (cioè coloro che piantavano le bricole per la segnaletica dei canali, paletti, o paline per l’attracco delle barche, sostegni di pontili, vieri per gli allevamenti dei pesci e dei mitili). Il canto serviva a ritmare l’alzata e la caduta del maglio, operato a mano. Vacchi mediante un’introduzione descrive l’ambiente lagunare in una giornata nebbiosa, all’alba e alla sera, cioè quando chi effettuava questo lavoro raggiungeva i cantieri con barche a remi. Vacchi usa procedimenti paralleli di quinte vuote (bassi e tenori primi) con glissati alternando il primo con il quinto grado armonico di si bemolle maggiore. Da questo breve preludio si innesta la melodia affidata ai due solisti, ritmati dall’accompagnamento del coro, che, nell’emissione delle voci, esprimono la fatica.

Angelo Agazzani, per la Camerata Corale La Grangia, nella sua incessante e preziosa ricerca di canti popolari, documentazione ed elaborazione corale, ci propone invece un’altra interpretazione del canto dell’arrotino (già trovato in Dionisi e in Zuccante). Si tratta qui della figura del Siador (o falciatore) che riprende la stessa linea melodica, facilmente riconoscibile nonostante le piccole varianti, del girolemin e del muleta o molita. Agazzani interpreta in un altro modo ancora il ritmo circolare (ma in questo caso non della molla bensì della falce) per mezzo di una imitazione stretta tra baritono e basso sin dalle primissime battute. 

Nel vasto repertorio del Coro Monte Cauriol, che comprende anche qualche canto di lavoro, troviamo Gli scariolanti. Si tratta ancora una volta della melodia, nota per i trentini e di cui già accennato sopra, de Gli aizinpòneri. Ma qui il canto sarebbe noto in Romagna (e non in Trentino!) come canto di lavoro durante le opere di bonifica costiera iniziate ai primi dell’Ottocento (e in questo caso gli operai sarebbero addetti a guidare una carriola…). È curioso dunque come ogni regione si appropri, con una nota di orgoglio, a un determinato canto, ne cambi il testo, ne modifichi la melodia o il carattere musicale adattandolo di volta in volta alle circostanze a cui esso si lega, e addirittura venga documentato come canto originale di una determinata regione… Anche Armando Corso, direttore e arrangiatore di quasi tutti i brani del Cauriol, riprende l’idea di Pedrotti affidando a un solo l’ingresso del canto (come si diceva sopra per ricreare una sorta di madrigalismo sulle parole si sente una tromba suonar). Ma Corso antepone a ciò una piccola introduzione che anticipa in qualche modo l’armonizzazione del ritornello (accordi omoritmici in tempo ternario). Il ritmo ternario sottolinea anche in questo caso, come in altri già visti, la circolarità e la ripetitività delle azioni (volta e rivolta e torna a rivoltar). Nelle armonizzazioni del Cauriol che accennano ogni tanto alle elaborazioni con introduzione di materiale originale, si trovano spesso effetti sonori che servono a sottolineare determinati elementi del testo. In questo caso ad esempio appare una breve sequenza di triadi affidate ai falsetti al termine della frase si sente una tromba suonar (chissà perché Corso ha scelto le triadi a mo’ di block chord o voicing, tipico dello stile jazz, quando nel testo si accenna invece a un solo strumento…). 

Gianni Malatesta, fondatore del Coro Tre Pini di Padova ed eccellente elaboratore di musica per il suo coro maschile, apprezzato per la fusione corale e un modo nuovo di intendere la vocalità popolare dei gloriosi anni ’50-‘60, accenna ai canti di lavoro con un paio di brani: All’erta muratori (Val d’Ossola) e La caselanta (canto cremonese). Sono anche in questo caso brani che potremmo far rientrare tra quelli che servivano ad alleviare le fatiche del lavoro.

Descrivono infatti situazioni di vita vissuta, come altri già analizzati in questa sede, personaggi, sentimenti, situazioni… Colpisce però in Gianni Malatesta la sua capacità nel saper far funzionare perfettamente, attraverso la sua scrittura semplice, chiara e tradizionale, le voci di un coro. Le parti scorrono fluide sotto un attento e costante procedimento per moto contrario che rende l’armonia varia e piacevole. Anche i canti popolari dalle linee melodiche più scontate, grazie alla prolifica penna di Malatesta, diventano piccoli gioielli che donano luce e calore all’insieme corale e ne facilitano la resa e l’esecuzione anche da parte dei cantori.
Da Villa di Chiavenna arriva invece il canto I pica sass, artisti e semplici artigiani dediti all’estrazione e alla lavorazione della pietra. Particolare e degno di menzione questo canto sicuramente perché accompagnato, in origine, dalla percussione ritmica di due sassi tra loro con un ritmo ternario (alternanza di longa e brevis). È questo un caso dunque di canto di lavoro che incentiva il lavoratore a compiere la sua mansione seguendo un determinato ritmo (sottolineato ancor di più in questo caso dalla percussione). La frizzante elaborazione di Armando Franceschini, ha mantenuto fede a questo originale accompagnamento ritmico che è stato ripreso e inserito in determinati punti della partitura. L’illustre musicista trentino inizia la sua composizione con un piccolo ritornello di quattro misure dal ritmo singhiozzante (parole spezzate dalle pause) che si ritroverà ripetuto a ogni strofa del brano. 

