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L'abito fa il monaco?

di Veronica Pederzolli
dossier "Prima di cantare", Choraliter 56, settembre 2018

«Essi cambiano l’aspetto del mondo ai nostri occhi e cambiano noi agli occhi del mondo», scriveva Virginia Woolf. A che cosa si riferiva? Agli abiti naturalmente, la cui potenzialità semiotica e comunicativa è riconosciuta e testimoniata da tutta la storia dell’uomo. E se un abito può cambiare noi agli occhi del mondo, perché non potrebbe farlo anche per un coro sul palco? Tra gli aspetti dell’essere sul palco la modalità in cui un coro sceglie di vestirsi deve essere considerata, poiché carica di significazioni che sono tra le prime e più immediate vie di connessione con lo spettatore. 

Come, infatti, perfino la persona meno attenta al proprio look proverà – con lo scopo di colpire – a indossare perlomeno una camicia in occasione di un colloquio, così l’abito da concerto, la “divisa” diventa un ingrediente della rappresentazione musicale, una parte dell’intera performance. Se così non fosse, o meglio se non ci fosse un piacere visivo derivato allo spettatore dall’ascolto dal vivo, perché non far cantare i cori dietro una tenda così da dedicare l’intera attenzione alla musica? La verità è che il pubblico cerca la dimostrazione d’abilità e ama osservarla, ma la motivazione non risiede solamente qui.
Con l’approdo, da metà Ottocento, della moderna idea di concerto che stimolò sempre più l’individualismo interpretativo, si cominciò a porre sempre maggiore attenzione alla fisicità, dando credito a un modello di performance basato soprattutto sulla ricezione (se un’idea è ricevibile è sempre lecita). Così fu palese il ruolo dell’azione nella comprensione di un’idea musicale: il gesto-suono la ritrae nelle più piccole espressioni e al contempo ne descrive la forma. Lo stare sul palco quindi non fu più un mero lavoro, ma la risposta a un’esigenza comunicativa che lo stesso abito poteva amplificare. Si pensi che oggi l’abito ha finito perfino per indicare uno “status”, il contenitore musicale entro il quale ci si identifica, che sia il nero per la colta, la divisa per i cori di matrice popolare o le divise più colorate per i bambini. Ma ancora il vestito può diventare veicolo per mostrare rispetto verso una contingenza entro la quale ci si esibisce (qualcuno canterebbe mai in minigonna e scollatura in chiesa?), per immergere subito il pubblico nel grado di formalità che si richiede (di fronte a un palco con un coro in elegante divisa nera pochi osano ancora chiacchierare) e per tramettere il rispetto e il valore di ciò che si sta proponendo (la fierezza di un coro di montagna nel portare una divisa tramandata da decenni).

Gli studi sulla percezione e sulla psicologia del colore consentono ulteriori riflessioni. Si parta dalla scelta del colore della camicia del direttore: essendo stato dimostrato che i colori chiari emergono più di quelli scuri, un corista sarà facilitato nel seguire la mano del direttore di carnagione chiara quando essa si muove su uno sfondo possibilmente scuro, che non possa entrare in competizione con la chiarezza della sua pelle. E ancora la scelta del colore del dettaglio che così comunemente crea unione tra il total black personale di alcuni cori polifonici può avere incidenza nella percezione del coro: gli effetti psicologici del rosso – così modaiolo in ambito corale - sono eccitanti, vivificanti e portano a un aumento del polso e della frequenza respiratoria, mentre quelli del blu predispongono alla calma, alla trasognatezza e al controllo. Il giallo è esaltante, liberatorio, il verde armonizzante e gentile, il viola conflittuale, il bianco nella sua disinibizione regala aperture, e il rosa morbidezza e graduazione del sentimento.
Se è dunque vero che attraverso l’abbigliamento si possa esercitare una forma di controllo sulla propria immagine, è altrettanto vero, come lo stesso Shakespeare scriveva nell’Amleto, che «l’abbigliamento rivela l’uomo». Un direttore che sceglie colori sgargianti rispetto a quelli del coro comunica un desiderio di attenzione e il piacere nel dare prova della sua abilità di performance; all’estremo opposto i direttori che si presentano in concerto con la stessa divisa del corista esprimono chiaramente di intendere il proprio ruolo in maniera molto diversa, più servizievole nei confronti del coro. Lo stesso vale per i coristi e l’esempio calza a pennello al femminile: ha precedenza la donna o la corista? 
Rilevante in merito a questo è anche la libertà lasciata dal coro al personale: ci sono formazioni che esigono addirittura lo stesso trucco e parrucco, creando alte aspettative nel pubblico, mentre altre lasciano estrema libertà di scelta al corista.
Guarda caso spesso queste scelte riflettono quelle compiute in ambito musicale nel grado di “controllo-libertà” esercitato sulla prestazione del singolo corista all’interno del gruppo: la scelta dell’abito, oltre a rispettare i requisiti fisici di una prestazione e gli aspetti socio-comunicativi dell’apparenza, rivela dunque molto dell’approccio di un coro e di un direttore alla musica. Ciò che importa? Esserne consapevoli.

coro a voci pari maschili


coro a voci pari femminili


coro misto


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