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Paolo Bon tra arcaico e nuova coralità

di Manolo Da Rold
Dossier Compositore, Choraliter 50, agosto 2016

Uno degli ultimi incontri con l’amico Paolo Bon avvenne al teatro La Sena di Feltre (Bl) durante la presentazione del volume di elaborazioni di canti per coro maschile …e nell’aria si sentiva… [1] redatto a quattro mani dallo scrivente e dal maestro Sandro Filippi. Fu proprio in quella occasione che l’amico Paolo pronunciò le seguenti parole: «Cari amici, l’etnomusicologo e l’archeologo fanno esattamente lo stesso mestiere; ambedue hanno come scopo primario poter dimostrare scientificamente che una deduzione logica corrisponda a una realtà concreta; quindi ambedue ricercano le fonti e poi…» con il suo caratteristico e simpatico accento misto tra veneto e toscano… «e poi si scava amici cari e si lavora a volte con pala e piccone a volte con un semplice pennello per ripulire, quanto ritrovato, dalla polvere del tempo».

Questa plastica metafora connota in maniera precisa l’approccio scientifico del maestro Paolo Bon con l’universo dell’etnomusicologia, in particolar modo con il canto popolare. E già qui inizia una prima precisa distinzione a cui Paolo Bon teneva tantissimo, distinzione che oggi tutti noi quasi riteniamo logica ed evidente proprio in merito ai suoi insegnamenti, ma che fino a qualche anno fa non aveva nulla di scontato. L’espressione canto popolare è certamente vaga e imprecisa, in essa vengono racchiusi diversi generi musicali: non dobbiamo dimenticarci la distinzione fondamentale che c’è tra il canto scritto per il popolo o popular music, e il canto proveniente dal popolo o folk music; in questa distinzione le lingue anglosassoni, come si vede, ci vengono in aiuto. Alla prima grande famiglia appartengono tutte quelle musiche nate dalla penna di un autore (passato o contemporaneo) che evidentemente tratta temi molto vicini alla sensibilità e soprattutto al gusto comune del popolo di una determinata zona geografica e/o di un particolare momento storico; alla seconda famiglia appartengono invece quei canti le cui origini si perdono nella notte dei tempi e che oralmente sono giunti fino a noi e di cui oggi riceviamo un’esecuzione a volte molto trasparente e a volte intrisa di contaminazioni linguistiche, storiche e geografiche; è proprio a questa seconda famiglia che Paolo Bon ha dedicato tutta la sua vita di ricercatore musicale [2]. 

In un articolo apparso ne La Cartellina Bon approfondisce in maniera esaustiva questa distinzione fra canti di ispirazione popolare ed esiti arcaici affermando che i primi rivelano una personalità legata alle caratteristiche dell’autore (più o meno fatua, o decadente, o sciovinista solo a volte convincente) e per questo motivo possono apparire belle, il canto arcaico invece fa vibrare le corde più profonde dell’animo umano perché «non viene fuori da noi, ma è sepolto in noi» come facesse parte del nostro DNA: l’arcaico è il sedimento di pulsioni ancestrali che precedono l’umano, «il canto arcaico non è bello, è vero!» [3]. 

Paolo Bon definisce un approccio assolutamente nuovo allo studio del canto popolare che va oltre gli esiti del lavoro di ricerca dei suoi colleghi operanti nella seconda metà dello scorso secolo: Roberto Leydi, Diego Carpitella, Sergio Liberovici, Bruno Pianta e altri, i quali si sono limitati a un’analisi prevalentemente storico-sociologica [4] del canto di tradizione orale; Bon a questi lavori affianca un’analisi evoluzionistica, filogenetica, trattando meloi e harmoi arcaici e la loro evoluzione come «meri organismi biologici» in continuo divenire. Lo studio di carattere prettamente evolutivo di Bon prende le mosse identificando un nucleo monotonico, ovvero un tono primordiale che definisce nucleo tono noumenico (secondo l’accezione kantiana del termine noumeno) che successivamente chiamerà anche generatrice diatonica da essa, secondo una logica estremamente razionale scientificamente descritta nella sua opera più conosciuta La teoria evolutiva del Diatonismo e le sue applicazioni: mediante una perturbazione correlata alla complessità delle componenti armoniche del suono stesso, ovvero dal tono noumenico fisso o statico, si perviene al tono fenomenico o perturbato o dinamico (come avviene quando si getta un sasso in uno stagno dalle acque immobili innescando una serie di reazioni fisiche facilmente descrivibili). 

