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Il sottile equilibrio tra pratica e teoria.
Intervista a Giovanni Acciai

di Veronica Pederzolli
Portrait, Choraliter 53, settembre 2017

Quello tra teoria e pratica è un gioco in cui il prima e il dopo si possono individuare solamente sfogliando un vocabolario. Esso è infatti un ponte tibetano, circolare e sottilissimo, dal quale è davvero facile cadere. La carriera di Giovanni Acciai ci offre un grande esempio di equilibrismo tra l’attività di direttore e quella di teorico, entrambe coltivate ad alti livelli. Egli è qui però anche a svelarci i suoi inizi, a raccontarci qualche difficoltà e a gridare il proprio idealismo in un modo che convince perfino al vivavoce. Ci ricorda infine quanto, per tirare ancora in ballo l’amico vocabolario,“successo” giunga prima di “sudore” esclusivamente nell’ordine alfabetico.

Come è nato il suo desiderio di dedicarsi alla musica corale?

È venuto dalla frequentazione della chiesa di Albisola Capo, il paese in riva al mare nel quale sono nato e dall’attività di chierichetto. Qui ho avuto il primo contatto con la musica liturgica e il trascorrere degli anni fece crescere in me il desiderio di suonare l’organo per cimentarmi, in un periodo ovviamente precedente al Concilio Vaticano II, nell’accompagnamento dei canti e nell’esecuzione di musiche organistiche a corredo delle funzioni liturgiche. Così incominciai a studiare musica seriamente, già con l’idea di svolgere un iter accademico e non dilettantistico: alla fine del liceo classico lasciai la Liguria e mi trasferii a Milano per frequentare il Conservatorio Giuseppe Verdi, presso il quale ho completato la mia formazione musicale e artistica e poi per frequentare l’Università di Pavia, presso la quale mi sono laureato in Musicologia.

Non credo sia un caso che lei abbia sottolineato che la nascita di questa passione musicale sia avvenuta proprio nel periodo pre-conciliare…

Non v’è dubbio che la mia sia stata una precisazione non casuale. Nella musica post-conciliare, più ancora che in passato, ci si imbatte nel problema della cattiva interpretazione dei documenti della Chiesa di Roma in materia di musica sacra. Tra molto repertorio di infima qualità si trovano comunque lodevoli eccezioni, come quelle dei compositori Celestino Eccher, Camillo Moser, Marco Crestani, Orlando Dipiazza, Dino Stella, Gianmartino Durighello, Valentino Donella e molti altri. Ciò che manca alla situazione attuale è la legittimazione di questo repertorio liturgico che c’è e che è di valore. Le migliaia di formazioni corali amatoriali di buon livello operanti nel nostro Paese potrebbero svolgere a riguardo un ruolo determinante, a condizione però che tale partecipazione venga posta al riparo da ogni possibile abuso o forma di protagonismo, e che a essa venga concesso uno spazio vitale per manifestarsi compiutamente.

Lei ha dedicato gran parte dei suoi studi alla conoscenza e alla valorizzazione del Rinascimento musicale: come spiegherebbe il divario imperante tra teoria e pratica nell’esecuzione attuale di questo repertorio? 

Una domanda bellissima che richiede una risposta alquanto articolata. Le fonti teoriche disponibili, a partire dal tardo secolo XV fino a tutto il XVII, sono copiose, ricchissime di informazioni e concordi nell’invocare, nell’approccio esecutivo della polifonia, il rispetto di alcuni parametri, che devono essere conosciuti dal direttore e intimamente posseduti dal cantore. Essi risultano da una simbiosi strettissima e inscindibile che vi è tra la forza semantica espressa dalla parola e la linea melodica della trama polivoca destinata a raffigurarla. La parola intonata possiede un battito cardiaco. Sillabe e accenti le conferiscono il respiro, l’alito vitale, il flatus vocis. È compito primario dell’esecutore dare vita, fuoco, anima a tutto questo. Certo, spiegato così sembra semplice ma tradurlo nell’atto esecutivo è difficilissimo. Sono ritornato, da pochi giorni, da un prestigioso festival musicale francese, del quale tacerò il nome. Confesso di aver provato grande disagio nell’ascoltare una messa polifonica di autori franco-borgognoni del Cinquecento eseguita in maniera a dir poco ignobile, con un direttore che scandiva il tactus come un fabbro batte il martello sull’incudine: il risultato è stato di una noia mortale e la colpa non è da attribuire alla musica, ma piuttosto a chi la esegue senza saperne cogliere l’intima bellezza. 

