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Io la sento così.
Riflessioni ed esperienze su coro e coralità.

di Stojan Kuret*
dossier "Quel passo in più", Choraliter 65, settembre 2021

«Io la sento così». Questa è la giustificazione-risposta che troppe volte mi viene data dai giovani aspiranti direttori alla mia domanda: «Perché così?». Con la loro semplice risposta non si ha modo di avere elementi sufficienti che spieghino il processo che ci porta a “sentirla così” e che rendano tali elementi verificabili e condivisibili. È fondamentale comprendere le argomentazioni che sono alla base del mio/tuo sapere e di conseguenza la mia/tua decisione di optare per questa scelta vocale, dinamica, interpretativa piuttosto che per un’altra. La verità non è una sola. Si può parlare di verità perché appartiene a una sorta di teoria, quella teoria di cui ciascuno di noi è autore e protagonista.

Nella musica corale le scelte direttoriali sono ancor di più essenziali e fondanti. Il nostro compito e la nostra responsabilità verso i colleghi (musicisti), verso i coristi, verso il pubblico, verso la musica è di fare proposte argomentando, ponendoci il problema etico e arrivando così all’atto interpretativo inteso come conclusione di un processo di studio, ricerca, approfondimento.
Questo modo di procedere può e deve diventare una solida base di partenza dalla quale allontanarsi poi per trascendere, lasciandosi andare al cosiddetto istinto musicale, durante un’esecuzione in concerto, per esempio. Nel momento in cui ridiamo libertà a quel mondo razionale e scientifico che fa parte di una necessaria fase di preparazione precedente, può avvenire il salto di qualità.
Possiamo diventare relativamente presto dei buoni preparatori di coro (nello sport abbiamo il correlativo direttore sportivo/preparatore atletico), ma per diventare un buon direttore ci vuole altro. La via da seguire è ben definita e organizzata dal piano di studi nelle accademie e nei conservatori di musica a livello universitario: di solito è un percorso educativo parallelo a quello del compositore, con la differenza che il compositore compone/scrive, mentre il direttore dirige/esegue. La maggior parte delle materie ha il compito di farci apprendere differenti teorie attinenti, ma il vero problema sorge nel momento in cui ci rendiamo conto che un direttore non ha uno strumento con cui provare, sperimentare, allenarsi. Con un po’ di fortuna, al primo anno c’è la possibilità di sbacchettare davanti a un’orchestra o a un coro da camera in formato ristretto. All’inizio veniamo ben definiti dalla nostra precedente formazione musicale, quella di strumentista, nella maggior parte dei casi in quella di pianista o organista, con la differenza che il primo ha una visione più lineare, orizzontale della musica, mentre il secondo ce l’ha più verticale.
Al direttore (di coro) servono assolutamente sia l’una che l’altra, meglio ancora se completata da un’esperienza polifonico-vocale-corale. Parte quindi avvantaggiato chi ha avuto la fortuna di cantare in un coro, avendo l’opportunità di conoscerlo senza forzature né obblighi e nel modo più naturale possibile, scoprendo così lo strumento musicale più diretto e istintivo che possediamo: la voce umana.