Nasce così la prima scala formata da due suoni, e, attraverso la scala ditonica prima, tritonica poi, si perviene alla scala pentatonica che assumerà un ruolo molto importante a livello planetario per poi giungere alle scale più recenti a noi ben note. Illuminante è stato l’intervento di Paolo Bon durante il convegno di Lamon [5], simposio in cui egli ha posto il sigillo delle sue tesi circa il canto di tradizione orale che descrive come un «corpus estremamente ricco e articolato di moduli arcaici» [6] di meloi e harmoi, un enorme patrimonio ancestrale (enorme ma ovviamente finito) che si è evoluto fino ad arrivare a noi. Evoluzione dei moduli arcaici, non storia del canto popolare: storia ed evoluzione hanno in comune solamente lo scorrere del tempo ma, specifica Paolo Bon, la storia la fa l’uomo come soggetto, l’evoluzione la compie la natura e l’uomo diventa oggetto dell’evoluzione stessa (v. foto seguente) [7].

Conservo vivo il ricordo di Paolo che con la sua voce baritonale intonava Oh Susanna, un esito, a suo dire, sicuramente arcaico perché costruito su di una antica scala pentatonica tipica dell’area gaelica e approdata negli odierni Stati Uniti in seguito alla colonizzazione europea; esito le cui origini si perdono nella notte dei tempi… «…cari tosati altro che canto western!». Gli esiti orali arcaici, secondo Paolo Bon, seppur finiti, sono veramente moltissimi. Spesso su di essi si sono stratificati durante lo scorrere del tempo elementi strettamente correlati al luogo in cui questi esiti sono stati raccolti, con influenze della musica strumentale arcaica, della parlata del luogo, delle tipicità culturali e perché no, anche attraverso singoli “talenti” umani che hanno modificato e reso più articolate quelle formule

Ecco che qui rientrano in gioco le parole illuminanti di Paolo: [8] «L’etnomusicologo e l’archeologo fanno lo stesso mestiere…»; è compito dell’etnomusicologo «scavare e ricomporre i cocci» mediante il prezioso ausilio delle fonti orali e comprendere le caratteristiche peculiari di un esito, in primis capire se sia veramente arcaico.

Altro affascinante esempio portato al convegno di Lamon, e poi spesso riproposto in altri contesti dal maestro, consisteva nell’ascolto dell’esecuzione del Coro SAT di Trento del brano struggente e mesto Siam Prigionieri nell’efficacissima elaborazione di Renato Dionisi e l’esecuzione subito dopo di uno scanzonatissimo Viva l’amor dallo spiccato profumo di osteria cantato dal Gruppo Nuovocorale Cesen: elaborato da Paolo Bon e da lui stesso diretto. Sovrapponendo le due linee melodiche si capisce che il modulo arcaico è esattamente lo stesso, e questo è possibile proprio perché il melos originario consiste in una struttura astratta, neutra, dall’essenza (cito sempre le parole di Paolo Bon) «quasi metafisica», mentre è la diversa semantizzazione a caratterizzare l’andamento, il carattere e il tema del melos arcaico. In questo caso, diversamente che nella musica scritta, la parola viene dopo il suono (v. foto seguente) [9].

Un’altro significativo esempio l’ho estrapolato dall’introduzione ad opera proprio dell’amico Paolo, al quarto tomo di Cantar Storie, fortunato e ammirevole progetto in cui numerosissimi esiti arcaici hanno incontrato la penna dei migliori elaboratori italiani che hanno lavorato pensando a tutti gli organici corali possibili. Dal bellissimo progetto, nato grazie all’incontro tra il maestro e l’etnomusicologo direttore e compositore ossolano Luca Bonavia, ho tratto questa comparazione tra La Dosolina, brano reso celebre dal coro SAT nell’elaborazione di Antonio Pedrotti, ma anche nella versione per voci bianche e pianoforte di Cecilia Vettorazzi e l’altro celebre esito E la mia mamma la va al mercato (v. foto seguente) [1']

Per concludere esistono poi eclatanti casi in cui a esiti arcaici musicali diversi (anche dal punto di vista della suggestione globale) corrisponde lo stesso testo, come nell’esempio sottostante:

Diventa facilmente deducibile quanto la cultura popolare, intesa come proveniente dal popolo, abbia influenzato durante tutto il suo sviluppo, la storia dell’uomo o ancora meglio quanto la cultura orale-gestuale, prima cultura, sia stata estremamente importante per lo sviluppo della cultura scritta, seconda cultura. A volte è difficile tracciare una linea di demarcazione tra le due esperienze umane e gli esempi sono veramente tantissimi, pensiamo solamente alle Suites inglesi di Johann Sebastian Bach, o più anticamente alla produzione di Guillaume Dufay o di Orlando di Lasso o pensiamo alle decine di messe scritte utilizzando come cantus prius factus l’antica melodia di tradizione orale l’Homme Armé [11]. Il tutto si conchiude nel momento in cui prendiamo piena coscienza del fatto che la cultura scritta, definita seconda cultura è stata, per secoli e secoli, “figlia” dalla cultura orale o prima cultura; con la coniazione del termine folk da parte dello studioso Ambrose Merton si percepisce che, in una determinata fase della storia umana, vi è una rottura tra prima e seconda cultura [12], divenendo quest’ultima “indipendente” particolarmente durante l’epoca romantica (periodo in cui spesso l’artista non è figlio del popolo, ma appartenente a una classe nobile o agiata) [13]. A ricucire questo strappo culturale ci penseranno grandissime figure della musica del primo novecento come Béla Bartók oppure Zoltán Kodály che ridaranno ai meloi arcaici, riutilizzandoli nelle loro composizioni, nuovo «respiro cosmico» sempre usando le parole del compianto Paolo. E In italia? Anche in Italia la cultura orale ritorna a fondersi con la cultura scritta in ambito musicale. Antichi archaiòi tìpoi verranno assunti come modello e punto di riferimento per la nascita di una Nuova Coralità (così la battezzò il maestro Paolo) in cui gli etnomusicologi incontrano i compositori e i direttori (spesso le tre figure sono sintetizzate in un unico soggetto proprio come nel caso di Paolo Bon). 

Fondamentale fu l’opera pionieristica del coro della SAT di Trento [14] che per mano di grandissimi musicisti, “cristallizzò” antichi esiti orali trasformandoli in veri e propri intramontabili capolavori della musica corale. Ma il lavoro fu immenso, decine di compositori si sono dedicati con successo all’arte dell’elaborazione [15] e molti ricercatori hanno dedicato la vita alla raccolta e all’archiviazione del materiale di tradizione orale, ne cito uno fra tutti: Giorgio Vacchi [16]. Oggi noi godiamo di grandi archivi organizzati da cui poter attingere e in cui possiamo vivere la storia respirando suggestioni e colori che ci conducono a ritroso in un tempo indefinito, ma ancor più profondamente ci portano a conoscere meglio noi stessi. Le numerosissime recenti pubblicazioni dedicate al canto di tradizione orale, alcune edite anche da Feniarco [17] [18], l’immenso lavoro già citato Cantar Storie [19], le decine di altre importanti pubblicazioni, la continua produzione di elaborazioni su esiti orali nei concorsi di composizione e l’interesse vivo e produttivo dei compositori giovani e di quelli già affermati ci fanno comprendere perfettamente quanto sia stato profondo il solco lasciato da Paolo Bon e dalla sua Nuova Coralità nella storia di tutta la cultura corale italiana.

