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Il repertorio: alcune riflessioni

di Mauro Zuccante
dossier "Prima di cantare", Choraliter 56, settembre 2018

Farsi un repertorio, avere un repertorio, allargare il repertorio, pescare dal repertorio, esaurire il repertorio, e così via. Quante volte abbiamo pronunciato, o ci siamo imbattuti in frasi del genere. Già, perché, quando tiriamo in ballo il repertorio, facciamo riferimento a una questione che è fondamentale per un musicista, o formazione musicale (quindi, per ogni coro).

Perché dico fondamentale? Perché il repertorio rappresenta la sostanza di un’attività artistica. Il repertorio è ciò che rimane di quel che sappiamo fare (più o meno bene), come musicisti. Il repertorio è ciò che rimane al netto di fronzoli, al netto di premi e riconoscimenti, al netto di autocompiacimenti. Il repertorio è ciò rimane di noi nel tempo, è un dato che – qualora sia apprezzabile – va oltre l’appagamento immediato.
Viviamo un’epoca in cui conta molto come ci si presenta (il look, le foto, i video, le posture, i selfie, le movenze, le coreografie). I tempi di ascolto si sono accorciati in modo impressionante. Il web sta imponendo una tipologia di ascolto che è fatta di una successione di assaggi. Le clip audio-video ci persuadono che il colpo d’occhio («che carucci!») e il colpo d’orecchio («che suono!») costituiscano la reale prospettiva della qualità artistico-musicale. Non è così. Non è così, almeno nella vecchia forma d’ascolto. In futuro, chissà.
Ho avuto modo di assistere, in concerto, all’esibizione di alcuni tra i gruppi più cliccati e imitati del momento. L’impatto acustico subitaneo è stato impressionante, fascinoso. Alla lunga, però, mi ha preso una noia mortale. Insomma, bravi, ma repertorio inconsistente.
Ora, poiché i teatri e gli auditorium non sono ancora stati chiusi (quantunque, temo che non ne abbiano per molto, almeno in Italia), i musicisti sono chiamati a sostenere programmi da concerto, dal vivo, dove la bravura degli interpreti e la qualità delle musiche in scaletta costituiscono gli elementi essenziali, su cui si formano la soddisfazione e il favore del pubblico.

Mi capita di soccorrere, con qualche suggerimento, un direttore di coro intrigato nella difficoltà di formulare un programma da concerto convincente. Si tratta, il più delle volte, di colleghi coetanei; più raramente, giovani. Con l’età, evidentemente, matura la consapevolezza che la memoria del nostro lavoro rimarrà legata al repertorio; al repertorio che abbiamo proposto nell’arco della carriera, e a come siamo stati capaci di renderlo. Un giovane, per contro, tende a procrastinare la questione, nella prospettiva di un lungo futuro, ancora tutto da giocare. Ma non dimentichi, il giovane, che le patacche di gioventù lasciano gli aloni.
Parlo di direttori di coro e non di formazioni corali, perché, di norma, al direttore è affidata la responsabilità della formulazione del repertorio. Dico di norma, in quanto siamo abituati a identificare un coro con il suo direttore, e viceversa; un abbinamento inscindibile, suggerito dall’ottica di un percorso artistico simbiotico.
Sono, però, consapevole del fatto che le cose stanno cambiando, anche nella dimensione del canto corale amatoriale. Crescono i direttori di coro che (come avviene d’abitudine nel mondo professionale) preferiscono lavorare su chiamata, nell’ambito di progetti musicali ben definiti, che meglio appagano le loro ambizioni artistiche. Nella fattispecie, il repertorio coincide con il direttore e il repertorio segue il direttore, verso un successivo altrove. La prassi funziona bene, finché s’incontrano cori tuttofare (come lo sono le grandi orchestre). È un guaio, invece, se emergono delle insufficienze dalla parte del coro, o – perché no? – dalla parte del direttore stesso: «Sai com’è, con questi cantori si fa quel che si può!» – «Quello? Un cane. Non sa nemmeno dare un attacco!».
Quanto detto finora, costituisce una panoramica di spunti (alquanto disordinata, lo so), sulla questione del repertorio. Ripartiamo, quindi, da una possibile definizione del concetto di repertorio.