Partendo dal presupposto che il feto già prima di venire alla luce ascolta e sente tutto ciò che avviene attorno a sé e in seguito, anche dopo la nascita, sarà accompagnato (si spera…) dal canto materno, è facile che il canto (la musica) diventi un suo compagno inscindibile. L’essere umano è plasmato dalla musica, è definito grazie alla musica e tanto più si sviluppa, quanto più la pratica.
Personalmente ho avuto questa fortuna: a casa mia si è sempre cantato. Questa esperienza è continuata all’asilo e poi nella scuola dell’obbligo che frequentai parallelamente a quella musicale, entrando automaticamente anche in un coro di bambini. La musica diventò così parte della mia vita senza alcuna forzatura; come l’educazione fisica e in seguito il nuoto, lo sci, la pallavolo, la vela e così via. Devo dire che, essendo mio nonno e mia madre maestri di scuola elementare, il modello di educazione è stato abbastanza rigoroso e rigido, uno status quo. Raggiunta una solida base pianistica, scoprii ben presto quante chance e quante emozioni la musica poteva offrirmi.
A sedici anni il mio maestro, che era anche il direttore della scuola di musica, mi chiese se me la sentissi di prendere in mano il coro di voci bianche dell’istituto, il coro dove avevo cantato per anni. La cosa mi meravigliò e incuriosì all’istante. Naturalmente la scuola mi offrì tutto il sostegno necessario e fui subito indirizzato a seguire regolarmente vari corsi di direzione corale per voci bianche che si tenevano regolarmente nella vicina Slovenia. La scuola migliore, però, fu proprio il lavoro con il coro, il cosiddetto lavoro frontale. Mi resi subito conto della necessità di un approccio più personale nel ricercare nuovi elementi per ampliare l’organico. Partito con sei bambine riuscii di lì a poco a raggruppare altri elementi, per raggiungere prima trenta, fino ad arrivare a dirigere un coro di settanta bambini. Ho potuto così vivere in prima persona tutte le fasi dell’evoluzione di un coro, dapprima musicale poi organizzativa. Tutto è dipeso dalla mia voglia di fare e dalla mia preparazione. Entrai in un mondo nuovo che potevo gestire e organizzare a modo mio. Le informazioni che ricevevo regolarmente durante i vari corsi e aggiornamenti mi stavano aprendo nuovi orizzonti, facendomi scoprire sempre nuove e affascinanti realtà musicali, grazie alle molteplici possibilità che la musica corale mi offriva. Un nuovo mondo musicale senza il quale non potevo più vivere!
Dopo un anno di studi al corso di economia e commercio dell’Università di Trieste decisi di provare a fare gli esami di ammissione all’Accademia di musica di Lubiana nella classe di direzione d’orchestra, l’unica scuola di direzione nelle vicinanze. Durante tutto il percorso accademico, però, continuai ininterrottamente a coltivare le mie voci bianche che pian piano, crescendo, indirizzai nel coro femminile, formando di seguito anche un coro giovanile misto. In quindici anni creai dal nulla una piramide corale continuando anche a cantare nel coro misto della scuola di musica slovena a Trieste.

Vivendo l’esperienza dall’altra parte del leggio si impara molto (anche quello che non si deve fare!). In termini di vocalità prediligevo sicuramente le voci pulite e ferme. Avendo avuto modo di sentire sull’argomento varie scuole di pensiero e di tradizioni storiche, intrapresi presto una mia via basandomi su un gusto personale che teneva conto naturalmente di tutti i suggerimenti e di tutta l’esperienza acquisita negli anni. Oltre ai corsi specialistici frequentavo regolarmente anche tutti i festival, rassegne, concorsi e il maggior numero di concerti possibili, perché era l’unico modo allora di conoscere e scoprire la nuova musica corale e di tendenza. Già durante lo studio a Lubiana mi era stata offerta la direzione del blasonato coro misto dell’università di Lubiana (apz Tone Tomšič) che rifiutai perché in quel momento non mi sentivo ancora pronto, non ancora abile ad affrontare la vocalità maschile che conoscevo ancora troppo poco. La responsabilità mi sembrava troppo grande e sarebbe stato come sedermi al volante di una Ferrari dopo pochi anni di esperienza di guida

Il suono di per sé non è ancora musica

Sono partito dal racconto della mia esperienza personale per spiegare il mio pensiero sull’educazione e la preparazione di un direttore, e su ciò che secondo il mio parere un direttore dovrebbe sapere prima di presentarsi davanti a un coro.
Sono sempre più convinto che tutti gli aspiranti direttori, dopo aver terminato un percorso di educazione adeguata, dovrebbero incominciare a cimentarsi con un gruppo di bambini, una palestra veramente formativa per un giovane direttore. Potremmo paragonare questa opportunità al lavoro con una massa di argilla da plasmare, a nostro gusto sì, ma allo stesso tempo con la consapevolezza della grande responsabilità che comporta svolgere una tale azione.
Il suono di per sé non è ancora musica, ma solo una vibrazione regolare di un corpo elastico. Necessita della coscienza umana per essere trasformato, per diventare veramente musica. Solo così possiamo trasformare questa straordinaria forma di comunicazione – quella sonora – in comunicazione musicale. Il suono, ossia la vocalità del coro, diventa così la prima cosa da curare.