E quali sono le altre più importanti difficoltà riscontrate in campo amatoriale e, dall’altra, in campo professionale? 

Posso affermare che, in ambito amatoriale, l’80% della resa artistica di un coro dipende dalle capacità tecniche e musicali del suo direttore; mentre in ambito professionale la proporzione si capovolge. Con uno strumento tecnicamente pronto, il direttore deve concentrarsi unicamente sulla parte interpretativa del repertorio che intende eseguire. Ma non si creda che anche qui non insorgano problemi. Non tutti i cantanti professionisti sono duttili, reattivi, pronti ad accogliere le idee del direttore e a trasformarle in realtà sonora. Magari fosse così semplice. 

Secondo lei perché la professionalità corale in Italia è così rara? 

Dipende tutto dalla scuola e la nostra credo sia la più pazza del mondo! Nonostante gli innumerevoli tentativi di riforma dell’ordinamento scolastico, non siamo ancora riusciti a creare un iter didattico che preveda, dalla scuola dell’infanzia fino all’università, l’obbligatorietà dell’insegnamento musicale. In questo senso è doveroso innalzare un monumento alla coralità amatoriale, alle associazioni corali regionali e a Feniarco che suppliscono a tutto ciò che non fa lo Stato. Basti pensare che la RAI, l’ente radiofonico nazionale, non possiede più un suo coro professionale dei quattro che affiancavano fino agli anni Novanta le sue orchestre sinfoniche. Io sono stato l’ultimo direttore del Coro da camera della RAI di Roma, che venne chiuso, insieme con i cori sinfonici di Roma, di Milano e di Torino, quando stava incominciando a raggiungere un apprezzabile livello di qualità. Ricordo che allora non vi fu alcuna alzata di scudi e si lasciò che orchestre e cori fossero smantellati senza tentare di provvedere al loro recupero e alla loro efficienza. Aggiungo poi che la parte istituzionale e scolastica nella coralità ha un peso risibile e la situazione della classi di direzione di coro di molti conservatori di musica, sempre salvo lodevoli eccezioni, è difficile. Se oggi l’Italia vanta un’attività corale di grande spessore è soltanto grazie al vivaio amatoriale. 

In un’Italia evidentemente molto lontana dalla coralità professionale, quanto incide la formazione del direttore, spesso orientata esclusivamente verso l’amatorialità? 

Posso dire io stesso che l’esperienza di direttore di coro lirico è stata affascinante ma, al contempo, difficile. Nonostante una solida preparazione musicale, talvolta mi sono dovuto affidare all’esperienza dei maestri collaboratori di palcoscenico per gestire una concertazione. Nessuno a scuola mi aveva insegnato nulla al riguardo. Oggi bisognerebbe creare una serie di ambiti didattici che riescano a cogliere ogni aspetto, ogni sfaccettatura della pratica direttoriale, così come è richiesto a un violinista di saper suonare ogni repertorio, dal Barocco al periodo romantico e oltre, utilizzando strumenti e archi di diverso tipo. Bisognerebbe inoltre creare i presupposti per una collaborazione continuata e duratura tra i conservatori e le associazioni regionali corali. 

Che cosa consiglierebbe dunque a un giovane direttore di coro? 