Repertorio è il complesso di brani che un musicista, o gruppo musicale, preferisce ed è preparato a eseguire.
La parola va intesa come lista, catalogo di reperti (da reperire, trovare). È interessante il legame etimologico con il termine reperto. Come un archeologo, il musicista colleziona reperti, i quali sono le musiche che appartengono al suo vissuto musicale profondo, le musiche sulle quali si è formato, le musiche che ha (sapientemente, o fortunosamente) reperito e raccolto, esplorando i filoni musicali dai quali si è sentito, di volta in volta, maggiormente attratto.
Nello specifico, quindi, il repertorio è costituito da una collezione di pezzi staccati, di brani (per qualche verso omogenei), o di opere estese. Un museo musicale privato. Una raccolta ordinata, in modo tale che possa facilmente essere consultata da se stessi, eppure visitata e usufruita da altri. 
Fin qui, nulla di complicato. Basta inserire le opere, che si sono studiate e si sono eseguite, in un database e il gioco è fatto.
No, non è così semplice. Non si tratta di stilare un mero e brodoso elenco di musiche (ahimè, si fa ciò, addirittura, per esibizione, o per emulazione). È assai meglio, invece, selezionare attentamente le stesse in base al loro reale valore artistico, alle nostre consapevoli preferenze e agli esiti soddisfacenti che ci hanno offerto in fase di esecuzione. Ne uscirà uno specchio che rifletterà, in forma più coerente, il nostro profilo artistico (ammesso di possederne uno). Per combinare questi elementi, occorre disporre di corrette facoltà di giudizio.
Alla larga, quindi, dalle lusinghe del «piacer di porle in lista» (le musiche, s’intende). Assemblare un repertorio, è un atto che richiede un insieme di accortezze. In primis, consapevolezza e coerenza; unite, appresso, a curiosità, inventiva e originalità.

Chi non è in grado di giudicar le “belle” (intendasi ancora, le musiche) è meglio che si dedichi ad altri sport. Devo trattenermi da propositi aggressivi, quando un direttore di coro mi impegna nell’ascolto di musica oggettivamente brutta e malfatta. Mi vien da chiedergli: «Si rende conto, o no, che quel brano è un obbrobrio?». Possibili risposte: «Sì, ma l’ho inserito per compiacere il compositore… per assecondare una richiesta del coro… per questioni di minutaggio… per obblighi di organico… per ragioni di sfida… per ammiccare a certe aspettative del pubblico… me l’ha chiesto l’organizzazione… perché lo fanno tutti…», e altre amenità del genere. Tutto ciò è deprimente. Ma ancor più sconfortante è il caso in cui (tutt’altro che raro), alla domanda di cui sopra, uno risponda, stoltamente, che le proprie scelte non gli sono sembrate affatto deprecabili. Ecco, siamo di fronte, allora, all’incapacità di valutare l’effettiva qualità delle musiche.
Naturalmente, si evitano grossolani errori di giudizio, sulla validità delle musiche, quando si circoscrive il repertorio ai classici.
E qui mi rifaccio a una particolare sfumatura di significato che assume il termine repertorio. S’intende, infatti, “di repertorio” un’opera consolidata dal favore della tradizione. Proporre brani “di repertorio”, significa eseguire, preferibilmente, le musiche ampiamente collaudate, che hanno superato l’esame del tempo. Sono le musiche dei grandi autori storici. Richiedono di essere eseguite correttamente, secondo i dovuti crismi stilistici. Comunque – una volta osservato quanto appena detto – il pubblico, di gusto più conservatore, certamente gradirà.
Insomma, seguendo questo criterio, è difficile sbagliare. «Com’è quel maestro?» – «Onesto», sosteneva un caro amico, iscrivendo il direttore in questione alla schiera di quei musicisti affidabili, che vanno sul sicuro con Bach e Haendel, Mozart e Beethoven, Brahms e Čajkovskij.
Intendiamoci, non voglio biasimare coloro che si dedicano esclusivamente, o prevalentemente, alla musica del passato. Anzi. Anch’io mi allineo con coloro che preferiscono riascoltare un mottetto di Monteverdi al posto di un’insulsa novità contemporanea, che compensa la propria vuotaggine supponendo attributi di modernità e sperimentazione.
Ma da un musicista “di repertorio” mi aspetto anche un qualcosa in più. Un quid, che lo affranchi dalla semplice etichetta dell’onestà. Infatti, contestualmente alla riproposizione della musica del passato (fatta salva – ripeto – una fedele e appropriata lettura stilistica, per la quale è indispensabile possedere erudizione e competenza filologica), sarebbe benvenuta una qualche novità d’interpretazione, che rinnovi nell’ascoltatore l’emozione e il piacere della scoperta.
A proposito di ciò, un controllato sbilanciamento in “zona out” pareggia l’eccesso di prudenza dello stare in “zona in”. Mi spiego con un esempio (un po’ forzato, se volete). Glenn Gould si è spinto su posizioni out, suonando il prediletto Bach su uno Steinway gran coda. Eppure, questa sua scelta ci ha consentito di apprezzare le qualità immateriali del contrappunto bachiano. Una scrittura che non ci perde nella trasposizione timbrica moderna, perché il suo pregio basilare risiede, piuttosto, nell’ordito costruttivo.
In definitiva, meglio essere un po’ corsari (out, appunto), che supinamente conformisti.
Attenzione, essere corsari sì, ma non sprovveduti e incautamente temerari. Si rilegga il volume L’ala del turbine intelligente (ed. Adelphi, 1988), in cui sono stati raccolti gli scritti che il leggendario pianista canadese ci ha lasciato, intorno alle tematiche del repertorio musicale. Si avrà modo di verificare come, anche le tesi più radicali e sorprendenti, sono sostenute da argomentazioni acute e ineccepibili. In definitiva, evitare le interpretazioni di maniera preserva dalle piatte riletture scolastiche, dalle grossolane imitazioni, da un accondiscendente abbandono alle mode. Una dote non deve mai mancare a un musicista, anche quando interpreta la musica del passato: l’invenzione.