Qual è il modo giusto per insegnare a cantare? Esistono varie scuole, diverse tecniche e le donne forse hanno più facilità nelle esemplificazioni. Personalmente non ho avuto problemi, perché abituato da sempre a cantare tutte le voci. Tutto dipende da che vocalità si predilige; quella più tenue, più vicina al flauto dolce, oppure la scelta di suoni più brillanti senza l’impiego del vibrato o ancora voci diritte, con un legato naturale, facendo scorrere le sillabe insieme in un continuum regolare. La vocalità deriva dalla costante ricerca di una sonorità adeguata, mirata a rendere il suono omogeneo, equilibrato e compatto, ma lasciando sempre al corista un po’ di libertà di esprimersi con le proprie caratteristiche vocali.
Viaggiando molto spesso in macchina (da solo) sfruttavo questi tempi morti esercitandomi nella ricerca di migliorare la mia vocalità, prima di esigere risultati dai coristi. Sapevo che con esempi dal vivo, dimostrandolo praticamente soprattutto con i bambini, potevo raggiungere prima questo scopo. Il coro di conseguenza cercava subito di riprodurre, imitando, quello che ascoltava. Se io ne ero capace, potevo esigerlo da loro.
Questo vale anche per tutte le difficolta tecniche d’intonazione e musicali in genere.
Educando i bambini all’ascolto, offrendo loro sempre più esempi e quindi la possibilità della scelta giusta (rendendoli consapevoli e attivamente partecipi nelle scelte che vengono fatte), sviluppiamo in loro anche il senso critico, educandoli anche alla nostra visione estetica (cosa notevole, siamo infatti in grado di influenzare positivamente, ma purtroppo anche negativamente se le nostre percezioni sono frutto di scelte sbagliate).
I bambini non hanno pregiudizi, né sanno cosa sia la paura o la difficoltà. Se motivati, sono pronti a tutto, senza pensarci molto.
Per l’aspirante direttore diventano un ottimo strumento nonché il miglior laboratorio non solo per provare, ma anche per vivere costantemente sulla propria pelle le scelte più o meno felici sia di vocalità, di gestualità, che quelle musicali. Naturalmente tutte in relazione tra di loro! La realtà dipende sempre da chi abbiamo davanti. Lavorando regolarmente col proprio coro si conoscono benissimo i singoli coristi. Un maestro attento terrà aggiornata la scheda di ogni cantante per seguirne l’evoluzione tecnico vocale e musicale.

Non dimentichiamo mai che il livello del nostro coro dipende dal più debole dei nostri coristi; la catena risulta tanto forte, quanto lo è il più debole degli anelli che la compongono. Sulla base di queste informazioni possiamo scegliere il programma: l’ambitus delle singole voci, il numero delle singole voci (i divisi), la difficoltà tecnica richiesta (in ambito orizzontale nello scorrere delle singole voci e nelle loro svariate combinazioni verticali) sia melodica che vocale. E non per ultimo la padronanza e dimestichezza della lingua nella quale il pezzo è composto. Tutto questo deve essere ben valutato nel momento in cui decidiamo di studiare un brano.
Prediligo sempre composizioni sconosciute o poco eseguite e la musica contemporanea (come prima esecuzione) rappresenta un’ulteriore sfida di interesse intellettuale. Cimentandomi con questa musica sento sempre una grande libertà, ma nel contempo anche una grossa responsabilità sia nei confronti dell’autore che della musica stessa. È auspicabile anche una continua collaborazione e uno scambio di vedute con l’autore, che è sempre fonte inesauribile di informazioni necessarie che ci aiutano ad avvicinarci all’idea che lo ha portato a creare il pezzo. Nel definire qualsiasi programma cerco sempre di immedesimarmi nel pubblico che deve rimanere sempre attento e incuriosito, se non meravigliato, dal materiale proposto in esecuzione.

