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(Non) basta un click
L'editoria ai tempi del web

di Giovanni Cestino
dossier "Muoversi nel web", Choraliter 61, maggio 2020

Così come la maggior parte delle nostre attività quotidiane, anche il far musica (corale, in questo caso) non sfugge a una costante interazione con la tecnologia, o può addirittura rinunciare, in molti casi, alle risorse offerte dalla rete. Pensate per un attimo al vostro ultimo concerto (perdonando chi scrive per avervelo rammentato in questo frangente): quante delle partiture provenivano dal web, anziché da una biblioteca? Di quante avevate ascoltato un’esecuzione da qualche parte in rete, e quante avete invece studiato esclusivamente al pianoforte o in coro? Di quante avete acquistato una copia ordinandola comodamente dalla vostra scrivania, invece che di persona, nel vostro negozio di musica di fiducia?

Difficilmente otterrete solo risposte che escludono ogni tipo e livello di mediazione tecnologica – e non v’è nulla di male, in questo. Tuttavia – specie nel momento di sovraesposizione al mondo virtuale che tutti stiamo vivendo – una panoramica di tutto ciò che passa per il digitale nella nostra esperienza corale può offrire qualche spunto per procedere, in futuro, con maggior consapevolezza.
Lo si è detto in tutte le lingue: il web è un’enciclopedia (per usare un termine caro a Umberto Eco) non sempre autorevole, poiché frutto di una miriade inarrestabile di operazioni, autonome o collaborative ma non sempre verificate, a noi accessibili in gran numero e in modo tutto sommato semplice. Da questo punto di vista, la musica corale gode senz’altro di un posto privilegiato, se si considera che tra gli archivi virtuali di testi musicali – tra cui il più famoso è l’International Music Score Library Project (IMSLP) – il mondo della coralità è il solo a beneficiare di un sito interamente dedicato al proprio repertorio, ovvero la Choral Public Domain Library (CPDL).
Come vale per le voci di Wikipedia, la qualità delle sue quasi 35000 partiture, approntate da utenti provenienti da tutto il mondo, è assai varia per attendibilità e correttezza: si va dal genere della filologia fai-da-te – fatta cioè con le fonti che l’editor aveva a tiro, e solitamente con scarso rigore metodologico – a quello dell’improbabile trascrizione di musica mensurale con un po’ troppi bemolli in chiave… E la stessa oscillazione qualitativa si riscontra anche nelle informazioni di corredo alle opere (per chi ne volesse un assaggio rimando alla pagina di Matona mia cara di Orlando di Lasso).
Non bisogna tuttavia stigmatizzare i progetti community-driven (cioè aperti al libero contributo di tutti gli utenti) in quanto tali, soprattutto quando si rivelano essere fortunate eccezioni: penso ad esempio a GregoBase, un database di canto gregoriano realizzato in modo del tutto volontario, ma che spicca per ricchezza, rigore e – quanto è più importante – per verificabilità delle informazioni.

Altro discorso vale invece per quelle meritorie operazioni di diffusione online di edizioni scientifiche. Accanto ad alcune più tradizionali come la ben nota Neue Mozart-Ausgabe (NMA) o la The new Guillame Du Fay Opera Omnia – lasciata purtroppo incompiuta dal compianto Alejandro Enrique Planchart – se ne affiancano altre più innovative come la Marenzio Online Digital Edition (MODE) che sfruttano appieno le potenzialità dell’ipertesto informatico divenendo strumenti di studio e di ricerca di notevole duttilità.

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Nel nostro rapporto quotidiano con la musica scritta, dunque, non possiamo trascurare gli immensi vantaggi esplorativi del web, validi tanto per qualsiasi archivio digitale quanto per i molti strumenti bibliografici a nostra disposizione. È infatti per i cataloghi online (gli OPAC delle singole biblioteche, gli OPAC nazionali come il catalogo SBN, o i MetaOPAC come WorldCat) e per i repertori come il RISM (Repertorio internazionale delle fonti musicali) che dovrebbe passare oggi, senza eccezione, qualsiasi ricerca di un testo musicale. In tutti i casi vale un solo comandamento: mai fermarsi al primo click. Approfondite, siate curiosi, ma soprattutto dubitate. E date alla scelta dell’edizione su cui fondare la vostra esecuzione lo stesso valore di qualsiasi altra vostra decisione interpretativa.
Nel passaggio poi dal testo alla performance – o meglio, nel continuo rapporto tra questi due poli del far musica – le possibilità del digitale stanno oramai conquistando sempre più rilievo, anche in questo caso sia in forme open che in prodotti proprietari. Accanto quindi a piattaforme come Choralia, con la sua ricca selezione di file MIDI per lo studio dei brani, trovano posto iniziative editoriali come quelle di Carus Verlag, che tramite la sua applicazione consente di studiare diverse partiture in catalogo sul proprio dispositivo mobile. Si può evidenziare la propria parte all’interno di una registrazione professionale (per poi cantarvi sopra), ridurre la velocità per far pratica nei passaggi più complessi, o saltare comodamente da un punto all’altro della partitura con un solo tap sullo schermo. Applicazioni come questa ridisegnano notevolmente l’apporto della tecnologia nell’apprendimento musicale, modificando anche la mission di un editore musicale: non si stampano più soltanto pagine di musica, ma si vogliono offrire strumenti innovativi per apprenderle.

Dalla partitura all’esecuzione, il digitale ha trovato il suo posto a poco a poco anche dentro la performance. Se le luminescenze dell’iPad di Yuja Wang non fanno più notizia, è altrettanto vero che sempre più editori cedono alle lusinghe della distribuzione in digitale, così che accanto agli store di applicazioni o di e-book si aggiungono ora anche quelli di partiture (se non ne avete mai sentito parlare, digitate nkoda sul vostro motore di ricerca). Anche in questo caso il passaggio dalla carta allo schermo si compie sempre nel segno di una portabilità dell’esperienza: ciò che si faceva in modo analogico deve potersi fare anche in digitale. È per questo motivo che tutte le applicazioni (da quelle di Bärenreiter o di Henle a quelle libere come Piascore) permettono di aggiungere annotazioni, modificare il layout della pagina e così via.
A confronto con altri contesti musicali, il mondo corale sembra però ancora legato a dinamiche tradizionali: la carta è ancora padrona indiscussa della scena, forse per via di quella sana indole paritaria che il far musica in coro dovrebbe ispirare. Si può forse pretendere che trenta persone dispongano tutte di un buon tablet (non parliamo poi di uno sfavillante e-ink tablet come PadMu), anche se ciò risolverebbe problemi di illuminazione, di parti che si squadernano nel bel mezzo di un concerto o che vanno perdute senza poter essere recuperate da qualche parte su una cloud?

Mondo digitale e far musica, dunque, sembrano condurre una danza di seduzione lunga ed elegante, ma soprattutto che non ha paura di prendersi i suoi tempi. Nessuna rivoluzione sembra essere in atto o in vista, né dobbiamo temere di rimanere imprigionati nelle nostre vecchie abitudini analogiche mentre tutto il resto del mondo pian piano… goes digital. Il lock-in tecnologico (ovvero il doversi accontentare non delle condizioni tecniche migliori, ma di quelle più diffuse) non deve essere una paura, né tantomeno un motivo di impaccio. Non sono dopotutto secoli che ci accontentiamo – pur con ottimi risultati – di una forma di tecnologia condivisa, seppur riduttiva e imprecisa, come la nostra scrittura musicale?

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