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Dirigo anch'io? No, tu no!

di Walter Marzilli
dossier "Quel passo in più", Choraliter 65, settembre 2021

Dirigere è l’anagramma di digerire. Forse non è un caso, dal momento che è necessario digerire molte cose prima di dirigere. Per prima cosa bisogna digerire il giudizio degli altri, sotto due diversi aspetti. Prima bisogna aver digerito – nel senso di aver assimilato e fatto propri – i giudizi e i consigli dell’insegnante per migliorare la tecnica, l’approccio con gli esecutori, la conoscenza di ciò che sta dietro la partitura (perché ciò che sta davanti non è che la decima parte di quello che essa nasconde), l’efficacia del gesto, la consapevolezza delle varie prassi esecutive e ancora decine di altre cose, il cui elenco sarebbe troppo lungo per esporlo in questa occasione. In secondo luogo bisogna aver digerito il giudizio degli altri intesi come “pubblico”, nel senso che il direttore è una persona che deve essere in grado di voltare le spalle al pubblico. E infatti, tra tutti gli esecutori, è l’unico ad assumere questa posizione, in senso fisico e metafisico, con tutto ciò che ne consegue in termini di sicurezza di sé (non presunzione), certezza delle proprie decisioni (non spavalderia), capacità di difendere le proprie scelte (non supponenza né impreparazione).

Naturalmente bisogna avere anche digerito centinaia di ore di studio, di approfondimento, di conoscenza e di sperimentazione. Perché la direzione abbraccia in sé molti aspetti, da quello gestuale alla vocalità, dall’acustica al recording¸ dalla gestione delle prove all’alfabetizzazione musicale. Ultimo, ma non ultimo: l’approccio psicologico con i cantori. Se è vero, infatti, che ogni coro potrebbe scrivere un libro sul comportamento e le “frasi storiche” del suo direttore, è anche vero che ogni direttore potrebbe scrivere un libro sui cantori, e sarebbero tutti bestseller!
E poi bisogna aver digerito anche se stessi; nel senso che ogni direttore deve stare bene con se stesso, poiché deve auto-riconoscersi la dignità e l’autorevolezza per stare davanti a un gruppo di persone e guidarle attraverso un percorso complicato e articolato, che si snoda attraverso vari aspetti, tutti ugualmente importanti: musicale, artistico, culturale, psicologico, umano…

Ma diamo uno sguardo all’indietro per vedere cosa succedeva nel passato.
Risulta piuttosto difficile stabilire esattamente quando sia iniziata l’avventura del direttore. Nel Rinascimento si usava già la bacchetta, ma era molto lunga e serviva più che altro per “toccare” i cantori al fine di dare loro il cosiddetto tactus (dal latino contatto, tocco), come si può vedere nel dipinto su anta di organo di Jörg Breu il Vecchio (1475-1537) (fig. 1). In numerose altre occasioni il tocco era dato direttamente sul cantore con le dita, come si vede due volte nell’intarsio di un leggio di legno del 1518 (fig. 2).
Ma per l’arrivo del direttore vero e proprio bisognerà attendere ancora molti anni. Ho già avuto modo di raccontare dalle pagine di questa rivista come all’inizio ci fossero due figure a guidare contemporaneamente l’orchestra: il Konzertmeister e il Kapellmeister.
Il primo era l’attuale spalla dell’orchestra, il primo violino, che guidava di fatto gli esecutori con i movimenti del suo archetto. In realtà anche adesso, quando i gesti del direttore non sono molto chiari, ci pensa il primo violino a sbrogliare le situazioni difficili e pericolose. Il primo violino-direttore non aveva ancora la partitura completa, ma usava una sorta di riassunto che comprendeva le varie entrate più importanti e la parte completa del basso.
Il Kapellmeister era il maestro al cembalo, e da lì si occupava dei recitativi, dei solisti e delle prove (le rare volte in cui venivano fatte!).
Per la verità, secondo quanto scrive Giuseppe Scaramelli (G. Scaramelli, Saggio sopra i doveri di un primo violino direttore d’orchestra, Weis, Trieste, 1811) il primo violino mai avrebbe permesso al maestro al cembalo di sottrargli la palma di direttore d’orchestra. È anche vero che il suo giudizio potrebbe essere stato di parte, essendo lui “primo violino direttore d’orchestra” del teatro di Trieste (così si firma nel suo libro). In seguito, la sempre maggiore complessità delle partiture condusse alla necessità di unificare in una figura sola le due precedenti (l’attuale “maestro direttore e concertatore”, come si legge ancora adesso in molti cartelloni).
Nel 1785 una stampa di Christophe Guerin ritrae Franz Xaver Richter nell’atto di dirigere tenendo in mano un foglio di musica arrotolato, ma questa non è la prima occasione in cui ciò accadeva (fig. 3).
Infatti il foglio arrotolato era già in uso nel 1600, come risulta da un dipinto di Pietro Paolini (1605-1681) (fig. 4).
Sembra che sia stato Carl Maria von Weber (1786-1826) a introdurre la bacchetta a Dresda nel 1817, mentre Ludwig Spohr (1784-1859) nello stesso anno l’avrebbe introdotta a Francoforte. In senso generale c’è chi fa risalire la prima direzione a Johann Friedrich Reichardt (1752-1814) e chi a Niccolò Paganini (1782-1840). Più tardi una stampa ritrae Giuseppe Verdi con una grossa bacchetta, più in uso tra i direttori di banda che di orchestra (fig. 5).
In realtà sembra trattarsi più di una caricatura che di una immagine veritiera; la didascalia recita infatti genericamente: Italian Music.
In effetti esiste un’altra immagine di Verdi che lo ritrae alla guida di un’orchestra in teatro (sullo sfondo si riconosce lo schizzo di uno dei palchi), con una bacchetta vera e propria nella mano destra, molto simile a quelle odierne, seppure un po’ più lunga (fig. 6).

