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Carla Magnan
Dare forma all'acqua

di Marco Della Sciucca
Dossier compositori, Choraliter 65, settembre 2021

Il Dossier compositore di questo numero è dedicato a Carla Magnan, compositrice genovese le cui opere sono tra le più apprezzate nel nostro paese e hanno ricevuto importanti riconoscimenti all’estero. È un’artista particolarmente attenta all’universo “voce”, in tutte le sue declinazioni, da quella solistica, all’ensemble, al coro, dal teatro alla musica liturgica. 

«Arte contemplativa, senso del sacro» / «liberata sfrenatezza». Tra questi due poli estetici che la critica ha riconosciuto all’interno della sua produzione, dove si sente più a suo agio, dove risiede il cuore pulsante della sua mano creativa?

In realtà, non riesco a collocare il mio lavoro in uno o l’altro di questi due poli estetici, ma in un continuo “viaggio” tra essi e altre influenze. Come ha scritto di me Renzo Cresti nel suo ultimo libro Musica presente, tendenze e compositori di oggi (edito da Libreria Musicale Italiana), «nel suo percorso compositivo ogni brano è un mondo a sé, per cui è difficile evidenziare tratti stilistici costanti». Comporre non significa altro che “mettere insieme”, dare una forma “adeguata” all’espressione di concetti, sentimenti ed emozioni, suscitati da cose spesso diverse e spesso sfuggenti ogni definizione precisa. Così ogni forma, ogni colore, ogni spazio e ogni tempo – e, in genere, ogni valore materiale costituente il mondo delle arti – si fondono e si confondono in un reciproco scambio continuo, tracciando molteplici e potenzialmente infinite corrispondenze.

Dunque, mi pare di capire che la sua musica non è solo ascolto, ma percorso multisensoriale, gioco interattivo tra gli infiniti codici e dimensioni delle diverse arti.

Proprio così: scrittura, pittura, scultura, ma anche architettura, matematica e ogni altra forma d’espressione – musica compresa – provocano una specie di “implosione” nella mia personale percezione emotiva. L’occhio articola lo spazio, scindendo, ricomponendo e alterando le immagini, quasi fosse una sorta di lente, modellando quindi visioni e illusioni in modi infinitamente diversi. Parimenti l’orecchio capta la voce più interna di queste costruzioni e il senso più intimo di queste trasformazioni continuamente in evoluzione. E il pensiero (e la tecnica) cerca di fare la cosa più difficile, dare “la forma all’acqua”, attraverso la forza del segno grafico e l’energia del suono, in una sorta di simbiosi, andando a creare ulteriori percezioni e stimoli. Heine descrive perfettamente questo delicato equilibrio: «La musica è una cosa strana. Oserei dire che è un miracolo, perché sta a metà strada fra pensiero e fenomeno, fra spirito e materia, una sorta di nebuloso mediatore uguale e diverso da ciascuna delle cose che media: spirito che necessita di una manifestazione nel tempo e materia che può fare a meno dello spazio».

La provoco con un altro binomio: musica del passato / musica del futuro. La sua opera è sicuramente uno “stare nell’oggi” e, perché no, uno “stare nel futuro”: raffinate sonorità che modellano il suono contemporaneo con un gusto molto personale e accattivante; eppure non è raro imbattersi in composizioni che occhieggiano alla tradizione musicale del passato, quando non ne sono addirittura riscritture, riletture. Qual è il suo rapporto col passato, con la storia, con i grandi maestri della tradizione classica?

Noi compositori siamo figli del nostro passato. Viviamo in un’epoca che ci ha consegnato un passato ricco e questa è una cosa stimolante, che può essere anche letta come un grande peso che ci portiamo dietro. Ma ciò non è assolutamente un freno alla creatività e alla scrittura di lavori nuovi. Difficile elencare i compositori che mi hanno accompagnata, e lo fanno tuttora, nel mio percorso creativo. Non smetto mai di studiare e ascoltare. E cercare. Facendo parte, poi, del coordinamento artistico della rivista SuonoSonda, semestrale di ricerca orientato all’approfondimento dei tratti più innovativi della musica recente, che ha il suo “centro musicale” in un cd di circa 60 minuti contenuto all’interno della rivista, ho anche l’occasione straordinaria di poter confrontare e seguire gli sviluppi più interessanti della composizione contemporanea di tutti i paesi.

