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La coralità tra diletto e professione
Con Piero Monti in viaggio tra realtà corali diverse

di Mario Leone
dossier "Cori nell'opera", Choraliter 62, settembre 2020

Piero Monti arriva nell’Urbe solo un anno fa. Con lui la recente esperienza come maestro del coro del Teatro Massimo di Palermo e un bagaglio più antico e nutrito di vita musicale e corale. Cresciuto sotto la guida di grandi direttori, Monti, romagnolo d’origine, ha il garbo d’altri tempi e la curiosità del ricercatore.

La musica è la sua vita: al Comunale di Bologna, alla Fenice di Venezia, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e poi all’estero invitato da Vladimir Jurowski a fondere i due cori londinesi Philharmonia Chorus e London Philharmonic Choir (per un totale di duecentoquaranta cantori), per eseguire il Requiem di Verdi con la London Philharmonic Orchestra. Tanti palchi, diversi repertori sino alla nomina di maestro del coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. La sua prima stagione tra le volte disegnate da Renzo Piano è segnata dalla drammatica vicenda del coronavirus che ha sconvolto il mondo dell’arte e non solo. Incontrare il maestro ora che la vita musicale sta riprendendo può essere anche l’occasione per fare il punto della situazione. 

Come ha vissuto il periodo del lockdown e la conseguente interruzione di tutte le produzioni musicali?

È stato un momento molto difficile. Da un giorno all’altro le nostre vite sono state sconvolte. Per quel che mi riguarda non ho potuto provare con il coro, programmare con il maestro Pappano. Si sperava fosse un’interruzione momentanea invece è durata tre mesi. Con i miei coristi siamo rimasti in contatto, mi chiedevano notizie sulla ripresa della stagione musicale. Gli artisti del coro hanno continuato a studiare perché desideravano essere prontissimi alla ripresa delle prove. Io stesso ho approfittato del molto tempo libero per studiare e progettare. 

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha proposto una rassegna estiva nella cavea dell’Auditorium e il coro è stato molto impegnato. Come è andata questa ripresa?

Guardi, è complesso spiegare certe esperienze. Gioia e commozione sono stati i sentimenti che hanno accompagnato il nostro ritrovarci. Non potevamo abbracciarci ma eravamo lì insieme, con i racconti del periodo appena trascorso. Non nascondo un certo straniamento nel dover provare seguendo alla lettera tutte le misure di distanziamento. È strano: noi direttori di coro trascorriamo tutta la vita a predicare l’ascolto del vicino, l’essere insieme e poi sei obbligato a distanziarti. 

E dal punto di vista musicale?

Il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia è una compagine di primissimo livello formata da grandi artisti e professionisti molto seri. Come le dicevo tutti hanno continuato lo studio e la preparazione dei programmi. Quindi il coro, pensato come singole voci, era perfetto. Ma un coro è un insieme, un tutt’uno che deve esprimersi come un unico corpo, con un suo preciso suono. Il lavoro che abbiamo fatto riprendendo le prove è stato quello di recuperare il nostro suono, quella tavolozza di colori che appartiene solo a noi. 

Nel cartellone estivo di Santa Cecilia avete eseguito repertori diversi: la Nona Sinfonia di Beethoven, La Misa Criolla di Ramirez, i Carmina Burana di Orff e alcune pagine mozartiane. Repertori molto diversi presentati in concerto a distanza di pochi giorni uno dall’altro. Come ha affrontato questo tour de force?

C’era molto entusiasmo. Riprendere ha dato una scossa di adrenalina a tutti. Il primo concerto prevedeva la Nona di Beethoven. Dopo mesi di silenzio abbiamo cantato: «Gioia». Poi abbiamo eseguito Ramirez, Orff e Mozart. Un coro del livello di Santa Cecilia ha in repertorio queste pagine. Non è un problema. Il lavoro da fare è sul suono del coro. Questo per me è fondamentale e richiede un gran lavoro di cesello. 

