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Professionali, sempre
A prova di coro (lirico) con Alessandro Cadario

di Rossana Paliaga
dossier "Cori nell'opera", Choraliter 62, settembre 2020

Nell’ambiente corale italiano Alessandro Cadario è particolarmente noto come arrangiatore e direttore di coro, inoltre ha fatto parte della commissione artistica di Feniarco. L’impegno nella promozione della coralità amatoriale è il lato “privato” di un affermato direttore d’orchestra con un’attività internazionale in campo sinfonico e operistico. Dal 2016 è direttore ospite principale dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano. 

Ha diretto l’Orchestra del Teatro Mariinsky, il Coro e l’Orchestra del Teatro Regio di Torino, l’Orchestra Filarmonica di Monte-Carlo, l’Orchestra Filarmonica della Fenice, l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, l’Orchestra del Teatro Carlo Felice, l’Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli di Bari, l’Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari, il Coro e l’Orchestra della Fondazione dell’Arena di Verona, l’Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste, l’Orchestra della Toscana, la Filarmonica Arturo Toscanini, l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, la City Chamber Orchestra di Hong Kong e i Cameristi della Scala. Alla Biennale Musica di Venezia ha diretto due opere in prima assoluta, poi Norma al Teatro nazionale croato di Fiume, La Cenerentola e Lo schiaccianoci al Teatro Massimo di Palermo. Nel suo futuro è previsto il debutto al Rossini Opera Festival con Il Viaggio a Reims e al Festival del Maggio Musicale con la prima assoluta di Jeanne Dark di Fabio Vacchi.
Nonostante i molti impegni professionali, la forte convinzione che le competenze vadano messe al servizio dei giovani mantiene saldo il suo legame con il nostro mondo corale, rendendo il suo contributo significativo nell’integrazione della normale attività con esperienze e spunti che attingono all’ambito professionale. Recentemente ha creato infatti per il Coro da camera Hebel un arrangiamento da West Side Story di Leonard Bernstein con il quale il coro ha realizzato un video presentato nella trasmissione Rai 5 Il volo del calabrone, ideata e diretta da uno dei maggiori registi d’opera a livello mondiale, Damiano Michieletto. Abbiamo approfittato quindi della poliedricità e dell’esperienza di Alessandro Cadario per entrare nella sala prove di un teatro d’opera, nelle problematiche dei grandi repertori e salire su un palcoscenico che impone anche nozioni di arte scenica. Ma l’intervista è anche l’occasione per osservare la linea di confine tra diversi contesti e modi di essere direttore di coro.

In un coro lirico la concertazione è una premessa già risolta nel momento dell’incontro con il direttore principale: quali margini di interpretazione rimangono nell’ambito di uno spettacolo operistico?

Nell’opera il coro ha bisogno di ricevere input di natura musicale-drammaturgica proprio come un qualsiasi altro personaggio in scena. Il ruolo del maestro concertatore e direttore d’orchestra è dunque quello di perfezionare la concertazione svolta dal maestro del coro nell’ottica di una coerente narrazione scenica. Diverso è invece l’approccio per il repertorio sinfonico-corale in cui il direttore deve concordare nei dettagli un lavoro preliminare con il maestro del coro. È necessario infatti definire prima un preciso progetto di concertazione che possa essere svolto nelle settimane che precedono l’inizio della produzione e che poi trovi perfetta corrispondenza nelle prove d’assieme con l’orchestra. Nella mia recente realizzazione del Requiem di Cimarosa per la fondazione Arena di Verona il lavoro preliminare in accordo con il maestro Vito Lombardi è stato determinate per finalizzare la preparazione del coro con una sola prova di sala. Questo perché il coro, avvantaggiandosi di un lavoro con un maestro stabile, può avere una programmazione più dilata nel tempo, diversamente dall’orchestra che ha un piano prove che si esaurisce in prossimità del concerto.

All’interno di uno spettacolo d’opera il coro necessita di un gesto diverso e specifico rispetto all’orchestra?