E poi c’è anche la musica antica…

Lo studio e l’amore per lo studio della musica antica mi hanno creato una forma mentale aperta alle sollecitazioni naturali che provengono dal Barocco e dal Classicismo, richiami che non si ritrovano esplicitamente nel mio modo di comporre ma che corrono sotterranei, indirizzando il senso della forma e del suono, in un gioco di rimandi che si cercano e si perdono, che traduco in linee melodiche. Attraverso il vissuto della musica antica ho avuto modo di capire veramente cos’è il ritmo e come si gestisce a livello esecutivo, la valenza e la duttilità della dinamica. Pur avendo esperienza di musica da camera con il pianoforte, suonare in ensemble di musica antica per me è stato rivoluzionario, e illuminante dal punto di vista compositivo. Suonandole, ho analizzato le partiture dei grandi compositori del passato – Bach, Vivaldi, Rameau, Marais, Couperin… – vedendoli piegare ritmo, dinamica, differenze sonore, il tutto basandosi su uno strumento, il clavicembalo, che apparentemente non aveva la possibilità di farlo. Mi piace applicare, sperimentando, queste pratiche compositive e la tecnica strumentale al pensiero contemporaneo. L’uso delle forme metriche, spinte a un tale punto di elaborazione da farle aderire istintivamente alle esigenze più intime del pensiero: potenziando il legame connaturato tra ritmo e contenuto semantico e vivendo il segno ritmico come fatto espressivo. Mi piace questo ponte continuo tra presente e passato, ho questa necessità come spunto creativo. L’idea di partire da una sensazione presa altrove mi arricchisce. L’arte in genere ha sempre rinominato un mito o una storia, rileggendola con la chiave dell’oggi. Credo sia giusto ritrattare dei temi non nuovi, purché se ne parli con un linguaggio contemporaneo.

A volte, ripartire da un classico potrebbe incutere un certo timore. Si ritrova in questa dimensione espressiva?

No, ripartire da un classico non mi spaventa. C’è sempre l’esigenza di raccontare una storia nuova, spesso l’idea iniziale resta un pretesto perché poi la composizione prende tutt’altra direzione. La tradizione non si cancella, ha molto da insegnarci. Va conosciuta, elaborata e riconsegnata rimodulata, ricomposta attraverso il nostro sentire e consegnata al futuro, con una nuova vita. Un altro spunto interessante è parlare quindi del valore delle trascrizioni e delle loro trasformazioni. Dal mio punto di vista, la “ri-lettura” diventa “ri-creazione e re-invenzione”: in ogni senso.

Abbiamo indagato in termini alquanto generali alcuni aspetti estetici del suo mondo sonoro; passerei ora al suo rapporto più in particolare con la vocalità e la coralità. Cosa accade quando le chiedono di declinarsi vocalmente?

Il testo, e quindi la parola, sono la base di partenza per ogni costruzione formale e poetica. La “parola” stessa, con il suo stesso contenuto, è “suono”, molto prima che segno o immagine scritta, ed entrambe obbligano al lavoro formale: il fascino che generano è legato al controllo su un qualcosa che è creato dall’uomo ed è contemporaneamente misterioso, a cui non sfugge la componente di imprevedibilità apportata dal “mezzo” sonoro che trova, nel timbro espressivo del cantante e del parlante, eterogeneità, compiutezza o ruvidezze. Suono e parola hanno in comune il fascino e la potenza espressiva di qualcosa che non deve essere necessariamente presente, ma che al tempo stesso è quasi controllabile, e proprio mediante la forza dell’estensione del canto, quindi tramite la parola e le figure retoriche, il verso del suono. Il costante gioco di equilibri tra queste realtà fa sì che le forme si risolvano in continuità l’una nell’altra, i suoni si raggrumino e ne risulti qualcosa che, per sua stessa oscillazione e atmosfera nebulosa, contribuisce a rendere la nuova forma musicale più istintiva, forse più facilmente percepibile. Ma è sempre la volontà del compositore, in base al desiderio di mascherare o rendere palese la propria progettualità, che dà un senso o una prospettiva alle forme formanti dietro le forme formate.
La “parola” con la sua possibile reiterazione e la ritmicità dei suoni unita alle nuove possibilità fonetiche e timbriche, sono non soltanto efficaci per la trasmissione del messaggio compositivo, ma inducono anche a un gioco intenso tra la concreta tangibilità del suono e l’astrazione del pensiero, aprendo ulteriori prospettive al compositore. La maniera di utilizzare i segni, e quindi le espressioni, ogni loro gestualità, ogni loro presenza o trasformazione, va considerata non più e non solo come facente parte del calcolo strumentale del modello di un’opera musicale, ma come parti integranti di un’opera narrante. Come il suono modula il divenire, così la parola, trasformata in segno, vuol mantenere presso di sé la funzione di provocare l’intuito dell’ascoltatore lungo il percorso creativo del lavoro, sospingendolo verso i limiti del comprensibile, tra le visioni e le illusioni evocate. 

