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Fare il maestro di cappella oggi
Intervista a Cristian Gentilini

di Elide Melchioni
Portrait, Choraliter 65, settembre 2021


Maestro Gentilini, dal 2015 lei svolge a tempo pieno un lavoro di grande prestigio e di antica tradizione come quello del maestro di cappella. Ma cosa significa oggi per un compositore, per un direttore di coro, ricoprire tale ruolo?

Da quando ho avuto questo incarico avverto il peso della storia e della tradizione musicale: se penso che nella Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo la prima menzione di un insegnante di musica risale al 1480 mi tremano i polsi! È una cappella storica privilegiata, da allora l’attività musicale non si è praticamente mai interrotta e io attualmente sono il 52º maestro di cappella dalla fondazione: prima di me nomi illustri come Gaffurio, De Albertis, Vinci, Grandi, passando per Mayr, Ponchielli, fino ai più recenti Pedemonti e Donella mio predecessore. La basilica dalla metà del Quattrocento è amministrata dalla Misericordia Maggiore di Bergamo (oggi Fondazione MIA), una importantissima istituzione che ha sempre sostenuto economicamente la cappella e i musicisti che vi prestavano servizio e continua a farlo tuttora con impegno e lungimiranza, nella convinzione che la musica sia di primaria importanza per il culto della basilica.

Come è strutturata la Cappella sotto la sua direzione?

La Cappella Musicale è formata da un organista stabile e sedici cantori professionisti. A questa formazione di base si aggiungono talvolta, in collaborazione con il Conservatorio Donizetti, allievi opportunamente selezionati, che ricevono una formazione più specifica sulla musica sacra. A seconda quindi dei momenti dell’anno liturgico e delle situazioni predispongo una programmazione e una scelta di organico molto specifica: generalmente quattro cantanti nel tempo ordinario e otto nelle solennità. Queste diverse formazioni assicurano il servizio musicale liturgico tutte le domeniche e festività dell’anno (la prima messa delle ore 11 è cantata e la seconda delle ore 12:15 organistica), configurandosi di volta in volta in vari organici, secondo il repertorio da eseguire. In questo modo posso portare nella liturgia sonorità e repertori molto differenti: la musica dei maestri di cappella precedenti e del maestro attuale, ovvero la mia. Predispongo il repertorio e l’organico per le funzioni con grande anticipo, almeno due, tre mesi e, oltre a comporre, trascrivo dal patrimonio musicale del passato, se serve anche adattandolo alle esigenze della liturgia odierna. Oltre ai cantanti professionisti abbiamo anche un coro amatoriale che canta circa una liturgia al mese, e capita anche che le due formazioni cantino assieme. Unita all’attività liturgica che è quella principale, ho anche quella concertistica e discografica, volta a valorizzare le musiche composte per la basilica nei secoli passati e il repertorio contemporaneo, mio e di altri compositori viventi.

Un lavoro compositivo quindi, come in passato, legato ai diversi periodi dell’anno liturgico?

Si, ed è un lavoro molto stimolante: come tutti i miei predecessori, compongo per ogni specifico periodo dell’anno liturgico, per un organico e per persone ad hoc. Scrivo specificamente per la liturgia, per entrare musicalmente nei testi del giorno. Avvento e Quaresima sono ovviamente momenti forti della liturgia, ma anche la domenica ordinaria prevede una cura e una scelta dei brani ragionata. La musica deve riuscire a essere l’espressione del testo, sia con composizioni complesse del passato, sia con i linguaggi contemporanei. Deve poter andare oltre, raccontare un “di più” rispetto a quello che le parole già ci dicono, divenire simbolo sonoro del messaggio teologico in esso contenuto. Il momento della liturgia è quello in cui testi sacri e musiche di stili differenti possono e devono divenire sincronici. Tutto deve essere attualizzato e disporsi in un’ottica di fede hic et nunc: in questo modo il gregoriano, Palestrina e un mio brano possono coesistere al servizio della liturgia. Ma non è un concerto: è davvero un servizio, la finalità è un’altra!

Quindi lo scopo principale rimane sempre adattare la musica alla liturgia?

La musica deve essere funzionale a ciò per cui è composta, alla drammaturgia o alla narrazione che si fa, e in un contesto sacro la narrazione è, passatemi la battuta, ad “altissimi livelli”. Per questo motivo io credo che anche la musica nella liturgia debba essere un oggetto artistico perché nel divenire sincronico della liturgia, musica e fede devono esprimere con linguaggi diversi lo stesso contenuto! Per lo stesso principio credo fermamente che la musica che si compone o si sceglie di eseguire nelle funzioni religiose debba suonare diversa da ciò che possiamo ascoltare ordinariamente fuori dalle chiese: non abbiamo bisogno di musiche banali, di sbiadite imitazioni della musica di consumo, ma appunto di qualcosa di alterus. Per svolgere a pieno questo servizio alla liturgia impiego molto tempo nello studiare, scrivere, organizzare gli organici, cercare nuova musica. Spesso mi ispiro al gregoriano – canto proprio della liturgia romana – in cui tutto è inserito nel flusso della melodia e posso comporre con livelli di complessità differente. Ad esempio il salmo responsoriale, dove il coro canta a una voce assieme all’assemblea, lo devo scrivere melodicamente molto semplice, mentre nella parte organistica posso inserire complessità e anche una scrittura più moderna. 