In tutto questo tempo ho raccolto e selezionato molti brani, ne ho eliminati molti di più, ricevendo nel contempo nuove e importanti informazioni sulla vasta letteratura corale esistente. Proprio la possibilità di aver letto e ascoltato tanta musica mi ha reso selettivo nelle scelte. Se e quando decido di cimentarmi con un “classico mostro sacro”, devo essere sicuro di poterlo proporre con successo. Tutti, ascoltandolo, avranno all’istante davanti a sé l’esecuzione di “quel meraviglioso coro” per metterla a paragone con la mia. Ho veramente lo strumento adatto per eseguirlo? I miei coristi hanno già raggiunto un’educazione e una tecnica necessaria, nonché una maturità emotiva per apprezzarlo e trarne soddisfazioni e insegnamenti? Cosa cerco di raggiungere pedagogicamente, cosa potremmo imparare? Ci devono essere sempre diversi validi motivi che ci guidano e motivano nella scelta, non soltanto il famoso «ma mi piace tanto…». Prima di affrontarlo in classe o in prova devo conoscerlo a fondo. Leggendo e cantando ogni parte mi rendo realmente conto delle difficoltà che i coristi dovranno affrontare, prevedendo ogni genere di ostacoli e risolvendo a tavolino tutti i possibili errori che potrebbero emergere durante lo studio, divento cosciente, pronto a reagire e a saper rispondere a ogni possibile domanda. Studiando ogni singola voce e mettendola in relazione con le altre potremo scoprire anche le preziosità più minime per poterle così valorizzare appieno. Dobbiamo semplicemente ripercorrere la strada che il compositore ha intrapreso prima di selezionare il testo e metterlo in musica, cercando di scoprire le motivazioni delle sue scelte musicali. 

Il messaggio sonoro

L’affinità e la sensibilità del maestro lo guideranno pure nelle scelte sulla vocalità e sul suono del coro. La qualità vocale dell’impatto sonoro è il primo messaggio, il vero biglietto da visita di ogni formazione corale offerto a chi lo ascolta e che per primo lo caratterizza.
Tutto dipende dalla cura e dalla qualità della tecnica vocale che il maestro e i coristi ricercano e curano costantemente. Avvicinando il modo e la produzione vocale delle sezioni, cercando di bilanciare prima le singole voci (e di conseguenza tra di loro i due cori femminile e maschile), si contribuirà decisamente a una diversa qualità di produzione vocale. Una piccola differenza di colore ed emissione di una singola vocale all’unisono si ripercuote drasticamente sull’intonazione. Il passaggio di vocale in vocale influisce notevolmente sulla qualità d’intonazione se la posizione e l’impostazione delle vocali non vengono curate in anticipo, equilibrate e unificate, risolvendo già alla radice i non pochi problemi che ne derivano.
Rendiamoci conto che il vibrato di per sé è un’alterazione di frequenza; nella musica in genere fa parte del ricco bagaglio di possibilità di espressione aggiunte, che va usata con moderazione per non svalutarla. Anche il canto troppo sillabato può diventare un continuo sperpero di energia, che provoca numerosi appoggi rendendo impossibile un legato adeguato e ricercato. L’obiettivo è ottenere un continuo fluire della frase indirizzandola sempre verso la sillaba della parola cardine. La dovuta attenzione all’articolazione delle consonanti evoca automaticamente la giusta pressione necessaria per un’emissione delle vocali ben impostata. Inoltre, prendendosi cura della consonante finale e mantenendo la pressione necessaria, si contribuirà a ovviare a un rilassamento d’intonazione (dopo un “perdere” di tensione espressiva di fraseggio dinamicamente e musicalmente logico alla fine di ogni frase). Lo stesso vale per l’attivazione delle doppie consonanti che rendono chiarezza nella pronuncia e più precisione ritmica.
Tutto questo fa o dovrebbe far parte del bagaglio tecnico di ogni direttore poiché influisce direttamente sulla qualità e sulla precisione del coro. Il coro è sempre lo specchio del direttore e il coro che abbiamo davanti è proprio quello che meritiamo.
Possiamo continuare con un’ulteriore riflessione sull’intonazione, in riferimento sia a quella orizzontale (di successione di una serie di intervalli) sia a quella relativa al rapporto con una o più voci, che porta a considerare altri rapporti e nuove relazioni. Senza rendercene conto, cantando applichiamo l’intonazione naturale, mentre aggiungendo uno strumento temperato (la maggior parte delle volte il pianoforte) l’intonazione cambia (diventando, appunto, temperata). Anche intonare un unisono è differente dall’intonare due voci, poiché mette in risalto le imprecisioni.
Un discorso a parte meriterebbe l’intonazione e il bilanciamento delle varie sonorità nella verticalità. Teniamo presente la successione armonica: ci basiamo sul suono della fondamentale (che difficilmente si trova nel soprano acuto!)? Partendo dalle consonanze semplici e poi di conseguenza procedendo con quelle più complesse si comincia con l’ordinare gli intervalli giusti (che tali devono essere) – unisoni, ottave, quarte e quinte – perché costituiranno la base su cui mettere in relazione a loro volta terze e settime, con ritardi e risoluzioni. Il direttore deve in primis educare l’ascolto lineare per poi metterlo in relazione, verticalmente, nella sua funzione armonica.