Più che un gesto specifico il direttore d’orchestra nella buca deve aver maturato degli automatismi specifici. In particolare deve essere in grado di aggiustare o ancor meglio prevenire eventuali scollamenti dovuti alle distanze e alla disposizione, anticipando o ritardando con la mano sinistra attacchi o andamento generale del tempo. Nell’opera la disposizione del coro segue le necessità della scena e non la divisione in sezione. Succede perciò di frequente che i coristi siano mischiati, che cantino in movimento oppure che una sezione si trovi prima in un punto e poi in un’altro. Per risolvere al meglio tutte le difficoltà del caso sono determinanti le prove di assieme in cui ogni artista del coro prende i propri riferimenti anche con l’eventuale ausilio dei monitor di riporto. La buca impone anche una diversa altezza del piano su cui “appoggia il gesto” che evidentemente per il coro e i solisti (ovvero per il palcoscenico) si trova più in alto del normale. Approfitto di questa domanda anche per chiarire il mio punto di vista su un’eventuale differenza tra il gesto del direttore di coro e quello del direttore d’orchestra. Un direttore è un direttore qualunque gruppo diriga e un bravo professionista sa come “aggiustare” la propria gestualità in base alla musica e a alle necessità del musicista che la realizza in quel momento. Per esempio conosce come dare un attacco “dal niente” a un gruppo d’archi, come dare l’attacco alla sezione degli ottoni in pianissimo (secondo tempo della Sinfonia n. 9 di Dvořák) o come far respirare il coro per l’attacco del mottetto Ave verum corpus di Mozart. Sono tre situazioni simili ma che necessitano di tre diverse soluzioni gestuali molto diverse. Dirigendo quindi un coro a cappella bisogna conoscere le esigenze specifiche delle voci e assecondarle senza però che si finisca per creare una gestualità poco efficace e con il solo scopo di prevenire cantori a cui non è stato insegnato come andare a tempo, come seguire un gesto piccolo o come respirare con il giusto anticipo. Questa considerazione vale soprattutto per i cori amatoriali i cui cantori sono spesso più svegli di quanto si creda (se ben guidati!).

Certamente il lavoro con il coro lirico permette un contatto più diretto e articolato nel repertorio sinfonico-corale. In questo caso ha l’impressione di avere tra le mani uno strumento molto diverso per “funzionamento” e “reazione” rispetto a un buon coro amatoriale?

Non penso ci siano differenze a livello di funzionamento o di reazione per un direttore che passi da un buon coro amatoriale a un coro lirico. Forse un direttore abituato a un coro amatoriale sarebbe sorpreso dalla quantità di suono che può avere un coro lirico e non dovrebbe reagire cercando di paragonare ciò che sente ai parametri a cui è abituato, ma sperimentare nuove sonorità. Più che nella natura del coro queste differenze di reazione si riscontrano quando cambia il numero dei cantori: un grande coro ha un tempo di reazione più lento così come un coro che canta più distante dal direttore.

L’abitudine a cantare con il sostegno di un’orchestra crea nel coro lirico un’immagine sonora diversa che poi permane anche in esecuzioni a cappella?

La differenza nell’immagine sonora di un coro lirico che canta a cappella è insita nelle caratteristiche vocali degli artisti del coro e certamente nell’abitudine a cantare accompagnati dall’orchestra. In particolare questa è una differenza che ho potuto cogliere con grande chiarezza tutte le volte che ho diretto i Quattro pezzi sacri di Giuseppe Verdi che alternano due pezzi con grande orchestra: Te Deum e Stabat Mater, a due pezzi a cappella, Ave Maria (costruita sulla famosa scala enigmatica) e Laudi alla Vergine. Inoltre dirigere questi ultimi due pezzi risulta particolarmente difficile perché ci posso essere anche sette/otto metri di distanza dalla prima fila delle voci e in mezzo settanta professori d’orchestra, insomma una direzione con “distanze da coronavirus”. Ho avuto modo di eseguire gli stessi pezzi anche con cori amatoriali e l’immagine del suono era molto diversa, non solo per potenza ma anche per espressività, con una resa da parte del coro lirico più coerente e stilisticamente appropriata. Per il repertorio lirico e sinfonico-corale una voce lirica diventa necessaria non solo per riempire grandi spazi con facilità e sovrastare i grandi organici strumentali ma anche per la specifica espressività. Allo stesso modo certo repertorio contemporaneo, rinascimentale o barocco/classico, soprattutto se eseguito con organici ridotti e strumenti originali, necessita di altre caratteristiche vocali e musicali. In Italia al di fuori degli enti lirici e del coro dell’Accademia di Santa Cecilia non abbiamo una grande tradizione di cori professionali che possano affrontare questi repertori come accade all’estero, ad esempio con i cori delle radio nazionali, in compenso alcuni ottimi cori amatoriali hanno affrontato questi repertori con grande qualità e importanti risultati artistici.