Scostiamoci, ora, dai repertori per specialisti dell’antico ed esperti del classico-romantico. Caliamoci nella dimensione più familiare dei nostri cori “generalisti” (senza offesa, s’intenda). Scorrendo i repertori, che le formazioni corali pubblicano on-line, a scopo di promozione, emerge la tendenza a proporre accostamenti di antico e contemporaneo.
Dopo un lungo elenco di musiche rinascimentali e barocche, ecco un altrettanto cospicuo numero di composizioni attuali. In merito alle prime, abbiamo già detto. Trattasi degli autori (“di repertorio”) con i quali si va sul sicuro: Palestrina, Lasso, Da Victoria, Vivaldi, e via di seguito.
Ma che dire sugli elenchi di autori contemporanei? Beh, finché si tratta di Petrassi, Messiaen, Pärt, Penderecki, Rautavaara, Schnittke, e altri di pari levatura, nessuna osservazione.
Ovviamente, sospendo il giudizio sugli autori sconosciuti. Tra costoro, ci sarà senz’altro qualche imprevista e piacevole rivelazione. Nutro, tuttavia, il sospetto che, nel mucchio, si possano intrufolare i nomi del nipote prediletto («così giovane e già organista titolare in parrocchia!»), o del vecchio sodale («nel frattempo, divenuto nientemeno che direttore artistico della locale confraternita del mandolino»).
Ironie a parte, rimango perplesso quando leggo, in forma assai ricorrente, i nomi di autori contemporanei di seconda levatura; autori specializzati, pressoché esclusivamente, nel settore corale; autori notoriamente capaci di sfornare, con facilità e in quantità industriale, titoli su titoli di musica corale (che siano composizioni originali, o arrangiamenti).

Mettiamo in chiaro: essere prolifici è una dote ammirevole. Lo è, soprattutto se si compongono, nell’arco di una breve esistenza, oltre 600 Lieder, tra cui alcuni capolavori insuperabili, come il ciclo del Winterreise. Ma quando si partoriscono pezzi dozzinali con lo stampino (fare, per credere, un rapido confronto nell’ambito di questo particolare genere di produzioni), si scade inevitabilmente di livello.
Esiste oggi un circuito corale autoreferenziale (fatto di festival, concorsi, meeting, masterclass), che indirizza, se non addirittura, condiziona i repertori. Nell’ambito di questi eventi, infatti, girano partiture che, giocoforza, i cori e i direttori di coro contribuiscono a diffondere, assimilandole nei loro repertori.
Le case editrici (sì – sappiatelo – esistono ancora, fuori dall’Italia) e le associazioni corali, che godono di maggiore penetrazione in questi circuiti, propongono pacchetti preconfezionati di repertorio comodamente fruibile e appagante.
Faccio un esempio (invocando, però, la benevolenza degli estimatori del genere). Un bell’Ubi caritas in stile “gregorian-speziato” ha un successo virale (come si usa dire oggi), perché di fattura elementare, agevole esecuzione e facile ascolto. Pertanto, genera un fiume di cloni. Riproduzioni, le quali trovano ampio spazio nei cataloghi editoriali specializzati. E, per giunta, accade che uno qualunque di questi Ubi caritas-derivati (riformulato con le stesse farciture e moine armoniche del modello-guida) viene pubblicato nella stesura originale (si fa per dire) a cappella; nonché accessoriato della versione facilitata; della versione adattata per le voci bianche, per le voci giovanili, per le voci senili, per le voci belluine; della versione con solista; della versione a tre voci; della versione a due voci e mezza; della versione a una voce con l’accompagnamento di pianoforte, o qualsiasi strumento a tastiera (sic!); e via discorrendo.
Boh! La cosa puzza di mercato. E, come si conviene in un’operazione di mercato ben pianificata, si smerciano prodotti standardizzati, al fine di garantirne un ampio consumo.