Che tipo di affezione c’è per la vita musicale della basilica di Bergamo?

Santa Maria Maggiore è molto frequentata anche perché ricchissima di opere d’arte – ad esempio le famose tarsie del Lotto, o le tombe dei compositori Simone Mayr e Gaetano Donizetti – quindi è sicuramente una chiesa turistica, ma non è un museo, rimane un luogo di culto dove arte, musica e liturgia sono unite e orientate alla gloria di Dio e alla santificazione dei fedeli.

Lei lavora a Bergamo, città divenuta tristemente simbolo della prima ondata di covid in Italia: come avete vissuto questo periodo?

Tranne il periodo del primo lockdown, abbiamo sempre continuato l’attività, con anche solo due cantori, mascherine, distanziamento e protocollo rigidissimo. È stato un momento emotivamente molto difficile che ha fatto nascere in me il desiderio di scrivere un Requiem in suffragio delle vittime di Bergamo del covid-19, in forma di oratorio. L’organico è otto solisti, coro, percussioni e organo (ottoni ad libitum). L’ho pensato come una catarsi greca: è la città che vuole raccontare la sua tragedia. L’ho realizzato in dodici sezioni nelle quali possiamo leggere una sorta di tragitto tra il contagio e la speranza della salvezza. Verrà eseguito in prima assoluta il 6 novembre 2021 in basilica a Bergamo.

La professione di maestro di cappella è diventata la sua identità artistica, capace di comprendere anche l’attività di compositore. Lo immaginava come possibile sbocco durante gli studi di chitarra e musica corale al conservatorio di Bologna?

No, anzi, tutt’oggi mi sento fortunato e privilegiato. Provengo da una famiglia di non musicisti e ho iniziato a suonare la chitarra alle scuole medie, con l’adolescenziale idea di diventare un chitarrista rock. Come le increspature create da un sasso lanciato in acqua, in breve tempo il mio interesse musicale si è sempre di più allargato, passando prima alla chitarra classica e quindi al mondo della musica “colta”, poi alla composizione. I miei genitori hanno sempre incoraggiato e approvato ogni mia scelta, compresa quella difficile di abbandonare la facoltà di ingegneria per dedicarmi totalmente alla musica e tuffarmi in un mondo a loro sconosciuto. Tutto però è avvenuto in modo naturale e spontaneo, seguendo quello che possiamo definire un piano inclinato di minor resistenza, e alla fortuna di aver incontrato grandi maestri come Pier Paolo Scattolin e Francesco Carluccio.

Il suo approccio alla voce, da compositore e direttore, deriva anche da un’esperienza di cantore o si tratta di una conoscenza fatta principalmente di studio e ascolto dello strumento?

Parallelamente allo studio della musica classica, intorno ai vent’anni mi sono avvicinato alla coralità popolare. Ho iniziato a frequentare le prove e i concerti dei cori dell’alta Valle del Reno, dove regnava e regna tutt’ora il lavoro del maestro Giorgio Vacchi. Ritengo fondamentale nel mio percorso l’incontro con la realtà corale amatoriale, lì ho potuto mettere in pratica l’apprendimento teorico accademico e imparare tante cose che in conservatorio non si possono insegnare. Devo tanto a quel mondo che tutt’ora frequento, apprezzo e mi emoziona sempre. C’è poi un altro genere musicale che ha plasmato il mio percorso professionale: il canto gregoriano. Ciò è avvenuto grazie all’incontro col gregorianista don Nicola Bellinazzo e la Schola Gregoriana Benedetto XVI di Bologna, nella quale canto dalla sua fondazione nel 2007.

Quale ruolo riveste la voce nel suo opus di compositore?

I miei primi esperimenti compositivi sono stati sul coro, e sintetizzando al massimo potrei dire che il mio pensiero compositivo nasce e procede nell’orizzontalità delle linee contrappuntistiche. Questo imprinting emerge sempre anche nella scrittura strumentale.

Quali momenti della sua carriera direttoriale o compositiva ritiene memorabili?

Per l’attività compositiva ricordo con particolare emozione due prime esecuzioni avvenute a pochi mesi di distanza nel 2007: Rosabel - serenata per orchestra eseguita al Teatro Dal Verme di Milano, e il mottetto Cantantibus Organis al Festival Internazionale Gaude Mater a Czestochowa. Come direttore invece due momenti indimenticabili sono sicuramente lo spettacolo Miror noir tenuto al Museo di Ustica a Bologna nel giugno 2011 con musiche di Frank Krawczyk nel XXXI anniversario di commemorazione della tragedia del DC9 Itavia, e il 15 agosto 2015, solennità dell’Assunta, con il mio debutto in basilica a Bergamo alla guida della Cappella Musicale in un programma di musiche mie scritte per l’occasione.

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