Nell’armonizzazione, in stile omoritmico, le parti procedono serrate tra loro (il range vocale supera di poco le due ottave) spesso con leggere e piacevoli dissonanze per moto parallelo e con frequenti incroci. L’effetto esecutivo che ne deriva esalta il colore scuro, rotondo e pieno delle voci maschili. Sciur Padrun, che troviamo nel repertorio del Coro Paganella, veniva cantato, in origine, durante la monda nelle risaie del Vercellese e Novarese. La stessa melodia e lo stesso testo figurano però anche nelle cosiddette canzoni di naja. A sottolinearne quest’ultimo aspetto concorre sicuramente l’efficace elaborazione di Riccardo Giavina che usa come introduzione l’arpeggio sulla triade di do, affidato alle voci gravi, e il ritmo di semicrome in risposta alle voci acute (procedimento tipico di molti arrangiamenti delle fanfare militari).

L’elaborazione tutta, anche perché affidata a un coro maschile e non a uno femminile come potrebbe suggerire invece l’originale destinazione del canto, presenta un carattere fiero e solenne: bassi e baritono procedono spesso per quinte vuote parallele (do-sol), su un ritmo rigoroso, mentre le voci acute in terze parallele a valori più stretti. L’armonia è tonale con un sapiente uso di accordi alterati. Il ritmo di semicrome, presente comunque nell’originale melodia e ben utilizzato da Giavina nel corso della sua elaborazione, rende brillante l’esecuzione di questo brano.
Di ben altro carattere è invece il canto Mamma mia (mi son stufa) nell’elaborazione corale di Angelo Mazza. È una delle più belle canzoni di filanda proveniente dalla Brianza. Si tratta in questo caso di una canzone di protesta di epoca fascista. L’elaborazione di Mazza esalta il carattere triste e malinconico della melodia originale. Il modo minore qui contrasta con il maggiore di quasi tutta la totalità dei canti di lavoro. Mazza divide le parti del coro addirittura fino a sette, con l’uso di dissonanze e scontri armonici tra le parti. Usa spesso note di pedale sia al grave che all’acuto. Il climax del brano viene raggiunto a metà circa quando il brano si apre improvvisamente, dopo diverse battute in sol minore, verso un apparente do maggiore (che in realtà è la dominante secondaria del IV grado armonico di do minore, tonalità del IV grado di sol minore). Questo solare do maggiore in realtà esalta il desiderio della ragazza, protagonista della storia, che si sfoga con la mamma perché sottomessa a svolgere un duro lavoro e sottoposta a rigorosi e continui controlli. In ultima analisi vorrei accennare alle composizioni originali del trevigiano Roberto Padoin su testi poetici di Andrea Zanzotto: Justaombrele (ombrellaio), Moleta (arrotino) e Conzhacareghe o Caregheta (seggiolaio). In queste poesie, tratte dalla raccolta Mistieroi, il poeta trevigiano ricrea, con l’efficacia immediata del dialetto, un’immagine viva di umili mestieri della passata civiltà contadina.

Roberto Padoin, filtrando con competenza e stile strumenti appartenenti alla retorica musicale dei madrigali antichi, ha creato delle splendide composizioni che fanno uso di un linguaggio tutto nuovo ed estremamente personale e piacevole. Sapiente è l’uso di madrigalismi e della modalità. Effetti corali, non sempre di facile esecuzione, che esaltano le potenzialità del coro maschile, spingendo a volte le voci verso limiti acuti o gravi non facilmente eseguibili da tutti i cori. È chiaro, per concludere, che la trattazione di questo argomento meriterebbe una più ampia e approfondita analisi dei testi, una maggiore considerazione degli autori e delle musiche scritte per questo argomento (e per questo chiedo scusa a tutti quei compositori illustri e operosi che non sono stati nemmeno nominati). Lascio pertanto, a chi vorrà proseguire questo lavoro, il compito di approfondirne la ricerca o di sviluppare ulteriori considerazioni su quanto citato in questo articolo, integrandolo magari anche con le elaborazioni di canti di lavoro di altri paesi del mondo… 

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Bibliografia

Roberto Leydi, I canti popolari italiani, Oscar Mondadori, Verona, 1973.
Gruppo Nuovocorale Cesen, Nuova Coralità, LP, Valdobbiadene, 1978.
Nanni Svampa, La mia morosa cara-canti popolari milanesi e lombardi, Ed. Mondadori, 1980.
Angelo Agazzani, Camerata Corale La Grangia di Torino, Canti popolari del vecchio Piemonte, Torino, 1981.
Coro della SAT, Canti della montagna, Ed. Curci, Milano, 1982.
Coro Paganella, Voci e Armonie, Ed. Carrara, Bergamo, 1994.
Coro Monte Cauriol, Il canzoniere, Sagep Editrice, Genova, 1995.
Coro della SAT, ’Ndormenzete popin, Fondazione Coro della SAT, Trento, 1997.
Montecimon Choir, Contemporary Coral Music of Venetian Composers, Rainbow Classics, CD, 1998.
Coro della SAT, Un anello d’oro fino, Fondazione Coro della SAT, Trento, 2010.
Coro Vetta, Armonie in Valle, Ponte in Valtellina, 2011.

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