C’è però un altro aspetto nella sua creatività che mi pare centrale: quello della scrittura collettiva, della collaborazione creativa. Mi riferisco al fatto che più compositori possono collaborare nella scrittura di una stessa opera musicale, un’idea che pare infrangere il mito dell’artista solitario. La sua collaborazione con la compositrice Carla Rebora, sua compagna di corso sin dai tempi in cui frequentavate la classe di Composizione di Azio Corghi all’Accademia di Santa Cecilia, è ormai un’esperienza collaudata e ricca di risultati molto apprezzati.

Scriviamo a quattro mani da molti anni, dal momento in cui componemmo e pubblicammo il nostro primo brano scritto insieme: era il 2004 e l’opera era Hymnen su testi di Novalis per soprano e gruppo cameristico. L’occasione era stata interessante, inaspettata, una scommessa. Il Festival di Musica Sacra di Pordenone e un eccellente ensemble dedito alla musica contemporanea con cui avevamo entrambe già lavorato: il Freon Ensemble diretto da Stefano Cardi. Così è nata la nostra forma di collective composition che si pone come esperimento assolutamente unico nella storia della musica e che ci ha portato a continuare a proseguire nel tempo con diverse opere, nuovi procedimenti di collective creation, aperture ad altre compositrici e compositori, adesione a progetti e molto altro. Crediamo che la frontiera più importante nella ricerca della propria identità sia proprio nello sguardo aperto verso l’altro. Idem e Autós convivono nel nostro percorso creativo non solo come ricerca compositiva ma anche come pratica compositiva. Infatti, il processo creativo proprio del compositore è da sempre un atto privato, isolato, individuale; come affermano Siobhan McAndrew e Martin Everett, due studiosi britannici che hanno approfondito il tema della creazione collettiva, «composers generally write music alone, and we commonly understand the great figures of classical music as singular geniuses» (“di solito i compositori scrivono musica da soli, ed è cosa comune pensare alle grandi figure della musica classica come a geni solitari”). La composizione musicale come atto collettivo e inclusivo è la nostra carta vincente, la nostra grande forza che rinnova noi stesse e la nostra creatività aprendo anche grandi spazi di studio e di ricerca e conducendoci a indagare nuove vie che ricadono positivamente nella nostra personale attività compositiva. Pur mantenendo entrambe la nostra originalità creativa e la nostra autonomia nella carriera compositiva, insieme diamo vita a quello che è un vero e proprio “unicum” nella storia della musica. Particolarmente significativo è il rapporto di riflessione e scrittura a quattro mani anche con l’aspetto drammaturgico dei nostri lavori, la cura e l’analisi delle figure che emergono dai nostri lavori, sia cameristici che teatrali.

Insieme, avete anche trascritto e rivisitato alcuni lavori del vostro mentore e maestro, Azio Corghi…

Sì, e anche in quei casi abbiamo trovato molti spunti di “crescita” e nuove forme di collaborazione e creazione “a due”. Per Casa Ricordi abbiamo realizzato due versioni nuove del famosissimo balletto del Maestro, Un petit train de plaisir, che vanta numerose esecuzioni mondiali in diverse versioni, con e senza coreografia e con la possibilità di essere eseguito accompagnato dal testo appositamente scritto da Quirino Principe.
Inoltre abbiamo scritto lo spettacolo
Democracy (a sei mani, anche con Roberta Vacca) e abbiamo partecipato a numerosi lavori di scrittura collaborativa come Mediterranea Onde Sonore, spettacolo su testi di Maria Letizia Gorga. Molti sono i lavori che abbiamo nel cuore, ma voglio citarne due in particolare: L’aurea d’amore (corto d’opera per soprano, tenore e orchestra da camera) e Il salto degli Orlandi (opera buffa in atto unico per voci ed ensemble). Li ho voluti citare poiché hanno un’origine comune: il nostro rapporto con Marco Santagata, intellettuale, scrittore, critico letterario e accademico recentemente scomparso. Entrambi i libretti sono tratti da due suoi romanzi. L’amicizia e la collaborazione che si è creata tra noi è stata veramente speciale.

Con questi ultimi lavori torniamo al suo rapporto con la voce, le voci, la coralità: è solo un’esigenza estetica, quella di completare con il medium vocale, con la semanticità della parola, il suo mondo espressivo, o c’è stata una frequentazione di qualche tipo con il mondo corale o magari col mondo dei cantanti?