Scoprire i rapporti e metterli in relazione

Organizzare un pezzo musicale è sempre una bella sfida. Pur sembrando semplice ed elementare (a una voce, magari anche strofico), un brano dovrebbe essere reso bello e interessante. Questa è anche la strada giusta per poter poi salire di grado e di difficoltà.
Se non si è capaci di organizzare un buon unisono, come si può pensare di poterlo fare a quattro o più voci? Con il termine “organizzare” intendo “analizzare”, scoprire le varie possibilità interpretative che il pezzo ci offre, risolvendo prima ogni frase e mettendo poi le singole frasi in relazione (vale anche per le strofe) tra di loro, per costruire una struttura musicale logica e nel contempo anche solida.
Prima di tutto bisogna però scoprire cosa rende un’interpretazione brutta, noiosa o bella: brutta, se non si rispetta la natura dello stile, per esempio quello polifonico che esige chiarezza delle singole linee; noiosa se inespressiva nei colori o troppo ricercata e con una vocalità contenuta. Una buona esecuzione dipenderà dalla padronanza di una ordinata successione infinita di piccoli dettagli, sempre in relazione tra di loro.
A mio parere diventa tutto più facile se questa forma (naturalmente ispirata dalla stessa composizione) diventa un progetto (idea) musicale molto chiaro, prima ancora di essere presentata e provata con il coro. Personalmente preferisco offrire (anzi, servire) ai coristi fin da subito tutte le informazioni relative al brano, già quando si affronta la prima lettura della nuova composizione.
Disponiamo di svariate dinamiche; un rumore fortissimo (dissonanza) ha dentro di noi una corrispondenza: lo sgomento, la paura o la tensione ad esempio. Mettendolo in relazione con una semplice consonanza si crea una relazione di suoni (tensioni). Ed è proprio questa la cosa fondamentale e necessaria; servirsi necessariamente di una struttura narrativa, orientando delle semplici ripetizioni di suoni per affermare sempre di più o viceversa per attenuare.
«Nella musica l’ambizione è di vivere la fine contenuta nell’inizio» (è un’affermazione dell’incredibile musicista e direttore Sergiu Celibidache che ho potuto seguire negli anni dopo il diploma ai corsi a Saluzzo e in Germania).
Vivere il progetto/percorso prima di partire, tenendo sempre ben presente nella mente la fine contenuta nell’inizio. L’assenza di tensione dell’inizio è simile a quella della fine. Quando noi parliamo, abbiamo già chiaro nella mente dove desideriamo arrivare. È come il seme che ha già in sé tutto il tragitto: dal germoglio al fiore, sino alla fine della pianta. Così ogni frase inizia, articolandosi arriva a un punto culminante, e da lì giunge alla conclusione. Questo caratterizza ogni struttura narrativa: esporre (fase di estroversione), sviluppare (per arrivare all’esplosione culminante), per poi andare a concludere (fase di introversione). Questo concetto va tenuto sempre a mente nella fase dello studio e in esecuzione, tenendo presente cosa desideriamo sentire. È nostro compito scoprirne i rapporti e metterli in relazione. Solo così potremo creare un unico arco espressivo generale di una composizione, come inteso dal compositore.
Risulterà determinante il saper ripercorrere la strada fatta dall’autore, passo per passo, per scoprire il valore e le relazioni del singolo mattone (cellula) nella sua architettura. Dal silenzio, assenza di tensioni prima di incominciare, alla presentazione e all’evoluzione per raggiungere l’acme fino al ritorno verso il silenzio che ci accoglie dopo la nota finale. Questo processo di studio, che sarà consapevolmente vissuto e immedesimato da tutti, ci farà da guida anche nella scelta del gesto che ne consegue, equilibrato e misurato, un gesto sempre in funzione del testo preposto e mai scansione totalmente inespressiva del tempo o automaticamente fine a se stesso. Nel momento in cui vi preoccuperete del come farlo, il vostro focus si sposterà dalla centralità dell’idea musicale, facendolo decadere a un effetto coreografico, non attinente alla musica.
Proviamo a fare un paragone: mentre danzate vi viene mai in mente di pensare o preoccuparvi di dove mettere i piedi? Questo vale anche per le mani del direttore: un direttore cosciente, consapevole e concentrato sul minimo particolare indirizzerà, indicherà e farà ricordare le decisioni prese in prova, aggiustando il tiro in relazione all’istante, tenendo conto naturalmente anche dei fattori tecnici quali l’acustica del posto.
Occorre infatti anticipare sempre, conducendo e prevedendo. 

