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Il canto è uno strumento diretto
intervista a Bruno Casoni
maestro del coro del Teatro Alla Scala

di Vittore Nason
Portrait, Choraliter 58, maggio 2019

Esistono molti modi di intendere la musica corale e l’ambito operistico in questo senso è certamente uno dei più specifici per la peculiarità delle competenze richieste e il tipo di lavoro, sia nel repertorio sinfonico-corale che nel lavoro sul palcoscenico, dove la voce è al centro di una performance completa che richiede recitazione, movimenti, talvolta anche coreografie. Bruno Casoni ha scelto di fare coralità nel suo aspetto professionale, dall’insegnamento ultratrentennale al conservatorio di Milano, fino alla direzione degli oltre cento cantanti professionisti che fanno parte del coro del Teatro alla Scala. La sua carriera si è mossa tra le sale prove e i palcoscenici di due istituzioni storiche e di riferimento primario per la storia della musica in Italia e nel mondo. 

Certo c’è una bella differenza col mondo amatoriale…

Anch’io in gioventù ho avuto la mia scuola amatoriale, ma dopo non mi sono più occupato di questo settore. Diciamo che con le esercitazioni corali in conservatorio ho avuto a che fare con giovani non cantanti e ragazzi alle prime armi.

Cosa può dirci a questo proposito? Ha qualche ricordo?

enso soprattutto ai ragazzini che all’inizio sono refrattari a questa attività, ma che poi una volta iniziato si appassionano e traggono molto piacere dal cantare insieme agli altri. Qualsiasi persona che comincia a cantare in coro si appassiona e non lascia più. Succede nel 99% dei casi. Purtroppo c’è una prevenzione. La maggior parte delle persone crede prima di tutto di essere stonata. E non si rende conto di avere un mezzo vocale più che buono. Bisogna riuscire a sensibilizzare la gente, in modo che per lo meno incomincino, che provino a cantare materialmente, naturalmente, per capire che poi in sostanza lo possono fare tutti. In genere ci sono pochissime persone che non hanno la capacità di intonare le note. Ma poi che ci sia chi è più intonato e chi lo è meno, qui è compito del maestro del coro creare una vocalità.

Cosa intende con questo?

Intendo che il maestro del coro non deve limitarsi a insegnare la parte. Deve anche sapere come si fa a cantare, conoscere la tecnica vocale, la respirazione, l’emissione, la vocalità. Lo dice la parola stessa: sono importanti le vocali. C’è tutta una tecnica per far cantare chi non ha studiato canto, nel senso che, quando si dirige un coro amatoriale, il maestro del coro deve farsi quasi insegnante di canto. Deve sapere cosa bisogna far fare ai ragazzi oppure agli adulti per ottenere il canto. 

Lo si dimentica spesso in mezzo alle molte priorità delle prove di un gruppo amatoriale, ma la tecnica vocale è fondamentale.

Quando un coro ha la possibilità di avere un insegnante di tecnica vocale almeno al livello delle cose più semplici, per poter cantare decentemente, questo può essere di grande aiuto per il direttore, altrimenti deve essere il direttore stesso che deve sapere cosa fare, cosa dire.

E secondo lei, quali sono le qualità più semplici per poter eseguire “decentemente”, come lei ha detto, la musica corale?

La musica corale vuol dire innanzitutto insieme. Coralità vuol dire insieme. La prima cosa è che le voci sappiano andare insieme. Ossia che ritmicamente ne abbiano la capacità. E questo è l’insegnante che lo deve ottenere. E poi la cosa essenziale e importante è l’intonazione. Per fare musica bisogna partire da due considerazioni: una è l’intonazione, e l’altra è il ritmo. Senza questi due parametri, non si può fare musica, nel senso dell’espressività della musica. Se si vogliono ottenere la comunicazione, l’espressività, occorre che ci siano queste due capacità fondamentali tecniche. Ottenute queste due cose, si può cominciare a fare musica, cioè a interpretare la musica, a creare un fraseggio musicale. Senza queste due caratteristiche, cioè se uno va a tempo però non c’è l’intonazione, oppure intona bene però i coristi non vanno insieme perché ritmicamente non sono a posto, manca una componente fondamentale per poter far musica.

Mi sembrano indicazioni molto chiare, che possono valere per qualsiasi tipo di coro. E questo mi porta a chiederle: secondo lei ci sono margini di evoluzione nella peculiare natura del coro?

Certamente. Le faccio un esempio. Io da giovane istruivo un coro amatoriale. Facevano solo canti di montagna. Con lo studio, con la ricerca costante di qualcosa di nuovo, io ho lasciato questo coro che faceva di tutto: dalla musica contemporanea alla polifonia del Cinquecento e del Seicento. Eseguivano brani moderni, per esempio di Bernstein o di altri autori. Erano arrivati a questo. Prima erano molto restii perché per loro cantare dei canti di montagna era un “marchio di fabbrica”, un’etichetta. Ma io ho fatto capire loro che i canti di montagna sono una cosa bellissima, che però un coro, se vuole spaziare anche in altri generi, deve cercare un’evoluzione. Con mesi, con anni di studio questo coro può avere un’evoluzione in modo da affrontare diversi generi, e migliorare tutto quello che è l’esecuzione di brani più facili.

