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Dentro e fuori dall'opera

di Gianluigi Giacomoni
dossier "Cori nell'opera", Choraliter 62, settembre 2020

Il Dossier di Choraliter sui cori lirici nasce dal desiderio di esplorare un territorio di confine, una nicchia del panorama amatoriale con un carattere molto specifico e una diffusione altrettanto particolare rispetto ai luoghi e ai palcoscenici abituali. È il mondo dei melomani, votati a Verdi prima che a Pärt, che si riuniscono tra platea e loggione e hanno in mente un suono corale robusto, teatrale, quello adatto a ricreare atmosfere epiche e melodrammatiche.

Per parlare di questi cori e questi coristi occorre restare nello spazio intermedio tra le compagini professionali e un mondo amatoriale ibrido, che a volte vive di spontanea passione, altre volte attinge ai conservatori e si lega ai teatri. Per questo anche la nostra esplorazione terrà conto di entrambi gli ambiti, dedicando l’introduzione a quella regione italiana che per elezione (e tradizione di loggione) ha fatto dell’opera lirica ottocentesca un patrimonio comune. Se l’opera oggi tende a rimanere all’interno dei teatri e di circoli di appassionati, in passato apparteneva anche al mondo rurale, permeabile alle arie più famose, che venivano canticchiate anche nelle strade. I brani d’opera sono usciti così dal loro contesto, entrando nelle case, ma anche nelle sale prove di gruppi amatoriali.

La vocazione emiliano-romagnola

Il melodramma o dramma in musica che oggi identifichiamo nell’opera lirica è la forma musicale che, utilizzando testo e suoni, rappresenta con grande efficacia le molteplici sfaccettature dell’essere umano. Per la sua grande capacità di comunicazione – melodie orecchiabili, ritmi facili e conosciuti, temi comprensibili e imitazione del vero – alla fine dell’Ottocento e per diversi decenni del Novecento è stata patrimonio che classi sociali anche molto distanti fra loro hanno sentito come proprio. Ma, proprio come accade oggi (anche se per ragioni diverse), erano pochi quelli che potevano partecipare alle sontuose rappresentazioni del melodramma nei teatri. Questo elitarismo allora non si traduceva in un motivo di distanza con quel genere musicale, anzi, chi non ne fruiva direttamente cercava di appropriarsene eseguendolo anche in forme spontanee o amatoriali.

Il teatro che entra nelle case

Il temperamento focoso e sanguigno, spesso al limite del collerico, di noi emiliano-romagnoli è noto. Fatichiamo a essere calmi e rilassati anche quando parliamo di cibo, figuriamoci quando si tratta di prendere posizioni su argomenti che trattano di gusti musicali dove (quasi) ogni opinione ha valore di verità. Come in gran parte dell’Italia, anche la povertà era compagna indesiderata che conviveva con gli abitanti di queste terre, perciò l’acquisto di biglietti per il teatro rappresentava in molti casi non più che una remota ipotesi. E allora perché erano tanto conosciute le arie d’opera, i cori soprattutto quelli verdiani, le ouverture, gli interpreti per i quali quasi si arrivava alle mani se per caso veniva messa in discussione la performance? Un merito importantissimo va attribuito al primo rudimentale spotify analogico della storia: le bande. Una in ogni paese e spesso addirittura due!

Queste hanno diffuso in ogni dove la musica operistica facendola diventare parte della quotidianità della comunità in cui si esibivano. Ma non tutti potevano permettersi di avere uno strumento e non tutti ne avevano l’abilità tecnica. Però cantare era alla portata di chiunque. Ed ecco traslare nelle realtà corali il grande repertorio operistico, anche se con meno precisione tecnica, meno preparazione musicale, ma con passione sanguigna (spesso sopra le righe…).
Pur in una straordinaria evoluzione, che ha portato negli ultimi trent’anni cori emiliano-romagnoli a vincere concorsi internazionali in ambito polifonico, l’opera eseguita da cantori amatoriali è rimasta per tutto il Novecento fino ai primi anni del XXI secolo nei programmi dei concerti. Anzi, fino alla fine degli anni Novanta non c’era corale mista che non avesse in repertorio brani appartenenti al melodramma italiano di fine Ottocento o primi del Novecento. In questo particolare repertorio si è cominciato ad avvalersi di cantori cosiddetti aggiunti di livello professionale perché il colore della voce impostata era ormai così diffuso, conosciuto e caratteristico che non ci si poteva più accontentare di eseguire più o meno tutte le note senza una vera attenzione anche alla vocalità.
E i conservatori sono stati i principali referenti per il reclutamento di rinforzi per i cori. Credo di non andare oltre la semplice ipotesi se affermo che la Vergine degli Angeli da La forza del Destino di Giuseppe Verdi sia stata un vero e proprio hit paragonabile alla diffusione che ha avuto in altro ambito la canzone Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno. Questo ambito amatoriale di esecuzione lirica ha espresso anche la necessità di pianisti collaboratori, attingendo ai diplomati nei conservatori.

Professionisti “amatoriali”

Tra i cori che in ambito emiliano-romagnolo hanno trattato e trattano il repertorio lirico, ad esempio la corale Giuseppe Verdi di Parma, c’erano delle eccellenze assolute soprattutto nelle voci maschili, con coristi che, pur non avendo studiato, si ritrovavano una voce naturale di grande qualità. L’episodio di cui andava fiero Romano Gandolfi, indimenticato direttore di coro della Scala e musicista meraviglioso con cui ho avuto la fortuna di collaborare, è davvero memorabile. Un Requiem di Verdi alla Scala necessitava del rinforzo di voci nella sezione maschile. Romano ne parla con Claudio Abbado, allora direttore musicale. Conoscendo bene la corale Verdi, fa ingaggiare circa venticinque coristi (tenori soprattutto ma anche bassi e baritoni). Nessuno di loro aveva studi musicali alle spalle. Facevano lavori di tutt’altro genere rispetto a quello musicale, ma andarono a fare gli aggiunti alla Scala con tanti complimenti da parte del maestro Abbado. 

Tradizione e aggiornamento

Oggi la situazione appare profondamente cambiata. I motivi? Semplificando direi che sono due: i direttori di coro (spesso musicisti professionisti) scelgono altri repertori rispetto a quello lirico che ai coristi richiede una preparazione specifica piuttosto impegnativa. Il repertorio lirico, se non in rarissime occasioni, viene frequentato sporadicamente in ambito amatoriale. Nella cultura di massa si è verificato un crollo significativo della diffusione capillare della musica melodrammatica, a favore di musica leggera e pop. Pertanto ciò che è accaduto e sta accadendo nell’ambito corale amatoriale è la (quasi) totale uscita dei brani da opere dal repertorio dei cori polifonici. Tuttavia, nei pochi cori amatoriali che si dedicano solo alla lirica, si persegue un perfezionamento tecnico sia per i singoli coristi amatoriali (spesso con lezioni di canto durante l’attività annuale) sia dei maestri di livello professionale specifico, sia infine della partecipazione all’attività della corale di cantanti neodiplomati.
Due esempi importanti di questa attività presenti nella regione Emilia Romagna con radici nel passato sono la corale Giuseppe Verdi di Parma, fondata nel 1905, e il Coro Amintore Galli di Rimini, fondato nel 1994.

Foto © Francesca Bocchia

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