Lei ha appena parlato di professionisti ma la sua storia musicale l’ha vista impegnata anche con compagini amatoriali. Cosa può dirci in merito?

È vero, ed è qualcosa di cui vado molto fiero. Per anni ho collaborato con Feniarco. Il nostro Paese ha una presenza di realtà corali “amatoriali” che ci invidiano in tanti. In questi ultimi anni poi, anche grazie al duro e tenace lavoro svolto da Feniarco, sono aumentati i gruppi vocali di ogni genere e tipo. Questo è fondamentale perché il canto educa non solo la voce, ma il carattere. Il coro è una piccola società ideale. E poi mi permetta di dire che tanti ensemble corali hanno un livello tecnico e artistico che definirli “amatoriali” è veramente riduttivo. 

E si scoprono anche direttori talentuosi.

Certo. Io stesso ho avuto la possibilità di imparare tantissimo dirigendo un coro amatoriale. Un direttore deve studiare, questo senz’ombra di dubbio, ma deve anche mettersi alla prova sul campo. Così si capiscono tante cose. In questo senso Feniarco ha fatto tanto anche per i direttori. 

Rintraccia delle differenze nel lavorare con un coro di professionisti o con un coro amatoriale?

Il mio modo di lavorare è sempre uguale. Mi spiego meglio: il direttore è uno, sia di fronte a dei professionisti sia di fronte a degli amatori. In questo senso per me entrambe le realtà devono lavorare su un suono specifico che li caratterizzi. Devono imparare la fedeltà alla partitura. Il mio modo di pormi davanti a un coro non cambia: devo essere sempre preparato, trasmettere chiaramente la mia idea di brano, condurre i miei coristi a questo risultato. Il direttore è una guida per chi ha di fronte, siano coristi che cantano per professione o per diletto.

E qualche differenza?

Certamente ce ne sono. La scelta del repertorio ad esempio: un coro di professionisti come quello di Santa Cecilia può affrontare qualsiasi repertorio; un coro amatoriale deve sceglierlo anche sulla base delle proprie “forze” vocali. La scelta della tempistica: un coro di professionisti spesso legge un nuovo brano a prima vista; con una realtà amatoriale la lettura richiede più tempo (non sempre). Un’altra differenza è il numero di prove. Realtà professionali lavorano quasi tutti i giorni. A un complesso amatoriale spesso è difficile chiedere tante ore di prove alla settimana. Spesso poi i cori amatoriali necessitano di una iniziale alfabetizzazione musicale.

E poi ci sono i cori che appartengono a istituzioni liriche e sinfoniche.

A Palermo il coro era operistico quindi il lavoro si incentrava molto sulla memorizzazione e sul “canto scenico”. Grande attenzione bisognava porre alle scelte della regia. Un coro che partecipa all’allestimento di un melodramma è chiamato a cantare in situazioni logistiche non sempre confortevoli. A Roma il repertorio è sinfonico quindi la memorizzazione spesso non è richiesta però si lavora sulle intenzioni interpretative del direttore musicale e dei diversi direttori ospiti. È un lavoro splendido perché tutti impariamo molto e richiede una grande attenzione perché bisogna recepire bene e realizzare correttamente quanto ci viene chiesto da direttori che vediamo per pochi giorni.

Trova più agevole il lavoro con uno dei due?

Non è più semplice una cosa dell’altra. Il lavoro è molto simile ma un direttore di coro deve tener ben presente le peculiarità che il coro “operistico” e “sinfonico” hanno.

In questo senso lavorare con un coro amatoriale permette grande libertà nella scelta del repertorio.

Senza ombra di dubbio. Il direttore di un coro amatoriale immagina un percorso di crescita per i suoi coristi che passa attraverso un determinato repertorio. Questo può essere deciso con la massima libertà. Ad esempio un coro amatoriale può lavorare sulla musica antica e quella contemporanea o dedicarsi a un programma monografico. Questi repertori all’interno di istituzioni musicali sinfoniche e liriche sono un po’ più complessi da proporre. 