Dunque il processo è circolare: arricchendo l’orizzonte si migliora anche il settore da cui si era partiti?

Certo. Ogni epoca nella storia della musica ha qualcosa da insegnarci. La polifonia rinascimentale ti insegna delle cose, la musica contemporanea te ne insegna delle altre. Se poi vogliamo andare sulla musica ritmica, non dico jazz, ma quasi, anche lì ci sono delle caratteristiche che servono a migliorare la capacità musicale nel complesso.

Ovviamente funziona benissimo anche nei cori di voci bianche.

Qui al Teatro alla Scala abbiamo un coro di centoventi bambini e bambine. A parte qualcuno che studia musica, la maggior parte sono ragazzi che hanno le cuffie in testa e che sentono la musica pop, la musica della loro età. E quando si mettono a cantare Fauré o Britten o cose del genere uno dirà: «Ma figurati!». Invece non è vero, si appassionano anche a questo perché non c’è cosa migliore. Il canto è uno strumento diretto. Chi suona il violino, utilizza uno strumento che è separato dall’esecutore, mentre il canto è uno strumento diretto, che esce direttamente dalla persona, dall’individuo, e quindi è lo strumento più bello che esista. Il bambino, il ragazzo, il giovane, quando incomincia a capire che dalla sua voce, dal suo strumento che è dentro di lui, esce qualche cosa di cui non conosceva l’esistenza, ne ricava un grande arricchimento. I giovani si appassionano e cantano, cantano la musica classica, come non avrebbero mai immaginato di fare, se non attraverso l’esperienza del canto corale.

E visto che parliamo di ragazzi, e cioè di introdurre la gioventù all’esperienza musicale, come vede la situazione in Italia?

Per tutti i motivi di cui sopra, penso che la cosa importante in Italia sia valorizzare sempre di più il canto corale, sia nelle scuole, sia a livello di società. Il canto corale ti insegna innanzitutto a stare insieme agli altri, inoltre ti offre una formazione culturale, perché non c’è cosa migliore che conoscere vari repertori, vari autori. Ce lo insegnano all’estero, dove i cori amatoriali sono spesso di livello professionale.

Lei lavora in un contesto, il Teatro alla Scala, dove sono presenti molte forme di esecuzione: strumentali, vocali, teatrali. Fra tutto questo lei ha scelto lo specifico campo dell’esecuzione corale. Ci potrebbe dire quali sono le ragioni di questa scelta?

Diciamo che molti direttori di coro sono dei pianisti che si trovano così per caso a fare i direttori di coro. La passione per il canto mi accompagna dall’infanzia. A otto, nove anni suonavo la fisarmonica e cantavo le romanze d’opera accompagnandomi con la fisarmonica. Io il ruolo di direttore di coro l’ho voluto e l’ho cercato anche perché ho avuto due grandi maestri in conservatorio. Uno è stato il maestro Amerigo Bortone, e l’altro, siamo anche stati colleghi, è stato il maestro Giulio Bertola. Avevano capito che c’era in me questa predisposizione per il coro, per il canto, e mi hanno detto: «Assolutamente devi fare questo lavoro, perché sei tagliato per farlo». E in effetti è andata così, perché in tutti gli enti dove ho lavorato ho sempre avuto grandi soddisfazioni e grandi riconoscimenti.

Biografia di Bruno Casoni

Nato a Milano, dopo aver conseguito i diplomi di pianoforte, composizione, musica corale e direzione di coro al Conservatorio G. Verdi della sua città, è stato direttore del Coro del Teatro Pierluigi da Palestrina di Cagliari e successivamente, dal 1983, è diventato altro maestro del coro presso il Teatro alla Scala di Milano, incarico mantenuto fino al 1994. Sempre nel 1994 è diventato direttore del Coro di voci bianche del Teatro alla Scala. Dal 1979 è docente di esercitazioni corali al conservatorio di Milano. Nel 1984 ha fondato il Coro dei Pomeriggi Musicali di Milano, che ha diretto fino al 1992. Parallelamente ha collaborato con numerose istituzioni e festival musicali italiani e stranieri sia come direttore di coro sia dirigendo varie formazioni orchestrali. Ha effettuato tournée in vari continenti e inciso diversi dischi. Nel 1994 è stato nominato direttore del Coro del Teatro Regio di Torino, alla guida del quale ha ottenuto unanimi consensi nel repertorio lirico, svolgendo inoltre un intenso lavoro per ampliarne il repertorio concertistico e intensificare le collaborazioni con altre istituzioni musicali. Particolarmente significativa quella consolidata con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Nel 2002 è stato nominato direttore del Coro del Teatro alla Scala.

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