L’esperienza parallela in gruppi corali amatoriali e professionali porta certamente a paragoni nelle modalità di studio ed esecuzione. Quello che non cambia è forse… la psicologia del cantore?

Per quanto riguarda la mia esperienza non ci sono differenze salienti nelle modalità di studio e di direzione. Questa considerazione al netto dell’insegnamento delle parti, che nel caso di un coro professionale è dato per scontato, ma forse anche per qualche buon coro amatoriale. Quando mi è capitato di lavorare con un coro amatoriale su un repertorio già conosciuto, il mio approccio sulla concertazione e sulla direzione è stato lo stesso che per un gruppo professionale. Viceversa mi è successo durante una prova di sala con il coro del Teatro Petruzzelli di Bari di prendere spunto da una “modalità” di concertazione più da coro amatoriale. Stavo provando Quando corpus morietur dallo Stabat Mater di Rossini e le voci maschili erano troppo violente, con un carattere militare sulle parole «paradisi gloria». Trovando quel punto particolarmente rilevante, invece che chiedere semplicemente più leggero e legato ho suggerito di cantare immaginando per ognuno quale fosse la cosa che desideravano di più quando sarebbero arrivati alla gloria del paradiso, un po’ come accade allo scoiattolo dell’Era Glaciale con la ghianda gigante che vede quando per un attimo approda al cancello dorato dell’aldilà. Ripetuto, il passaggio era esattamente come l’avevo in mente. Penso infine che tra le fila di un coro, amatoriale o professionale che sia, “aleggi” una psicologia simile e che un direttore deve essere se stesso e non cambiare modalità in base al tipo di coro che ha di fronte. Vorrei infine chiarire che amatorialità e professionismo non sono in contrasto. Intanto professionismo e professionalità sono due concetti ben diversi: ci posso essere amatori professionali così come professionisti non sempre professionali. L’essere professionali con la musica ovvero studiosi, appassionati, curiosi, puntuali, rispettosi, non ha nulla a che vedere con il fatto che la musica sia un lavoro oppure un hobby. Vorrei però sfatare anche il luogo comune che mi è capitato di ascoltare più volte in ambienti amatoriali secondo cui i professionisti sarebbero dei mercenari che non vedono l’ora di finire le prove e senza la vera passione degli amatori. Falso. Un coro è sempre formato da persone e in entrambi i casi ci sono persone positive e persone negative. Se devo dirla tutta, sono più sorpreso nel vedere troppo spesso proprio nell’amatorialità atteggiamenti rancorosi, individualisti e negativi che mal si sposano con il senso più alto del fare questa esperienza corale. Infine deve essere chiaro che l’esperienza amatoriale non è un ripiego del professionismo ma una scelta, un modo diverso di declinare e diffondere la musica in maniera capillare, generosa e accessibile a tutti. È una parte della formazione di base della cultura generale del cittadino, quella cosa che in Italia a livello diffuso continuano a fare solo cori e bande. Quando avremo la musica a scuola per tutti, il futuro della nostra gloriosa tradizione musicale vivrà il suo rinascimento.

Foto © Lorenza Daverio

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