Gli consiglierei di studiare, studiare, studiare; di seguire l’esperienza dei grandi maestri; di non accontentarsi mai; di aggiornarsi di continuo; di non credere mai di essere bravo. Gli consiglierei di continuare a perfezionarsi quotidianamente, di cantare in un coro o in piccoli ensemble, di saper leggere la musica a prima vista, di sviluppare al massimo la memoria e l’orecchio interno, di fare pratica quotidiana con uno strumento, di curare in maniera maniacale il proprio gesto, di essere curioso e soprattutto di capire, infine, quale sia la sua vera vocazione, per perseguirla fino in fondo e farne la sua stessa ragione di vita. 

E lei chi individua come suo grande maestro? 

Senza dubbio Roberto Goitre, che per me è stato non soltanto un grande maestro, ma un fratello maggiore per tutto quello che mi ha donato e che io ancora oggi cerco con tutte le mie forze di far fruire agli altri. Memore dell’insegnamento ungherese di Zoltán Kodály e ricollegandosi direttamente al modello d’insegnamento di Guido d’Arezzo, Goitre tentò di gettare un sasso nell’acqua immobile della coralità di quel tempo e dimostrò con il suo Cantar leggendo come l’alfabetizzazione musicale non rappresentasse un fatto necessariamente specialistico né un arido preliminare al conseguimento di una tecnica strumentale; viceversa costituisse esattamente quell’area socializzabile del sapere musicale che non poteva in alcun modo essere surrogata attraverso l’assurda didassi della teoria e del solfeggio parlato ancor oggi impartiti nei nostri conservatori di musica. Non voglio essere pessimista ma dovendo oggi fare un bilancio di ciò che è rimasto del messaggio goitriano, non mi sentirei di dire che esso è positivo. È vero: oggi, molte cose sono cambiate rispetto agli anni Settanta, ma sul piano didattico e della diffusione del sapere musicale di massa molto resta ancora da fare. E non mi sembra di intravvedere la volontà di farlo. 

Per concludere ci racconti dell’avventura corale più bella. 

In ambito amatoriale fu con la Corale Universitaria di Torino, quando negli anni ’70 inaugurammo Settembre Musica con l’esecuzione dei Salmi a quattro voci, archi e basso continuo di Antonio Vivaldi da me individuati nel fondo Foà-Giordano della Biblioteca Nazionale di Torino, trascritti in notazione moderna e poi pubblicati per le Edizioni Suvini Zerboni. Ricordo ancora la grande Chiesa di San Filippo stracolma all’inverosimile. In ambito professionale, invece, fu nell’agosto del 1991, quando con il Collegium vocale et instrumentale Nova Ars Cantandi da me fondato, diressi musiche vocali e strumentali inedite e rare di Eberlin, di Holzbauer e di Mozart. Un’esperienza artistica indimenticabile per l’importanza che allora rivestiva e che la critica musicale tedesca del tempo non mancò di sottolineare.

Biografia di Giovanni Acciai

Ha studiato organo, composizione, direzione di coro e si è specializzato in filologia musicale presso l’Università degli studi di Pavia. In passato direttore del Coro da camera della RAI di Roma e del Coro Sinfonico della RAI di Torino, è attualmente direttore artistico e musicale dei gruppi vocali e strumentali I Solisti del madrigale e Nova Ars Cantandi, alla guida dei quali svolge una intensa attività concertistica e discografica. Insegna paleografia musicale presso il Conservatorio G. Verdi di Milano ed è autore di numerosi saggi musicologici e di importanti edizioni critiche di musica vocale e strumentale pubblicate dalle maggiori case editrici italiane e straniere. È inoltre stato direttore delle riviste La Cartellina e L’Offerta musicale. Nel 1991 è stato eletto membro onorario dell’American Choral Directors Association, dal dicembre del 2004 è rappresentante ufficiale per l’Italia del Choir Olympic Council e nel novembre 2015 è stato accolto, come membro individuale, nel Réseau Européen de Musique Ancienne (R.E.M.A.). È fondatore e membro del comitato artistico dell’Accademia di Musica Antica di Milano (A.M.A.MI.).
Maggiori dettagli su www.giovanniacciai.it

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