Ci spieghi meglio.

Sì, per un motivo molto semplice: bisogna strutturare un cartellone ampio che abbraccia un periodo di tempo molto lungo, esigenze artistiche, di pubblico. Non solo. Un coro come quello di Santa Cecilia opera in stretta simbiosi con l’Orchestra, quindi spesso i repertori sono scelti per coro e orchestra.

Lei a Santa Cecilia è responsabile anche delle voci bianche. Ci racconta questa esperienza con i bambini?

Ho sempre lavorato in realtà corali fatte da adulti. Le confesso che è stata una novità anche per me. Non ho mai lavorato con giovani e bambini. Sino a quando abbiamo potuto operare in presenza è stata una grande scoperta. Il lavoro del direttore in fondo non cambia. Idee chiare, capacità di comunicarle (soprattutto con il gesto), scelta del repertorio giusto. Forse i bambini (i giovani in generale) hanno bisogno di maggiori stimoli e di recuperare più volte l’attenzione. In ultimo è necessario prestare attenzione alla vocalità che è in pieno sviluppo e può nascondere delle criticità. 

Durante il lockdown ha interrotto il lavoro anche con loro?

Ho continuato a distanza usando le piattaforme della didattica online. È stata l’occasione per approfondire alcune tematiche come la lettura delle note, l’ascolto, la teoria. Non è stato semplice ma la sfida si è rivelata affascinante. Tutti i coristi si sono presentati sempre ai nostri incontri virtuali. 

Quanto dice mi fa venire in mente l’insegnamento della musica nel sistema scolastico italiano. Cosa pensa?

Le problematiche sono sotto gli occhi di tutti e ricadono poi sulle realtà amatoriali e professionali. La musica a scuola è ancora una materia di serie B, insegnata spesso male. È un vero peccato. Per fortuna non è sempre così. Ci sono tanti insegnanti molto bravi che danno il massimo ottenendo risultati lusinghieri. Ottimi docenti e ottimi musicisti che operano in situazioni complesse. Le criticità che rilevo sono tante. Ne indico due: si canta poco, male e con repertori sbagliati. I ragazzi terminano la terza media e non conoscono il nostro sterminato patrimonio musicale. 

Perché dice che ricadono anche sulle realtà corali amatoriali e professionali?

Se la musica non si insegna bene a scuola e in tutti i gradi di scuola non potrà costruire persone sensibili alla musica e al canto. Questo ha come naturale conseguenza una minore partecipazione alle proposte musicali. Il nostro Paese ha l’obbligo morale di diffondere capillarmente lo studio e la fruizione della musica. Bisogna favorire la nascita di formazioni corali ovunque; così pure per le orchestre. Bisogna far conoscere il nostro grande repertorio. Altrimenti è inutile lamentarsi che l’età media del pubblico nelle sale da concerto sia sempre più alta. In questo senso la coralità (fatta bene) può fare molto perché permette un approccio alla musica gioioso e comunitario. In questo senso l’esperienza voluta dal ministro Abreu in Venezuela, il famoso Sistema Abreu, è da guardare e riproporre con ancor più forza anche in Italia.

Abbiamo parlato di diverse realtà corali: professionisti, amatori, voci bianche. Se dovesse individuare un solo consiglio che possa valere per tutti, quale sarebbe?

Amare la musica. Quando manca questo amore, per il professionista diventa solo un impiego, per il dilettante diviene una delle tante attività (come la palestra, il nuoto ecc.). Amare la musica permette di ottenere importanti risultati artistici. Non ti fa sentire la fatica che un’attività come questa richiede. Dei coristi che amano quello che fanno si riconoscono facilmente. Il pubblico che ascolta è il primo ad accorgersene ed esserne coinvolto.

Foto © Riccardo Musacchio

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