Emozioni, sentimenti, pensieri… in sinergia e dialogo

Quando conosci bene la strada ti ricorderai di frenare in anticipo sulla curva che stai affrontando, specialmente se vedi che la strada è anche bagnata. Può succedere che dovremo reagire nella scelta dei tempi e nelle dinamiche dei colori e valori, dovendo tenere conto dell’acustica più o meno generosa della sala da concerto. Le mani seguiranno sempre istintivamente e inconsciamente le idee musicali se il direttore ha ben presente cosa desidera sentire.
I tre schemi principali che servono al direttore si imparano in 15 minuti. Metterli in funzione della musica e prima ancora delle esigenze metriche delle singole parole, diventa una questione di pratica e sensibilità.

Troppe volte i giovani direttori si accontentano e accettano automaticamente l’idea metrica suggerita dallo scandire delle battute, dimenticando che queste servono solo a semplificare la lettura e che troppe volte stanno imprigionando o restringendo il testo e la linea musicale in scansioni automatiche, incatenando le frasi in un letto di Procuste.
Ho potuto subito notare come la diversa posizione corporea e la postura delle mani del direttore suscitano reazioni diverse nei bambini, influendo psicologicamente ed emotivamente sull’emissione vocale e sulla predisposizione fisica di un corista. Ci si rende conto troppo poco di quante espressioni trasmettiamo con le mani, sommando pure quelle del viso, degli occhi e della posizione del corpo. Perciò cerco sempre di convincere i coristi ad abbandonare quanto prima possibile le partiture, imparando la propria parte a memoria, per poter finalmente collaborare attivamente con le altre voci per trovare assieme quei rapporti giusti necessari. Solo così avremo la possibilità di creare qualcosa di più che solo una lettura più o meno approssimativa del testo.
Già durante le prove cerco sempre la connessione stretta del mio gesto con gli errori che ne derivano per troppo zelo o per poca precisione, sperimentandone anche l’efficienza o giusta opportunità.
Oggi il mio ruolo lo intendo più come coordinatore che cerca di ordinare (nella migliore delle ipotesi) l’esecuzione di un brano, confrontandomi anche con il nuovo ruolo dei cantanti, che diventano sempre più collaboratori attivi. Chiaramente questa fase può diventare realtà se prima ho formato ed educato una loro solida base.
Questa infinità di attenzioni e richieste ci aiuterà anche a distinguere la diversa qualità tra composizioni, scoprendo cosa pedagogicamente un pezzo ci può offrire e cosa vogliamo perseguire studiandolo. E non dimentichiamo che stiamo ancora parlando di voci bianche, cioè voci uguali. Vi immaginate il lavoro e l’impegno necessario per poter educare ad ascoltare, a reagire e unificare vocalmente e far scoprire come si collabora attivamente cantando assieme in un coro misto adulto che non ha avuto questa lunga e necessaria educazione e preparazione? Penso sia questo il modo giusto per intraprendere un lungo cammino formativo che dopo anni può fiorire e sfociare in qualcosa di più grande diventando molto più interessante e soddisfacente per tutti.
Il coro è in pratica un mondo in miniatura e per funzionare bene deve avere gli elementi che posseggono la capacità di interagire (di ascoltarsi e riprodurre insieme), con lo scopo di trovare un significato in ciò che si sta facendo insieme, liberamente, aiutati dalla musica ma non solo.
Perché dunque è uso dire che fare coro favorisce anche la crescita personale? Cantando, ascoltando, ricercando quelle giuste sonorità che ci accordano a noi stessi e agli altri, sviluppiamo quella che viene chiamata risonanza emotiva. Nel canto emozioni, sentimenti, pensieri, cercano e trovano sinergia, dialogando costantemente. Se è vero che siamo esseri empatici, è anche vero che la pratica corale agisce sul nostro sistema cognitivo, promuovendo e aiutandoci a consapevolizzare le nostre diverse capacità intellettuali. L’essere umano, costante e preziosa fonte di vibrazioni sonore positive, vive grazie al canto un ampliamento costante di sonorità che rappresentano un massaggio naturale per l’organismo. Propagandosi interagiscono, ricercando armonia e connessione con se stessi e il vicino, portandoci a sperimentare dimensioni, che aprono le porte a una nuova spiritualità.
Proseguendo nell’individuare i vantaggi del fare coro troviamo un aspetto legato alla socializzazione: ascoltare l’altro, sentire il clima del gruppo e aspirare all’armonia, ricercare costantemente collaborazione, rende il nostro essere più sociale.
Musica, medicina, arte, salute dialogano sempre più; nel rivalutare i benefici e l’importanza della musica per l’essere umano contribuiamo a divulgare una visione più olistica della vita e una diversa qualità del nostro essere sulla terra. E, non certo ultima come considerazione, non sottovalutiamo il fatto che il canto, il coro, la vita corale ci aiutano a sentirci meno isole e ad alleviare e ad allontanare uno dei mali del nostro secolo: la solitudine.