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Note

  1. Manolo Da Rold - Sandro Filippi, …e nell’aria si sentiva, Varese, Sonitus, 2013, pag 2.
  2. Paolo Bon, L’esperienza orale nell’arte musicale scritta, dattiloscritto recante appunti per il Convegno La nostra Storia e il nostro pensiero nel canto di tradizione orale, Lamon il 26 giugno 2005, pp. 1-2.
  3. Paolo Bon, L’arcaico e la falsa oralità, in «La Cartellina» 184, Milano, Edizioni Musicali Europee, 2009, pp. 31-40.
  4. Roberto Leydi, I canti popolari italiani, Arnoldo Mondadori, Milano, 1984.
  5. Convegno organizzato dall’Asac Veneto nel 2005 con gli interventi, oltre a Paolo Bon, di Luca Bonavia, e di Giancarlo Brocchetto alla Guida del coro Monte Coppolo.
  6. Il termine arcaico accompagnerà sempre il pensiero di Bon come paradigma del suo pensiero.
  7. Paolo Bon, Lezioni di diatonomia (linguistica musicale), dispense dattiloscritte, 2006, pag. 5.
  8. Parole pronunciate da Paolo Bon al Teatro la Sena di Feltre nel 2013 serata in cui sono intervenuti anche Sandro Filippi, Pievito Malusà, Marcello Zanin e Manolo Da Rold.
  9. Paolo Bon, L’eperienza orale nell’arte musicale scritta in «La Cartellina» 183, Edizioni Musicali Europee, 2005 pp. 24-25.
  10. Luca Bonavia e AA.VV. Cantar Storie vol. 4, Domodossola, Grossi 2016.
  11. Paolo Bon, Ricordando Flaminio Gervasi in «Voglia di Coro n. 2», Vercelli, Grafica Santhiatese, 2010, pp. 20-22.
  12. Una prima rottura in tal senso si è registrata secoli prima, basti pensare agli esiti arcaici dell’universo liturgico ossia gli archaiòi tìpoi chiamati poi gregoriani. Possiamo dire che la loro cristallizzazione fu contestuale alla nascita della scrittura, nello specifico quella musicale, quindi l’immenso corpus di melodie del canto cristiano monodico non è altro che il frutto di questo processo conservativo e divulgativo mentre gli altri moduli arcaici hanno continuato la loro evoluzione, secondo secondo l’antico aforisma pànta rèi.
  13. Paolo Bon, L’esperienza orale nell’arte musicale scritta, dattiloscritto appunti Convegno La nostra Storia e il nostro pensiero nel canto di tradizione orale svolto a Lamon il 26 giugno 2005, pagg 6-12.
  14. Piero De Martini, Il conservatorio delle Alpi - Il coro della SAT, Milano, Bruno Mondadori, 2009, pp.8-26.
  15. Pierangelo Valtinoni, Canto popolare oggi: che cosa significa?, Musica Insieme, LXXXI Asac Veneto, 2003 pp. 6-7.
  16. www.corostelutis.it, ultimo accesso 05.05.2016
  17. Giorgio Monari, Canto “popolare” e canto corale, San Vito al Tagliamento; edizioni Feniarco, Arcl, Roma, 2008.
  18. A cura di Paolo Bon, Alessandro Buggiani e Claudio Malcapi, Voci & Tradizione Toscana, San Vito al Tagliamento, Feniarco, 2008.
  19. www.cantarstorie.com, ultimo accesso 04/05/2015

Bibliografia

Paolo Bon, L’esperienza orale nell’arte musicale scritta, dattiloscritto recante appunti per il Convegno La nostra Storia e il nostro pensiero nel canto di tradizione orale svolto a Lamon il 26 giugno 2005.
Paolo Bon, La teoria evolutiva del Diatonismo e le sue applicazioni, Pisa, Giardini, 1995.
Paolo Bon, L’arcaico e la falsa oralità in «La Cartellina» n° 183, Milano, Edizioni Musicali Europee, 2009.
Paolo Bon, Lezioni di diatonomia (linguistica musicale), dispense dattiloscritte, 2006.
Paolo Bon, Cronache di esperienza corale, Padova, Zanibon, 1964-1974.
Paolo Bon, Nova Summula Canonica cum interludio, Pisa, Giardini, 1995.
Paolo Bon, Ricerca vocale critica nella nuova coralità, «Atti del Primo Convegno Regionale Corale», Cortina D’Ampezzo (Bl), Centro Culturale Complessi corali, 1970.
Paolo Bon, Poetica e Tecnica dell’intervento espressivo sulle fonti orali in «La Cartellina» nn. 155,156,158, Milano, Edizioni Musicali Europee 2007.
Paolo Bon, Recueil de chants de recherche èlaborés par Paolo Bon, Ed. Regione Valle d’Aosta, 1994.
Manolo Da Rold - Sandro Filippi, …e nell’aria si sentiva…, Varese, Sonitus, 2013.
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Roberto Leydi, I canti popolari italiani, Arnoldo Mondadori, 1984
Roberto Leydi, L’altra musica, Lucca, LIM, 2008
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Bela Bartok, Scritti sulla musica popolare, a cura di Diego Carpitella, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
Luca Bonavia, Coralità dell’Arcaico: lungo le rotte di un cosmico vagare in «La Cartellina» n° 184 Milano, Edizioni Musicali Europee 2007.
Pierangelo Valtinoni, Canto popolare oggi: che cosa significa?, «Musica Insieme», n° 81, Asac Veneto 2003.
Giorgio Monari, Canto “popolare” e canto corale, San Vito al Tagliamento, edizioni Feniarco, Roma, 2008.
A cura di Paolo Bon, Alessandro Buggiani e Claudio Malcapi, Voci & Tradizione Toscana, San Vito al Tagliamento, Feniarco, 2008.

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