Torniamo, allora, un po’ indietro. Un repertorio è interessante per la sua qualità e per la sua originalità.
Coloro che come me hanno maturato più di un decennio di trascorsi in ambito corale, ricordano la caratura di certi complessi vocali storici. Vorrei fare degli esempi in ambito italiano, ma – capitemi – corro il rischio di promuovere i soliti e di escludere (e, perciò, offendere) qualche meritevole, altrettanto significativo. Cito, allora, il Monteverdi Choir, che ha saputo combinare, ai massimi livelli, nel repertorio di tradizione, bravura tecnica con rigore e approfondimento storico. E poi, il Coro dell’Armata rossa, un insieme di voci formidabili, ma che, nel nostro immaginario, è diventato soprattutto quello specifico e inconfondibile repertorio. E nomino, infine, la Schola Cantorum Stuttgart, un complesso pure fenomenale nelle prestazioni vocali (forse, meno noto ai più), che ha fatto, delle nuove proposte, il punto di forza del suo repertorio. Un complesso che ha commissionato l’opera corale che, più di ogni altra, ha segnato la nostra epoca: il Lux aeterna di György Ligeti.
Prima di concludere, vorrei spendere alcune parole su un paio di questioni che stanno a margine. La prima prende spunto dall’ovvia constatazione che, nelle partiture corali, all’aspetto musicale si accompagna quello del testo letterario. Fatti salvi i casi in cui la parola è consapevolmente e legittimamente utilizzata come pretesto fonetico, rimangono quelli in cui il testo (mi riferisco in particolare alla lingua latina) viene brutalizzato, per essere adattato ai motivi musicali. 
Maltrattato in modo maldestro e incoerente («cante-cante-mus Domi-Domi-no alle-alle-lu-ia» – «trallallero trallallà», verrebbe da dire), con conseguente svilimento del contenuto espressivo della parola. Il compianto Orlando Dipiazza era solito sollevare il dubbio sull’effettiva comprensione del testo latino da parte dello stesso compositore. Perciò, attenzione, nelle scelte di repertorio, a ciò che si canta, a ciò che si dice e a come lo si dice.
La seconda è una riflessione su quello che viene definito repertorio didattico. Liquidiamo all’istante ciò che si spaccia per repertorio didattico nei libri di testo di musica delle scuole italiche: una dilettantesca accozzaglia di canzonette, messa in piedi attraverso un improbabile copia e incolla.

Viene, inoltre, definito repertorio didattico quello proposto per la formazione di cori di bambini, o principianti. In queste raccolte, ho notato che il criterio sacrosanto di gradualità è spesso sostituito da quello arrendevole di adattabilità; ho notato che si rinuncia al pregio artistico per assecondare un presunto gusto superficiale e immaturo; e ho notato che si appagano certe debolezze esibizionistiche, ricorrendo a scopiazzature di modelli del tutto ordinari. 
Ce l’ha insegnato Schumann: la sfera emotiva va educata nella sua interezza e le aspettative di crescita dei giovani musicisti non vanno tradite.
Bene. Ho detto abbastanza. Forse troppo, e a sproposito, ma (me lo si conceda) in assoluta buonafede.
Queste osservazioni sono state suggerite dall’esperienza di navigato ascoltatore, a cui è capitato di imbattersi (mica sempre, per carità) in repertori e programmi corali poco ragionati, occasionali, deboli e convenzionali.
Chi decide di spendere del tempo per recarsi a un concerto corale, si aspetta di gustare momenti di piacevolezza. Costui sarà, però, ancor più soddisfatto se, al termine, maturerà il convincimento di avere assistito a una performance unica; di avere assistito a una performance eccellente, perché brillanti e irripetibili sono stati i musicisti che l’hanno realizzata; di avere ascoltato musica di prim’ordine, perché valido e autentico è stato il repertorio, di cui quei musicisti stessi sono stati profeti.

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