Per un’interpretazione meditata

La scelta del repertorio adatto alla formazione che abbiamo davanti è di basilare importanza per l’educazione. Per un coro amatoriale l’enorme numero di note, difficilmente memorizzabili in una composizione, può richiedere innumerevoli ore di prove in più, processo che può sopraffare un pezzo e – alla fine – ucciderlo. È nostro compito educare i coristi in modo che li porti a rendersi conto di dover cantare come si canta in un quartetto (duetto o trio), con tutta la responsabilità e sicurezza interpretativa dovuta. Solo così la polifonia può funzionare e risultare eseguibile anche in una formazione numericamente più consistente e ogni cantante si sentirà parte integrante e necessaria nell’offrire il proprio tassello, senza il quale il mosaico risulterebbe incompleto.
Ogni coro, anche quello di voci bianche, deve cantare a cappella come necessità di base. Scegliere una composizione complessa, con voci divise, molti cambiamenti di tempo, di espressione e colori, richiede grande impegno per tutti. Il repertorio più semplice invece ci permetterà una ricerca più approfondita di passaggi da scoprire e valorizzare, prendendosi cura anche della parte recitata del solo testo, nel più nascosto dei significati.
Avete mai notato la differenza di espressione e vocalità prodotta quando un coro canta e interpreta nella propria madrelingua, potendo offrire all’auditorio le molteplici sfumature (anche onomatopeiche) che ogni idioma possiede intrinsecamente, ma che senza la capacità di sentirne le modulazioni e molteplici significati sottintesi rimarranno più o meno celati e per sempre nascosti e orfani? Troppo spesso sottovalutiamo questo fattore con le innumerevoli possibilità di colori ed espressività interpretative che la sola recitazione ci offre. Molte volte è proprio questa (la recitazione) ad aiutarci a trovare conferma nel decidere dove portare il fraseggio. Basti pensare come cambia tutto se si porta l’appoggio della frase su una determinata parola o su un’altra; tutto sta nello scoprire dove il compositore ha deciso di farlo. Nello stesso modo, a tavolino, dobbiamo definire anche l’articolazione, decidendo (dopo un’attenta lettura) dove andranno messe le consonanti finali (prima della pausa o sulla pausa), come articolare bene quelle doppie (che si susseguono) e i rispettivi segni di respiro; così come dove assolutamente questo non andrebbe fatto, per non interrompere il flusso musicale.
Tutte queste dinamiche determinano un’interpretazione (pur sempre un punto di vista personale) meditata e maturata nel tempo altrimenti la nostra risulterà una lettura superficiale del tipo: «ma io la sento così!». Ho detto «maturata nel tempo» perché anche noi con il tempo cambiamo, maturando grazie a continue nuove esperienze vissute e a una costante ricerca.
Il direttore dovrebbe trovare il giusto equilibrio tra la ricerca del particolare e quella di costruire un buon suono corale di base, per rendere il coro affidabile, adattabile, come uno strumento, a situazioni differenti. Ed è proprio con la polifonia che possiamo insegnare ed educare l’uguaglianza attiva. Le parti vocali nella musica polifonica (rinascimentale) ci guidano nella ricerca della chiarezza delle singole linee senza limitazioni di stanghette di battuta, scoprendo e rivalutando la ricchezza metrica (anche composta) delle singole voci, ricordando che ogni cantante deve contribuire attivamente, ascoltando e reagendo di conseguenza. Ciò significa che bisogna formare ed educare coristi “reattivi” che ascoltano ciò che accade intorno a loro e, quando la musica lo richiede, aggiungono qualcosa di proprio. Più il gruppo diventa cameristico o solistico, più la responsabilità è condivisa.
Per il direttore significa dare ancora più fiducia e condividere l’autorità con i propri coristi, diventando arbiter elegantiarum.
Negli ultimi anni ho potuto godere di momenti di estrema soddisfazione quando nel coro è maturata la voglia di crescere e migliorare. I coristi aprivano discussioni (ben vengano, se positive), ma bisogna sempre saperle gestire, portandole nella direzione giusta e costruttiva. La differenza di qualità dei cori dipende proprio dal numero dei coristi che sanno assumersi la responsabilità delle linee che stanno cantando.
Il cantare in coro insegna anche questo: sentirsi responsabili, fidarsi dei colleghi coristi e osare lasciarsi andare, sentendo l’energia scorrere liberamente attraverso di noi fino al pubblico durante un concerto, prova sia di abilità musicale che di tecnica vocale. Si investe lavorando per anni per poter raggiungere questi momenti fuggevoli di sublimazione, istanti di estasi, che però ci ripagano e ci appagano pienamente per tutto l’impegno comune e condiviso nella ricerca della verità… mai raggiungibile! Un lungo cammino insieme e d’insieme che parte da molto lontano.