Nel mio percorso formativo ho sia cantato sia diretto un coro. La voce e la coralità rappresentano quindi qualcosa di vissuto e familiare. La voce possiede il fascino del controllo su qualcosa creato dall’uomo e contemporaneamente misterioso, a cui non sfugge l’imprevedibilità apportata dal “mezzo” sonoro, che trova nel timbro espressivo del cantante – e del parlante – eterogeneità e compiutezza, linearità e increspature, e soprattutto il senso profondo dell’imprevedibilità.

E il suo rapporto con gli interpreti?

Il rapporto con gli esecutori è fondamentale per un compositore. Al di là delle idee e delle competenze tecniche di partenza, il confronto continuo con l’interprete/gli interpreti è necessario per sviluppare la propria tecnica di scrittura. Scrivere bene significa essere in grado di far trasparire all’ascoltatore la propria intenzione timbrica, agogica ed emozionale. Il che non significa che il brano debba essere piacevole per forza, ma che debba essere in grado di far arrivare il messaggio voluto dal compositore in modo chiaro, attraverso l’interprete, che ha facoltà di tradurlo e interpretarlo con bravura. Perché ciò avvenga è sempre più necessaria una stretta collaborazione tra l’uno e l’altro, in un rapporto di fiducia reciproca. E avverà che alcune volte il compositore dovrà rinunciare a qualche buon proposito ma strumentalmente o vocalmente poco attuabile, l’interprete sarà portato a sfidare le proprie competenze e i propri limiti per esaltare il fine da raggiungere. Il brano finale si trasforma in “una strada da percorrere insieme”.

Cosa comporta oggi l’essere una compositrice donna?

Sono passati i tempi, per fortuna, in cui Schönberg trovava perfettamente naturale il fatto che una donna non potesse essere compositrice, o in cui l’accesso alle classi di composizione era escluso al genere femminile. Non si può negare che finalmente, nel secondo Novecento, la “scrittura femminile” si sia imposta con forza nell’universo della musica “colta”: Saariaho, Gubaidulina, Ronchetti, Neuwirth sono i primi nomi che mi vengono in mente. Per la mia esperienza posso dire che il pregiudizio coinvolge soprattutto le posizioni di potere. Basta guardare i cartelloni degli enti lirici o delle grandi associazioni del settore musicale contemporaneo per accorgersi di quante compositrici (o direttrici) vi sono presenti, mentre non ho mai avuto problemi con gli esecutori di musica contemporanea e non, di qualunque sesso essi siano. La loro dedizione, passione, voglia di studiare, di capire e collaborare con noi compositori è encomiabile. Se alcuni miei lavori hanno avuto qualcosa come più di quaranta esecuzioni soprattutto all’estero e la mia musica continua a essere richiesta, eseguita e presente, molto lo devo a loro. Non si dovrebbe più parlare di maschile e femminile, ma di musicisti. E in particolare credo che ogni compositore sia un intellettuale libero di esprimersi nel proprio lavoro, uomo o donna che sia. Ma fin a quando si continua a parlare di compositrici, di fatto mettendoci nel “reparto di compositori donne” ossia sottintendendo “non si sa se in grado di competere con i colleghi maschi”, vuol dire che ancora sono molte le difficoltà da superare. Non potremmo pretendere di essere considerate compositrici (sostantivo femminile di compositore) e basta? Sarebbe bello arrivare al giorno in cui si possa imbastire una discussione sulle differenze del comporre dei singoli autori, donne o uomini che siano, e scoprire poi che no, non ci sono differenze.

Del resto, esiste già una difficoltà oggettiva a introdurre la produzione contemporanea nelle proposte concertistiche delle istituzioni musicali, figuriamoci se poi ne facciamo anche una questione di genere.

L’insensibilità e l’inadeguatezza di moltissime istituzioni rispetto alla creazione musicale contemporanea rendono difficili le condizioni di lavoro dei compositori. È difficile per tutti emergere, donne o uomini. L’Italia, tranne casi sporadici, non dedica una grandissima attenzione alla produzione di opere nuove. Abbiamo molto spesso teatri che vivono più che altro di repertorio e questo è sicuramente un brutto segno per la cultura italiana. Fortunatamente ci sono alcuni enti che hanno ancora voglia di affiancare al genere tradizionale la produzione di nuove opere, che poi, se resteranno nelle programmazioni, andranno a formare il repertorio del futuro. Vorrei dire ai sovrintendenti e ai direttori artistici dei più importanti enti musicali italiani di non aver paura della musica contemporanea, di non avere paura del presente. Oggi noi compositori siamo tanti e più “articolati” del passato, è vero, ma vale la pena raccontarci e investire nel nostro lavoro.

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