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Ancora nel 1950 si consigliava di usare una bacchetta piuttosto lunga, pari a 50 cm. Per questa lunghezza si suggerisce di guardare il video, seppure ilare, di Danny Kaye del 1962 con la National Symphony Orchestra, ma esistevano casi in cui la bacchetta era ancora più lunga, come si può vedere in un altro video.
Nel 1990 la lunghezza media si era ridotta a 30 cm. La cosa migliore sarebbe commisurare la bacchetta al proprio braccio: si ritiene che impugnando la bacchetta all’indietro e ponendo la peretta nel palmo della mano la punta debba cadere dentro l’incavo interno del gomito.
Certamente la bacchetta è inscindibilmente associata all’orchestra e non al coro.
Ho visto casi in cui un piccolo gruppo di cantori veniva diretto usando una piccola bacchetta. Da sconsigliare vivamente.
Altra cosa è se vuoi tenere in mano il diapason (a volte lo faccio anch’io) per non stare sempre a metterlo in tasca dopo ogni intonazione (e se lo metti sul leggio facilmente cadrà durante lo sfogliare delle pagine, oppure rimarrà sotterrato e nascosto tra le pagine voltate…). Oltretutto il diapason metallico, con la sua brillantezza (quelli più vecchi, di colore nero, no), è in grado di dare un po’ di luce al movimento della mano, rendendolo più chiaro e visibile: ecco perché non bisogna inglobarlo all’interno della mano stringendolo alla fine dei rebbi e mostrandone solo la punta! D’altra parte, tenendo il diapason in mano, si perde l’espressività della mano destra aperta e libera, che i direttori d’orchestra ci invidiano, costretti come sono a tenerla chiusa intorno alla peretta. Tanto è vero che nei momenti particolarmente cantabili passano frequentemente la bacchetta nella mano sinistra, proprio per liberare l’espressività della destra dalla rigidità del legno. 

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A questo proposito si veda il video di Neeme Järvi alla guida dei Berliner, per un breve momento al quarantesimo secondo del Valzer dei fiori di Čajkovskij [3].
Osservate anche Simon Rattle alla guida della City of Birmingham Symphony Orchestra nella seconda sinfonia di Mahler [4] quando ferma a lungo la bacchetta dal minuto 31’30’’. In certi casi la bacchetta viene abbandonata del tutto in alcuni periodi della propria attività, come in due video di un Karajan giovane [5] e anziano [6] alle prese con il Dies irae dal Requiem di Verdi. Nel secondo dei due filmati Karajan mostra un uso piuttosto rilevante (per non dire esagerato) della cosiddetta “tecnica dell’anticipo” (per un approfondimento a riguardo si veda l’articolo precedentemente citato).
In altri casi la bacchetta viene ridotta davvero ai minimi termini, come quella volta in cui Valerij Gergiev diresse l’overture de La forza del destino di Verdi con uno stuzzicadenti [7]. Non so quale sia stata la ragione di questa curiosa scelta, magari c’è di mezzo una qualche situazione particolare (goliardia, gioco, scommessa, presa in giro dei colleghi?), ma in ogni caso, vi dico la verità, io non credo che avrei suonato diretto da uno stuzzicadenti…
Termino apparentemente in contraddizione con il ruolo estrinseco ed esuberante del direttore, invitandovi a guardare il video di Bernstein mentre non dirige i Wiener nel quarto movimento della Sinfonia n. 88 di Haydn [8]

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