Passione e responsabilità a pari passo

Penso che sia importante poter scegliere e preferire coristi musicalmente più intelligenti e disponibili piuttosto che quelli con voci belle con troppa personalità, di solito meno propensi a integrarsi nel gruppo e di conseguenza meno guidabili e gestibili. Avere istintivamente la capacità di fondersi con gli altri vuole dire sacrificarsi come persona (l’annichilimento dell’ego), come individuo, nel nome della comunità; diventando una nuova entità: il coro, un momento e un valore sociale non indifferente e troppo poco considerato.
La fase necessaria per poter entrare in una nuova dimensione spirituale e poter lasciarsi andare, per avvicinarsi a ricreare quell’opera d’arte che, se tale è, fa parte della “follia” che è componente importante di tutti noi.
Il canto era già per gli antichi Greci la dimensione più alta della bellezza e della forma. Platone insegnava che solo nell’ambito della cosiddetta “follia” accade qualcosa di straordinario (di inspiegabile e irrazionale), di nuovo, di bello e di buono. Senza la passione (dimensione non logico razionale, ma essenziale) e il desiderio empatico, erotico e seduttivo che diventa precondizione dell’apertura mentale, non riusciremmo a fare niente nella vita, così come nella musica.
I musicisti hanno delle cose da dire ed esprimere e sentono di poterlo fare proprio con la musica, con entusiasmo ed enfasi grazie ai quali le parole non servono più. Dobbiamo ringraziare la passione, così come i sogni, grazie ai quali regolarmente oltrepassiamo il confine della ragione, entrando nel teatro della “follia” che colora il nostro modo di esprimerci e ci rende così diversi l’uno dall’altro. Per rendere possibile l’arte bisogna trovare il modo e le condizioni necessarie che ci faranno scoprire che il mondo non è solo bianco o nero, ma pieno di infinite sfumature e sensazioni. Senza una solida base tecnico-scientifica (razionale) però non possiamo arrivarci. Passione e responsabilità vanno a pari passo. Ed è bello scoprire che da soli non possiamo farcela. La musica è un’esperienza unica e va fatta, condivisa e vissuta assieme. Ascoltatori e musicisti interagiscono e partecipano all’elevarsi del suo divenire che è capace di muovere le coscienze mettendoci in sintonia gli uni con gli altri.
Ci vuole infinita pazienza ed esperienza da parte del direttore e rispetto e ammirazione per il progredire del corista singolo prima e – di conseguenza – del coro poi, nel lungo percorso che li unisce.
Diciamolo sinceramente: il cantare in coro è oltre a essere valore sociale e culturale un’inestimabile fonte di piacere, che fa e ci fa stare decisamente bene e meglio

*Il presente contributo è la sintesi di una riflessione tenuta all’incontro Parliamo di coro, organizzato da Asac Veneto nell’ambito dell’attività dell’Accademia Piergiorgio Righele.

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